Omelie 2014 di don Giorgio: Ultima Domenica dopo l’Epifania

2 marzo 2014: Ultima dopo l’Epifania
Os 1, 9a; 2, 7b-10. 16-18. 21-22
Ultima domenica dopo l’Epifania: con la prossima inizierà la Quaresima. È anche detta domenica “del perdono”. La parabola del Vangelo è la migliore rivelazione del perdono di Dio.
Ma partiamo del primo brano. Se avete fatto caso sul foglietto, si tratta di una serie di frasi presi, non in modo continuativo, dal capitolo secondo del libro del profeta Osea.
Nonostante questa discontinuità del testo, dovuta a esigenze liturgiche, possiamo tuttavia farci una certa idea della vicenda che, se l’autore del libro la racconta ora in prima ora in terza persona, è sempre una storia autobiografica che però, come vedremo, va oltre il caso personale del profeta.
Osea, che ha profetizzato nell’ottavo secolo avanti Cristo, nel Regno del Nord, dove era nato, narra all’inizio del suo libro la sua vicenda matrimoniale. Una vicenda strana e sconcertante. Sembra, dico “sembra” che il Signore stesso l’abbia spinto a scegliere come sposa una prostituta. Potrebbe anche che si trattasse di una prostituta sacra al servizio dei santuari cananei. La cosa cambia poco, poiché si tratta in ogni caso di una moglie che tradisce l’amore di Osea. Un amore così sincero da parte del profeta che farà di tutto per riconquistarsela. «Ecco, io la sedurrò (di nuovo), la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore». Letteralmente, “parlerò sul suo cuore”. La descrizione realistica, commenta Gianfranco Ravasi, “marca maggiormente quell’intimità assoluta di quella stretta che cancella un passato di tradimento e di sofferenza”.
Questa vicenda autobiografica di Osea non avrebbe alcun senso, se non fosse vista dallo stesso profeta come metafora che richiama la relazione tra Dio e il popolo eletto. Jahwe è lo sposo d’Israele e il rapporto, come tra due innamorati, si caratterizza per una comunione intima ed esclusiva che il popolo infrange con il suo peccato, che si esprime nell’andare dietro ad altre divinità, indicate con il termine di “amanti”. Allora capite il motivo per cui il profeta narra la sua avventurosa storia personale. Si tratta di una vicenda che va al di là di un fatto puramente familiare. Per essere più chiari: la vicenda autobiografica serve al profeta per rileggere il comportamento di Israele nei confronti del Signore. Ecco perché abbiamo parlato di metafora. Nel deserto, infatti, si era consumato il tradimento idolatrico del vitello d’oro. Tuttavia Dio non si era rassegnato e aveva voluto trasformare quel luogo solitario nella sede dell’intimità, in cui svelare di nuovo al popolo eletto la sua parola d’amore e condurlo verso la meta della libertà.
Notate: la parola ”tradimento” nella Bibbia richiama sempre l’adulterio, così la parola “prostituzione” richiama l’idolatria. La Bibbia, a differenza di noi puritani, usava un linguaggio più realistico, addirittura erotico (basterebbe pensare al “Cantico dei cantici”). Alcuni grandi mistici usavano lo stesso linguaggio.
Anche la parola “carnalità” dovremmo rivederla sotto un’altra luce. Non dimentichiamo che il Figlio di Dio si è “incarnato”, ovvero ha preso carne umana. Un linguaggio molto realistico, e pensare che a usarlo è stato il grande teologo e mistico san Giovanni evangelista. Qui vorrei fare una digressione. Poi capirete il motivo. Sono rimasto colpito quando, leggendo don Lorenzo Milani, mi sono imbattuto in queste parole: “amore carnale”, naturalmente da intendere bene.
Ha spiegato lo stesso don Lorenzo: «Se credessi davvero al comandamento che continuamente mi rinfacciano, e cioè che bisogna amare tutti, mi ridurrei in pochi giorni un prete da salotto, cioè da cenacolo mistico intellettual ascetico, e smetterei di essere quello che sono, cioè un parroco di montagna che non vede al di là dei suoi parrocchiani… Se offrissi un amore disinteressato e universale, di quelli di cui si sente parlare sui libri di ascetica, smetterei d’esser parte vivente d’un popolo di montanari…». Ancora: «Il sacerdote è padre universale? Se fosse così mi spreterei subito… Vi ho convinto e commosso solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature ma che le amavo con amore singolare e non universale». E ancora: «Non si può amare tutti gli uomini. Di fatto si può amare un numero di persone limitato… E siccome l’esperienza ci dice che all’uomo è possibile solo questo, mi pare evidente che Dio non ci chiede di più». In questo senso vanno intese le parole: “amore carnale”, ovvero amore incarnato nella realtà esistenziale.
I profeti non avevano timore a parlare di amore carnale di Dio, dal momento che lo stesso Figlio di Dio si è incarnato. Questo amore incarnato è amore di fedeltà alla persona amata. Dio non tradisce mai i suoi figli, siamo noi a tradirlo per altri amori, ed è qui che entra in scena quel mondo di idoli che ci distolgono dall’amore fedele di Dio. Ecco dove sta l’adulterio secondo la Bibbia. Ed ecco perché la Bibbia parla di prostituzione. In questo senso va letto l’ordine di Dio al profeta di prendere come sposa una prostituta.
La strana e sconcertante vicenda sentimentale di Osea è ancora oggi da rileggere metaforicamente, ma applicandola al rapporto tra Dio e l’umanità intera, a iniziare dalla Chiesa di Dio. Lo so che, come dicevo poco fa, ci urta parlare di adulterio della Chiesa o di prostituzione. Per Chiesa intendo la comunità dei credenti, dalla gerarchia ufficiale fino all’ultimo tra i cristiani. Parlare di amanti o di idoli è la stessa cosa. Quante volte tradiamo l’amore di Dio scegliendo quei piccoli o grandi vitelli d’oro che rappresentano le immagini più blasfeme di Dio stesso.
Nella sua lettera ai Romani, l’Apostolo Paolo contrappone lo Spirito alla carne e alla legge. La legge è l’espressione del peccato che è presente nella carne. Oramai conosciamo un po’ il linguaggio e il pensiero di Paolo: la carne rappresenta il mondo terreno, tutto ciò che è umano, contaminato però dal peccato, che non è tanto una questione di tipo moralistico o comportamentale, ma è la disarmonia, lo squilibrio che si è creato nel disegno originario di Dio. Un disegno che era particolarmente bello e buono. Il Figlio di Dio, incarnandosi, assumendo cioè la carne “simile a quella del peccato e a motivo del peccato” che c’è nella carne, “ha condannato il peccato nella carne”, per cui ha liberato la carne dal peccato. Dunque, Cristo non ha condannato la carne in sé, il mondo umano in sé, ma il peccato, che ha rovinato il mondo terreno. Cristo, in altre parole, ha restituito all’umanità la sua armonia originaria. Ecco dove sta l’ottimismo cristiano. La nuova legge allora non è più espressione della carne contaminata dal peccato, ma espressione dello Spirito che dà vita all’umanità. Lo Spirito santo restituisce a ciascuno di noi il nostro respiro divino. Ciò non significa che siamo diventati puri spiriti o anime che volano tra le nubi del cielo. Il cristianesimo è Umanesimo, che è stato rivalutato in tutta la sua integrità dal Figlio di Dio che si è fatto carne.
Passiamo al brano del Vangelo. È il racconto di una tra le parabole più belle narrate da Luca: è la parabola del figliol prodigo, che qualcuno ha definito: “un vangelo nel vangelo”. So-prattutto per questa parabola, Dante Alighieri ha definito l’evangelista Luca: “scriba mansuetudinis Christi”, ovvero scrittore della misericordia di Dio.
Diciamo subito che non è del tutto esatto, cioè non coglie il cuore del messaggio di Cristo, parlare di parabola del figlio prodigo. In realtà, il vero protagonista non è il figlio minore che se ne va di casa e poi, pentitosi, torna, abbracciato dal padre. Da non dimenticare anche l’altro figlio, quello maggiore, che rimane in casa, ma non sa accogliere il comportamento del padre. Il vero protagonista è lui, il padre, nel suo amore, nella sua ansia, nella sua attesa, nella sua gioia. È sempre il padre che prende l’iniziativa: va incontro al figlio appena lo vede in lontananza, lo accoglie senza porre riserve e lo riabilita nella sua condizione precedente. Anche nei riguardi dell’altro figlio, che gli è rimasto fedele, il padre manifesta lo stesso amore e la stessa bontà. Ora che non vuole più entrare in casa, perché arrabbiato a causa del ritorno del fratello e della calorosa accoglienza, è ancora il padre a prendere l’iniziativa: esce e lo prega di prendere parte alla sua gioia.
Nell’atteggiamento di questo figlio che è rimasto in casa e che non sa capire la misericordia del padre, si può vedere l’atteggiamento farisaico, dei tempi di Cristo e di ogni epoca.
Don Primo Mazzolari ha scritto, nel 1934, un libro-commento a questa parabola, dal titolo: “La più bella avventura”. Un libro che ha suscitato una dura reazione all’interno della Chiesa, che si è vista rispecchiata nel figlio maggiore che si chiude all’accoglienza dei lontani, ed è stato poi condannato dal Sant’Officio.
In realtà, il prete mantovano, più volte censurato e anche sospeso a divinis – pensate: oggi è ritenuto un profeta, promosso anche dai papi e dai vescovi – aveva inteso invitare il cattolicesimo italiano ad aprirsi ai “lontani” e abbandonare ogni atteggiamento di paura e di contrapposizione polemica verso coloro che sbrigativamente erano considerati estranei, se non addirittura nemici, rispetto alla comunità cristiana. Pur senza nominarli, i protestanti, ma anche i modernisti, i liberi pensatori e gli spiriti critici nella Chiesa, erano gli interlocutori immaginati da don Mazzolari durante la stesura del libro.
La parabola del figliol prodigo è assunta come immagine della Chiesa del tempo, ma è sempre attuale. Il figlio minore rappresenta i lontani, mentre il maggiore, che se la prende per la conversione del fratello minore, perduto e ritrovato, rappresenta chi si chiude in un atteggiamento teso a salvaguardare solo i propri privilegi. La polemica è contro coloro che non escono dal tempio e preferiscono rimanere tra le mura sicure e accomodanti della propria cittadella. La più bella avventura è proprio la conversione, che coinvolge tutti, chi è dentro e chi è fuori, chi vive nella Chiesa e chi se ne allontana.
Pensate: noi preti e catechisti abbiamo preso questa parabola come riflessione ed esame di coscienza in preparazione alla confessione! Ecco, potremmo dire: come prendere una parabola sconvolgente e ridurla ad una questione puramente sacramentaria. Siamo abili nel togliere alla parola di Dio la sua profezia rivoluzionaria.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*