Omelie 2020 di don Giorgio: QUARTA DI PASQUA

3 maggio 2020: QUARTA DI PASQUA
At 6,1-7; Rm 10,11-15; Gv 10,11-18
Quando leggiamo i Vangeli, siamo abituati a estrapolare i brani dal loro contesto, e farne anche quadretti idilliaci, pensate al brano di oggi, quando Gesù dice: “Io sono il buon pastore…” (una immagine tra l’altro un po’ fuori moda, oggi, visto che quando vediamo un pastore con le pecore ci sembra una cosa del tutto strana, e magari ce la prendiamo quando il gregge occupa la strada e ci impedisce di andare in fretta al supermercato), oppure siamo abituati a enfatizzare i contrasti già presenti tra i primi cristiani, per dire che anche allora non erano tutti santi, pensate al primo brano tolto dal libro “Atti degli apostoli”.
Ogni pagina, ogni evento, ogni parabola andrebbe inquadrata nel suo contesto. Certo, ciò richiederebbe tempo, e il tempo ristretto di un’omelia non ce lo permette, per cui noi preti diciamo qualcosa che non sempre rispetta il senso più profondo del brano.
Primo brano
Partiamo dal primo brano, che è un piccolo spaccato della vita dei primi cristiani. Qui bisognerebbe ricordare come erano composte le prime comunità cristiane. In sintesi. C’erano cristiani provenienti dal mondo ebraico, e cristiani provenienti dal mondo pagano, Già dire mondo pagano fa pensare a un mondo di diverse culture e provenienze. Non dimentichiamo che tra i pagani c’erano i “proseliti”, ovvero pagani che si convertivano in tutto all’ebraismo, oppure erano solo simpatizzanti. Ma anche tra gli ebrei non c’era una rigida omogeneità: pensate agli “ellenisti”, quelli della “diaspora”, che abitavano fuori della Palestina, perciò a contatto con la cultura greca e parlavano in greco, erano molto più aperti degli ebrei che vivevano in Palestina.
Adesso potete immaginare come erano composte le prime comunità cristiane: un miscuglio di diverse razze e di diverse religioni, un intreccio talora caotico e apparentemente inaccettabile e irrisolvibile, e ciò creava tensioni di connivenza, ma soprattutto perché gli ex ebrei volevano almeno inizialmente imporre le loro tradizioni, tra cui la circoncisione, e le loro idee su ciò che fin dall’antichità era ritenuto puro e ciò che era ritenuto impuro. Gli stessi pagani e i loro ambienti erano ritenuti impuri. Perché meravigliarsi di tutto questo, quando ancora oggi siamo sempre al solito punto di un concetto di razza ritenuta pura o impura secondo pregiudizi ideologici o politici da aver scatenato guerre e violenze di ogni tipo. Non siamo ancora qui a voler chiudere i porti agli immigrati, e perché?
E così era successo subito fin dal primo cristianesimo che ci fossero contrasti anche su aspetti diciamo elementari, come assistere le vedove in difficoltà, dando la precedenza a quelle provenienti dal mondo ebraico. E dal male venne un bene: l’istituzione del diaconato, ovvero di un gruppetto di persone, inizialmente sette, i cui nomi rivelano una origine greca, in ogni caso “di buona reputazione, pieni di Spirito santo e di saggezza”, i quali avevano l’incarico di assistere i più poveri togliendo così questo compito anche impegnativo agli apostoli, i quali erano più liberi di dedicarsi alla preghiera e al ministero della Parola.
Riflessioni personali
Qualche riflessione personale la vorrei fare.
A parte l’accenno che ho già fatto ai nostri tempi, in cui è sotto gli occhi di tutti ciò che io chiamo l’ideologia della razza pura, che in parole più semplici si chiama anche razzismo, di cui stiamo pagando ancora le conseguenze deleterie della politica salviniana. Sono passati duemila anni, e sembra che di cristianesimo siano rimasti solo dei rottami su cui qualche privilegiato vorrebbe sedersi e andare in paradiso. Sogno un’Umanità senza più frontiere, senza più barriere, senza più razze. Sogno un mondo che va al di là della stessa Europa, della stessa religione, della stessa Chiesa: un mondo che ingloba ogni essere umano.
Ma c’è un’altra riflessione. Se la Chiesa può aver superato il concetto della razza pura o delle frontiere (non per nulla si chiama “cattolica”, ovvero universale), ciò che ha sempre rappresentato un handicap per ogni religione, e anche per la Chiesa cattolica, è la libertà di pensiero. Qui la Chiesa si è sempre trovata in grave difficoltà, e ha dovuto, tramite i suoi uomini peggiori, per non dire criminali, intervenire con la violenza, con torture e condanne. La Chiesa non ha ancora capito che gli spiriti liberi sono una grande irrinunciabile risorsa, ma si affida alle sue ortodossie irrigidite e protette con dogmi, da cui esce un dio altrettanto irrigidito e dogmatizzato. L’unica via di salvezza per la Chiesa è la grande Mistica, ma non sembra che voglia togliere quel sigillo con cui l’ha imbavagliata.
“Io sono il buon pastore”
Anche il brano del Vangelo andrebbe letto nel suo contesto, che è di dura contrapposizione. Commenta don Angelo Casati: «Le parole di Gesù seguono immediatamente la polemica scoppiata intorno al caso del cieco nato, guarito di sabato. A quel gruppo di dirigenti giudei Gesù ha appena finito di lanciare un’accusa dura, l’accusa di cecità. Ed ecco parla loro di se stesso come della porta delle pecore, come del pastore vero. E al termine del discorso, scrive Giovanni, “sorse di nuovo dissenso tra i giudei per queste parole. Molti di loro dicevano: È indemoniato ed è fuori di sé. Perché state ad ascoltarlo”».
Gesù si è definito come il “buon pastore”, premettendo quel “Io sono” che è una prerogativa divina. Se è così, come vescovi o preti possono definirsi “buoni pastori”? Gesù aveva anche detto: “Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli… E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo” (Mt 23,8-9). E la Chiesa è pina di maestri e di guide.
In ogni caso, se i vescovi o i preti si fanno chiamare pastori, che siano per lo meno “buoni” (in greco c’è il termine “bello”), ovvero amanti del Bene assoluto, di cui la Bellezza è un riflesso. Dire buono non significa solo dire misericordioso, comprensivo, accogliente, e tanto meno bonario. Non ci si deve limitare ad atteggiamenti esteriori, anche se questi rivelano qualcosa di profondo. Dire bontà è dire quel Bene divino, di cui siamo servitori.
Che cosa è, allora, il Bene di una parrocchia, il Bene di una Diocesi, il Bene della Chiesa? Che senso ha tenere le pecore in un recinto che proibisce di vedere cieli aperti?
Un vescovo o un prete che dovrebbe fare per essere, come Cristo, un buon pastore? Dare la vita per le sue pecore. Qui si aprirebbe un discorso per un’altra omelia.

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