Omelie 2014 di don Giorgio: Commemorazione di tutti i fedeli defunti

2 novembre 2014: Commemorazione di tutti i fedeli defunti
2 novembre: Giorno dei morti, così si diceva una volta. Un’espressione popolare che diceva tutto: il nostro dovere di ricordarli, e il nostro confronto, volere o no, con la realtà della morte. La parola defunto è tecnica: riguarda una funzione, che con la morte ci viene tolta. Il de-funto (de- è negativo) è colui che è sciolto dagli impegni della vita, visti anche come travagli, sofferenze, dolori.
Il culto dei morti è antichissimo, come l’uomo. Già dire culto è dire qualcosa di sacro, anche se non è altrettanto antica la fede nell’immortalità dell’anima. Il defunto veniva ricordato per quanto aveva fatto, e per gli affetti o quel mondo di sentimenti o di amicizie che si erano creati quando era in vita. I sentimenti non muoiono più: sono immortali, e duri da morire sono i risentimenti o gli odi. L’uomo ricorda, e lascia ricordi.
Il culto presupponeva la fede nei puri sentimenti che non muoiono mai, e a testimonianza di questa fede i corpi venivano anche imbalsamati, come perenni contenitori di ciò che di più bello c’era stato in vita, tesori da salvare, segreti inviolabili.
Poi, quando dopo millenni si è presa coscienza che forse c’era un al di là, dove l’anima sopravviveva, il corpo del defunto ha perso la venerazione, tranne per i personaggi famosi, pensate ai faraoni, per i quali si costruirono templi e piramidi, e tranne per i santi, per i quali la Chiesa ha venerato il corpo, facendone reliquie. Idolatria cadaverica!
Eppure nella Bibbia c’è scritto ben chiaro: «polvere tu sei e in polvere ritornerai!”. La cremazione è la prova che siamo polvere. E anche se non ci faremo cremare, tutto tornerà alla terra, dalla quale siamo venuti. I vestiti saranno i primi a decomporsi. Giobbe, dopo le disgrazie che lo avevano colpito, si alza, si straccia il mantello, si rade il capo, cade a terra, si prostra e dice: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò». Sant’Ambrogio, commentando l’episodio di Nabot, ucciso dal re Acab per sottrargli la sua vigna, commenta: «La natura non fa distinzioni tra gli uomini, né al momento della nascita né in quello della morte. Tutti allo stesso modo li genera; e tutti, allo stesso modo, li riceve nel seno del sepolcro. Puoi forse stabilire delle classi tra i morti? Forza, scava nei sepolcri, e vedi se ti è possibile distinguere il ricco. Dissotterra una tomba, e vedi se riesci a riconoscere il bisognoso. Forse è possibile fare una distinzione, solo perché, insieme con il ricco, sono molte più cose a imputridire… ».
Avremmo tanto da meditare su queste parole! Papa Francesco, in uno dei suoi primi discorsi ha ricordato un antico detto: «La mia nonna ci diceva: “Bambini, il sudario non ha tasche”». E ha aggiunto: «È meglio condividere, perché noi portiamo in Cielo soltanto quello che abbiamo condiviso con gli altri».
Basterebbe cercare di fare le cose giuste, nel nostro piccolo, finché siamo su questa terra, una terra che, se è il grembo materno da cui proveniamo, è talora anche una continua maledizione. Contesa, e divisa ingiustamente. La terra ci dà la vita, e ci dà la morte. Una morte che talora ci procuriamo con le nostre stesse mani. Per quella ingordigia che è la vera causa di tutti i mali: furti, invidie, omicidi.
Sì, basterebbe fare le cose giuste, ciascuno nel proprio piccolo. Pensate ad esempio alle eredità familiari. Una volta i parroci insistevano su questa cosa, invitando i genitori ad essere giusti quando facevano i cosiddetti testamenti ereditari.
Conosco persone che rifiutano di andare al cimitero a mettere un fiore sulla tomba dei genitori, perché questi hanno fatto cose ingiuste. I figli non sono tutti uguali? Perché fare preferenze?
Il ricordo più bello dei nostri cari è la loro vita di sacrificio, di dedizione, di altruismo, di generosità, di silenzi d’amore, di doveri portati fino all’estremo delle forze. I difetti – chi non ce li ha? – vengono dopo: anzitutto, c’è quel bene di fondo che costruisce, commuove, insegna. È bello sentir dire: “Mio padre o mia madre mi ha insegnato questo e quello! Sarò sempre riconoscente!”. E a noi il compito, il dovere di trasmettere questi valori ai figli, alle nuove generazioni. È una catena che non deve mai interrompersi.
Quando vado a visitare i cimiteri, mi piace leggere le iscrizioni sulle tombe. Ce ne sono di interessanti. Soprattutto sulle tombe vecchie, dove le parole si stanno logorando, e si fa fatica talora a leggerle. Sulla tomba di un prete, parroco a Barzanò tra le due guerre mondiali, don Carlo Bedoni, c’è ancora scritta in latino questa frase: “Maxima cum intelligenti charitate non ficta pro Christo pro grege cursum consumavit”. Traduco: “Ha speso la sua vita con la massima carità, intelligente e non falsa, per amore di Cristo e del suo gregge”. Mi piacciono i due aggettivi: intelligente e sincera che qualificano la charitas, che è qualcosa più di ciò che noi chiamiamo amore. La parola charitas richiama qualcosa di nobile, di elevato, di soprannaturale, di divino. L’amore per il Signore e per il prossimo deve essere intelligente e autentico.
Certamente nessuno di noi vorrebbe che qualcuno scrivesse sulla propria tomba ciò che un anonimo ha messo sulla lapide del cardinale Richelieu: “Qui giace un famoso cardinale, che fece più del male che del bene: il bene che fece, lo fece male; il male che fece, lo fece bene”.
Il cimitero non è solo il luogo dove riposano i nostri morti. La parola “cimitero” significa “dormitorio”. Ma è anche un richiamo alla morte: siamo tutti mortali; nessuno deve credersi eterno. Prima o poi lasceremo questa terra. Dimentichiamo che siamo dei pellegrini, viandanti. È interessante notare il significato della parola “parrocchia”: deriva dal greco paroikìa, divenuto in latino paroecia, e significa “vicino alla casa, chi non è della casa”: indicherebbe, in tal senso, lo straniero residente tra i cittadini del luogo. Abramo è paroikos in Egitto; anche i figli di Giacobbe formano una paroikìa in Egitto. Al tempo di Gesù gli ebrei hanno ancora coscienza di formare una paroìkia, cioè una comunità di stranieri in cammino. Nel Nuovo Testamento rimane questo significato: «Noi non abbiamo quaggiù una città nella quale resteremo per sempre; noi cerchiamo la città che deve venire ancora» (cf. Eb 13,14). Le prime comunità cristiane sapevano che la loro patria definitiva era il cielo: «Carissimi, voi siete come stranieri e pellegrini in questo mondo» (1Pt 2,11).
Vorrei anche parlare di un altro aspetto. Lo accenno. Se la vita è un passaggio, la morte che cos’è? Come dobbiamo vederla e viverla negli ultimi istanti del nostro pellegrinaggio? I santi desideravano quasi morire per andare a raggiungere al più presto il loro Dio. Che senso ha vivere male la morte? Che senso ha prolungare l’agonia, quando non c’è più vita biologica? Una volta non c’erano i mezzi tecnologici di oggi che, se possono essere anche positivi, talora diventano disumani.
Prolungare la morte oltre il lecito che è stabilito dalla legge naturale, è disumano, non rientra nel volere di Dio. Il Signore non ama vederci soffrire, ma ci aspetta nelle sue braccia, quando è arrivato il nostro momento, e il momento è stabilito dalla natura, non dalla tecnica che può prolungare per anni e anni una esistenza che non è più esistenza, ma una apparenza di esistenza.
Io sono per il testamento biologico: decido prima se voglio morire senza accanimento terapeutico. Anche qui la Chiesa dimostra di essere ottusa. I nostri vecchi erano più saggi: negli ultimi istanti rifiutavano di mangiare e di bere. Anche voi avrete sentito queste frasi: “Non ha più voluto né mangiare né bere! Se ne è andato così!”. E perché allora si deve insistere nell’imporre l’idratazione e l’alimentazione come se fossero sostegni vitali irrinunciabili?
È già difficile talora vivere serenamente, ma perché devono costringerci a morire male? Immaginate ciò che potrebbe capitare all’uomo in futuro: se la tecnologia riuscisse a tenerlo in stato vegetativo per duecento anni, che sarà dell’umanità?
Quando arriverà la nostra ora, e sarà la natura a deciderlo, non la tecnologia con le sue macchine, andremo nell’aldilà con la gioia nel cuore. Non siamo forse qui pellegrini? Perché allora ritardare la nostra meta oltre i limiti stabiliti dalla natura umana?

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