Omelie 2014 di don Giorgio: Quinta Domenica di Quaresima

6 aprile 2014: Quinta Domenica di Quaresima
Es 14,15-31; Ef 2,4-10; Gv 11,1-53
Domenica scorsa, parlando del miracolo dell’uomo nato cieco, avevo fatto una premessa. Nel suo Prologo, Giovanni anticipa alcuni temi importanti che poi svilupperà nel suo Vangelo. Due in particolare: il tema della luce e il tema della vita. Il miracolo del cieco dalla nascita richiama esplicitamente il tema della luce, mentre il miracolo della risurrezione di Lazzaro richiama esplicitamente il tema della vita.
La narrazione dei due miracoli, non a caso, si svolge su percorsi diciamo diversi, anche se complementari. Perché diversi?
Nel racconto della guarigione del cieco, troviamo anzitutto il miracolo (il dono della vista fisica), poi c’è tutta una serie di polemiche sul rispetto della legge del sabato tra Gesù e gli scribi e farisei, e alla fine troviamo un altro miracolo: il dono della fede. Quindi, la narrazione è racchiusa tra due miracoli. Il cieco guarito percorre un cammino progressivo verso la luce interiore, mentre, viceversa, gli scribi e i farisei percorrono un cammino a ritroso, verso le tenebre. Questo duplice cammino, verso la luce o verso le tenebre, rappresenta il cammino del progresso o del regresso. Stiamo attenti, dunque, quando parliamo di progresso: è un cammino verso la luce o verso le tenebre?
Invece, nel racconto del miracolo della risurrezione di Lazzaro, prima troviamo una serie di polemiche e di incomprensioni tra Gesù e i suoi discepoli, le sorelle di Lazzaro e con alcuni ebrei, e alla fine avviene il miracolo. Mentre nel racconto della guarigione del cieco, il protagonista, oltre a Gesù, è il cieco stesso, nel racconto della risurrezione di Lazzaro, le protagoniste, a parte Gesù, sono le due sorelle, Marta e Maria. Anche qui, c’è un cammino di fede: i discepoli rimangono prima dubbiosi, le sorelle man mano aumentano la loro fede nel Maestro, alcuni ebrei presenti si convertono, mentre altri vanno dai capi per riferire il fatto, per mettere sotto accusa l’autore del miracolo.
Come potete notare, nei due racconti c’è ben più di una narrazione. Giovanni, l’ho già detto mille volte, non si limita a raccontare, va oltre la cronaca. Che significa cronaca? Fare cronaca è raccontare le cose così come si sono svolte, evitando di dare interpretazioni soggettive. È quanto dovrebbe fare un giornalista. Anche gli evangelisti narrano i fatti, ma vanno oltre: non sono giornalisti o cronisti. Giovanni in particolare riflette sui fatti che narra. Ogni evento è un “segno”: cioè rivela qualcosa che va oltre il fatto in sé. Giovanni narra, riflettendo sui fatti non con i suoi occhi, ma con l’occhio soprannaturale. Dire soprannaturale non significa dire qualcosa “fuori del mondo”. Anzi, significa dire il contrario. Il vero realista è colui che intuisce la realtà, senza restare all’esterno, in superficie, ma entrando nel cuore della realtà, e per fare questo non basta l’occhio umano. Gli evangelisti, dunque, non sono storici che semplicemente osservano, e narrano. Diciamo pure che non sono obiettivi nel senso tradizionale del termine: gli evangelisti sono di parte, dalla parte dell’occhio divino. Narrano, e danno ai fatti un senso che addirittura non tiene conto dei dati oggettivi. Agli evangelisti non interessa lo svolgimento cronologico degli eventi. La cronologia di Dio segue i tempi dello spirito. E i tempi dello spirito ha percorsi diversi dai nostri.
Dio sconcerta il nostro modo di agire o di vedere le cose: noi crediamo di essere razionali, di essere logici, solo perché pretendiamo di seguire un certo ordine, di essere fedeli a una certa struttura. Dio no. Dio interviene a modo suo. Con i suoi ritmi.
Parliamo tanto di grazia, e non sappiamo che la grazia è anzitutto un dono, e, se è un dono, la grazia, che è il divino in noi, sarà sempre imprevedibile: nei tempi e nei modi. Siamo addirittura arrivati, come credenti, a fissare i tempi della grazia, addirittura le modalità. Che cos’è la magia? Che cos’è quel meccanismo per cui, pronunciando certe parole, pregando in un certo modo, o compiendo certi gesti, automaticamente si pretende che entri in scena la grazia di Dio. La Chiesa talora e spesso ha favorito queste pratiche magiche: se tu reciti le preghiere in determinati giorni (e ne fissa il numero!), seguendo un determinato formulario, otterrai sicuramente la grazia. Ma se la grazia è un dono, come si può pretendere di riceverla meccanicamente? Se lo costringessi a intervenire, che Dio sarebbe?
Gesù, nei Vangeli, non si è mai fatto condizionare da simili magie. Anzi, pretendeva, sì pretendeva la fede prima di ogni suo intervento. E che cos’è la fede, se non fidarsi ciecamente di Dio? Se tu cominci a ragionare, togli alla fede la sua capacità imprevedibile.
Perché insisto su questo? Perché non solo sarebbe inutile, ma addirittura rischioso, per non dire pericoloso, leggere il Vangelo secondo la nostra logica. Pericoloso, perché interpreteremmo l’agire di Dio secondo i nostri schemi, e, di conseguenza, continueremmo a rimanere schiavi del cerchio chiuso. La grazia di Dio ci permette di uscire, di rivivere, di gustare quella vita, che non è solo fisica, ma va ben oltre: l’oltre non significa fuori o al di sopra della nostra esistenza reale. Ed è qui il punto. La grazia o la fede non ci estraniano dal nostro mondo reale. Ci fanno capire, invece, qual è il nostro essere più profondo. Se noi non “siamo”, neppure “viviamo” in pienezza. Invece sembra di camminare come automi trascinati nel vortice di una esistenza insignificante.
Anche il brano di oggi va letto tenendo conto dei suoi profondi significati. E il significato del miracolo sta tutto in quelle parole con cui Gesù risponde a Marta, sorella di Maria: «Io sono la risurrezione e la vita». Parole che per un ebreo risuonavano come una bestemmia. Solo Dio poteva dire: “Io sono””. Pensate già alla differenza tra essere e avere. Dio “è colui che è”, non colui che ha. L’avere non esiste in Dio. Dio è la pienezza dell’essere. Ogniqualvolta coniughiamo, in una qualsiasi maniera, il verbo “avere”, noi bestemmiamo Dio. L’idolo che cos’è? Un qualcosa di avere. Un oggetto, che pretende di rendere visibile e appetibile l’essere infinito. Dio reso idolo, ovvero un oggetto: sta qui la vera bestemmia. Il fascino dell’idolo sta nel suo farsi possedere. Lo posso possedere. Ma come posso possedere Dio, che è l’Infinito? Io non posso possedere l’essere.
Questa non è filosofia per i perditempo. Se noi capissimo la differenza tra l’essere e l’avere, come credenti non ci saremmo ridotti ad adorare degli idoli. L’idolatria è penetrata nella Chiesa, in tutte le sue strutture, a iniziare dai sacramenti.
“Io sono”, ha detto Gesù. E non era la prima volta che lo diceva. Aveva detto “Io sono” in altre circostanze, ad esempio quando aveva litigato con gli ebrei suoi simpatizzanti (il brano del vangelo di due settimane fa). “Prima che Abramo fosse, Io sono”. E gli ebrei, anche in quel caso, avevano deciso di farlo morire.
Se non altro, pur con tutti i loro difetti, gli avversari di Cristo coglievano le sue provocazioni. Siamo noi, cristiani moderni, che, immersi come siamo nel mondo dell’avere, abbiamo perso ogni concezione dell’essere, e non ci scandalizziamo più ogniqualvolta la nostra fede è ridotta a idolatria. Nella società materialistica di oggi, andate a parlare di essere alle varie categorie sociali. Anche se per forza di cose siamo denudati in parte dell’avere, non approfittiamo della grande occasione per riscoprire l’essere. L’essere sembra che sia spento, sotto il duro peso dell’avere. A noi interessa riprenderci l’avere.
“Io sono”. Sta qui la vita divina. Vita eterna, certo. Ma, anche qui, stiamo attenti: noi quando parliamo di vita eterna, pensiamo a quella che verrà dopo questa esistenza terrena, e che non morirà più. La vita eterna non è la vita dell’essere che ha tempi diversi. Non conosce il prima e il poi. La vita è vita, già qui, in tutta la sua potenzialità. È chiaro: faccio fatica a coglierla nell’essere. C’è troppo avere che mortifica la realtà dell’essere.
Ma Cristo oggi mi dice: “Io sono la risurrezione e la vita”. “Io sono”, perciò anche adesso, soprattutto adesso: già ora, già qui. Ogniqualvolta anch’io “sono”, entro nella vita divina che è già presente, sempre presente. L’avverbio domani non esiste nel vocabolario di Dio.
Chi sono i mistici? Coloro che si fanno così afferrare dall’essere divino da non distinguere il passato dal presente e il presente dal futuro. Per loro nell’oggi c’è già tutto il domani. Per un vero credente non ci può essere una successione dei tempi, e non c’è una separazione delle modalità della realtà: tutto è nell’uno, la molteplicità porta all’unità e nell’unità c’è tutta la molteplicità.
Qui entra in scena il rapporto tra bene e male, tra grazia e peccato. Un discorso complesso, ma affascinante, dal momento che ogni giorno viviamo questo conflitto. Una cosa comunque dovremmo evitare: separare il bene dal male, o distinguere nettamente la società in buoni e cattivi. Nessuno è perfettamente buono e nessuno è perfettamente cattivo. I grandi mistici non distinguevano il bene dal male come facciamo noi. Il male è un bene mancato. Qualsiasi cosa fa parte del piano di Dio, anche il male.
I mistici parlavano di identità dei contrari. Le contrapposizioni fanno parte della vita. La vita non è uniformità, non è omologazione: è l’armonia degli opposti, dei contrari. Ma chi di noi, moderni del banale, dell’utilitarismo più spietato, di un avere consumistico, pensa a queste cose?
Anche i fisici moderni stanno riscoprendo le stesse cose, e si trovano d’accordo con certe filosofie orientali e con certi mistici anche occidentali. Un grande fisico moderno, Fritjof Capra, ha scritto un libro dal titolo già significativo: “La rete della vita”. La rete non è da intendere come quella dei pescatori che catturano i pesci o dei cacciatori, ma è l’insieme delle interconnessioni cosmiche o di quei fili misteriosi che legano, armonizzando, ogni elemento costitutivo dell’essere umano e del creato.

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