Omelie 2013 di don Giorgio: Seconda dopo la Dedicazione

3 novembre 2013: Seconda domenica dopo la Dedicazione

Is 25,6-10a; Rm 4,18-25; Mt 22,1-14

La liturgia ambrosiana sottotitola questa domenica con le parole: “Partecipazione delle genti alla salvezza”. Anzitutto, il termine plurale genti traduce il latino gentes, che significa popolazioni: i gentili erano i pagani, anche se la parola “pagano”, che deriva da pagus, villaggio, non la troviamo nella Bibbia; è entrata nell’uso popolare della Chiesa a indicare coloro che, abitando nelle campagne, non erano ancora stati raggiunti dal Vangelo. I primi ad essere cristianizzati furono i centri urbani. Nella Bibbia troviamo la parola greca ethnicoi (“popoli”), a sua volta traduzione dell’ebraico gojim per indicare i popoli idolatri.

Dunque, i brani della Messa ci invitano a raccogliere il grande messaggio cristiano, che consiste nella sua portata universale: tutti i popoli, di qualsiasi fede religiosa, di qualsiasi razza e cultura parteciperanno alla salvezza. Un tema su cui in queste domeniche stiamo insistendo, con quella apertura richiesta sia dai profeti dell’Antico Testamento sia da Cristo stesso.

Il primo brano fa parte apparentemente del cosiddetto primo Isaia, ovvero del profeta di nome Isaia, che è vissuto sotto i re Acaz e Ezechia, nella seconda metà dell’VIII secolo a.C. In realtà gli studiosi della Bibbia ci dicono che i capitoli dal 24 al 27 sono una inserzione posteriore di un profeta anonimo, forse del VI e V secolo a.C., che raccolse e sviluppò liberamente il tema del giudizio divino sulla storia.

Il capitolo 24 descrive con toni cupi ciò che Dio farà ai popoli della terra. Ci sono riferimenti a uno sconvolgimento cosmico, al giudizio universale che coinvolge non solo gli uomini, ma anche le schiere celesti, e ci sono riferimenti alla risurrezione dei morti. È per questo che si è parlato di “Apocalisse di Isaia”. In realtà la letteratura apocalittica sarà successiva all’anonimo profeta: svilupperà in modo più ampio immagini, simboli e visioni, introducendo pure la figura dell’intermediario, incaricato di spiegarne il significato.

Anche se non dobbiamo farci prendere da un cieco pessimismo, la visione del profeta anonimo contiene delle verità. E la verità è questa: c’è sempre una responsabilità umana negli sconvolgimenti della storia. Dio dice esplicitamente: colpa è vostra, che avete tradito l’alleanza. Noi oggi diremmo: colpa è dell’uomo che si dimentica di essere uomo, che tradisce l’umanità. Facile ancora oggi dire, quando capita un terremoto, o una tragedia cosmica: Dio dov’era? Forse dovremmo chiederci: L’uomo dov’era? Noi dove eravamo?

E succede che, quando avvengono sconvolgimenti della natura e tragedie umane, vanno di mezzo non solo i colpevoli, ma tutti indistintamente: buoni e cattivi, giusti e ingiusti, poveri e ricchi. È chiaro che, come succede sempre, se uno ha poco perde poco, se uno è povero è abituato a soffrire, ma i ricchi e i potenti, vedendosi ridotti a nullità, avranno maggiori umiliazioni.

Il profeta ha una descrizione azzeccata della città ridotta in polvere. A proposito di città vorrei aprire una parentesi. Nella Bibbia la città solitamente viene vista come la sede del potere, perciò sulla città cadono gli strali dei profeti. Anche nei Vangeli la città viene vista come il luogo del potere politico e religioso che si oppone a Gesù. Pensate all’episodio dei magi che, proprio perché è un midrash, ovvero un racconto non storico ma ricostruito usando anche la fantasia per spiegare un avvenimento biblico, è più libero di spaziare nel mondo dei simboli.

La città di Gerusalemme, sede di Erode e dei dotti (gli scribi, i teologi diremmo oggi), si scontra con la rivelazione di Dio, rappresentata dalla stella che i magi hanno perso di vista quando entrano in città. Pensate anche all’entrata di Gesù in Gerusalemme, qualche giorno prima della sua passione: la città lo rifiuta, e lo condannerà a morte.

Tornando al capitolo 24, Dio riduce la città a desolazione: il profeta anonimo parla di “città del caos”, che qualcuno traduce meglio come “città del nulla”. Il potere che si fa nullità! Dio è così: non usa mezze misure! Tu ti credi tutto? Sarai ridotto al nulla!

Ma ecco la speranza. Già lo dicevo in una precedente omelia: la parola “apocalisse” significa “rivelazione”. I profeti, se calcavano la mano nel descrivere fenomeni terrificanti, non lo facevano per incutere paura o terrore, ma per far risaltare ancor meglio l’intervento di Dio per salvare l’insalvabile. Dio è sempre così: gli piace districare la matassa, le situazioni più imbrogliale.

Ma la speranza dove sta? Sta nel cosiddetto “piccolo resto”. Questo piccolo resto, ovvero un piccolo gruppo di fedelissimi all’Alleanza, salverà Israele. Oggi possiamo dire: salverà l’Umanità. Il “resto d’Israele”: ciò che di buono e di retto è rimasto, un pugno di giusti. Qui sta la salvezza: su questo “resto” Dio ha sempre scommesso, e scommetterà. Non illudiamoci: a salvare il mondo non sarà il potere politico, non sarà il popolo, non sarà la Chiesa istituzionale, ma pochi giusti, pochi profeti. Parlate pure di democrazia, ma il potere sarà sempre potere che comanda, il popolo sarà sempre massa informe e strumentalizzabile, la Chiesa sarà sempre istituzione che blocca la libertà dello Spirito. La salvezza, la liberazione, il vero progresso, l’umanesimo stanno nel “resto”, seme di una nuova umanità.

Ed ecco il capitolo 25, di cui fa parte il primo brano della Messa. Dall’atmosfera cupa del capitolo precedente si passa ora all’inno di lode: si celebra la liberazione dei poveri e degli oppressi, che con gioia assistono al tracollo dei potenti. Sì, con gioia, con soddisfazione. Non è il caso di dire: “Poverini, anche loro però… “. Si deve dire: “Finalmente!”.

Pensate come sono attuali le parole del profeta: i potenti non si danno mai per vinti, non  capiscono che è arrivata la loro ora, non vogliono accettare di essere giunti al tramonto. No! Si agitano come una tempesta che atterrisce o come il vento caldo estivo che tutto inaridisce. Ma il Signore li fa tacere per sempre. E ai giusti – ecco la sorpresa – Dio apparecchia sul monte Sion un pranzo regale, al quale vengono invitati tutti i popoli. Una visione simile la troviamo anche nel libro dell’Apocalisse di Giovanni, capitolo 21, versetto 4. Qui, perfino la città di Gerusalemme diventerà “nuova”. La città, simbolo del potere del male, si convertirà.

C’è un’espressione nel brano di Isaia che mi ha particolarmente colpito, anche perché è abbastanza enigmatica, e perciò suggestiva, ricca di significati simbolici. Si dice: «Egli (il Signore) strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni». Immaginiamo la scena. Dio imbandisce una grande tavolata, attorno a cui si siedono, invitati, tutti gli uomini della terra. A un certo punto il Signore toglie (letteralmente strappa) il velo o la coltre che li copriva. Che cosa significa? Che senso dare alla parola “velo”? Si tratta dei pregiudizi, delle divisioni, delle chiusure, delle ingiustizie, delle discriminazioni? Si tratta addirittura del velo o della coltre delle religioni che, lungo i secoli, hanno moltiplicato le divinità, dividendo la stessa unità divina?

Si tratta della coltre della sofferenza umana, e perciò della disperazione, che si è distesa sull’umanità, tanto da togliere la speranza in un mondo migliore? In realtà, non è così ancora oggi? Non ci sembra di vivere sotto una cappa di piombo, tale da toglierci il respiro?

Ma il velo potrebbe significare anche l’anonimato, la perdita della propria personalità e dignità umana: non siamo più persone, ma individui senza volto, senza nome. Attorno alla grande tavola ognuno si riprenderà il proprio nome, nella convivialità delle differenze della fratellanza umana.

Infine, lo strappo del velo potrebbe significare la scoperta che ognuno farà dello stesso Dio. La nostra idea di Dio è ancora confusa: Dio è ancora velato. Ecco, Dio strapperà il velo, e così potremo vedere la vera identità di Dio. E questo, quando succederà?

Ieri, 2 novembre, commemorazione di tutti i defunti, abbiamo pregato per i nostri cari, e, di conseguenza, abbiamo fatto anche qualche pensiero sulla morte. Anche noi credenti, che dovremmo credere nella risurrezione, abbiamo della morte un’idea triste e dolorosa, la prendiamo come se fosse un velo che si distende sulla nostra stessa vita, e un velo che si distende sull’aldilà. Eppure, a pensarci bene, la morte è lo strappo di quel velo che ognuno di noi si porta addosso dalla nascita. Quando a Monte moriva una persona, nell’omelia ci tenevo a cogliere qualche aspetto magari nascosto: cercavo di togliere qualche velo, frutto anche di pregiudizi e talora di cattiverie.

Noi non ci conosciamo del tutto, e tanto meno conosciamo gli altri. Su ognuno di noi c’è come una coltre. Ma soprattutto la morte permetterà di vedere Dio così come egli è. Più di una volta ho fatto questa battuta: appena morti, quando ci presenteremo davanti al Signore, ci verrà spontaneo esclamare tra tanta meraviglia: “Ma tu chi sei? Non ti ho mai conosciuto così. Sei del tutto diverso”.

La morte strapperà il velo su di noi, e strapperà il velo su Dio. La morte aprirà un mondo di sorprese. La morte sarà la grande sorpresa sulla nostra identità, sull’identità dei fratelli e sull’identità di Dio. E allora stiamo attenti: teniamoci qualche dubbio sulla identità nel Dio che diciamo di credere. A me fanno paura quei cattolici troppo sicuri. Saranno quelli che avranno più sorprese davanti a Dio, quando gli compariranno davanti.

1 Commento

  1. lina ha detto:

    Se penso alla Vita dopo la morte, mi immagino che si incontrerà una grande luce, Gerusalemme Celeste?, e quindi ci troveremo al cospetto di Dio, nella Perfezione assoluta che rappresenta Amore, Giustizia, Carità, Misericordia, e così liberi dal nostro corpo ci vedremo veramente alla Luce di Dio nella nostra pochezza con gli occhi dell’anima. Perciò se nella vita avremo cercato di vivere nell’anelito di accostarci a LUI nell’espressione dell’amore verso noi stessi ed il nostro prossimo come Dio ci invita a fare, sentiremo il bisogno di purificarci (Purgatorio) per poter accedere senza la più piccola macchia all’abbraccio di Dio nell’Amore. Un pò come quando un’assetato nel deserto trova l’acqua, anzi molto, molto di più, sarà come un abbraccio dolcissimo con il Padre che ci realizzerà nella pienezza. Se invece avremo vissuto una vita lontana da Dio, nell’egoismo, nell’asservimento delle necessità del nostro corpo e non della nostra anima, ovvero non amando Dio e disprezzando tutto ciò che Lui rappresenta, la visione di Dio nella sua perfezione ci atterrirà, anzi non desidereremo affatto congiungerci con Colui che abbiamo rinnegato tutta la vita. Non sarà Dio che ci respingerà, ma noi stessi che ancora lo rifiuteremo. Secondo me questo è il velo che Dio strapperà, giacchè se lo vedessimo in vita con il corpo e non con l’anima, ne moriremmo proprio per le nostre imperfezioni.

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