Omelie 2016 di don Giorgio: FESTA DI CRISTO RE

6 novembre 2016: NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO RE DELL’UNIVERSO
Dn 7,9-10.13-14; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46
Le quattro bestie
Nel libro di Daniele ci viene riproposta una famosa visione apocalittica: peccato che la liturgia tralasci i due versetti dove si parla di quattro bestie, simboli dei quattro regni che hanno dominato il piccolo popolo d’Israele: il leone che rappresenta Babilonia; l’orso che rappresenta il popolo della Media; il leopardo con quattro teste, simbolo dei Persiani che scrutano in ogni direzione in cerca della preda; la quarta bestia, un mostro terribile, richiama il regno di Alessandro Magno e dei suoi successori.
Siamo alla fine dell’anno liturgico: domenica prossima, la liturgia ambrosiana aprirà il periodo dell’Avvento. Ma già da oggi, essa vuole richiamare i credenti al grande disegno di Dio sulla storia umana, invitandoci a riflettere su questa pagina del libro di Daniele, dove, a parte le immagini tipiche delle visioni apocalittiche, è chiaro il messaggio: l’ultima parola sarà di Dio, e non di coloro che si credono i potenti del mondo, i quali dovranno sparire dalla faccia della terra.
Già la storia del popolo ebraico è emblematica. Gli ebrei erano frequentemente invitati a rileggerla alla luce dell’Alleanza di Dio. Israele aveva avuto il suo momento di gloria al tempo di Davide e Salomone (X sec. a.C.). Poi, si era diviso in se stesso: Regno del Nord (d’Israele) e Regno del Sud (di Giuda). Poi, erano giunti i primi conquistatori, gli Assiri, quindi i Babilonesi, poi ancora i Persiani, e infine i Greci. Sotto Antioco IV Epifane ci fu l’oppressione più violenta, a causa del tentativo del re di imporre la cultura ellenistica, quindi estranea alla purezza della religiosità ebraica. Quando si giunse alla crisi e allo scoppio della rivolta dei Maccabei, i fedeli tradizionalisti ebbero la meglio in modo totalmente inaspettato.
Il brano di Daniele ci presenta una visione nella quale appare il Vegliardo, circondato da miriadi di esseri celesti. Egli siede sul trono, giudica i regni e li fa concludere nel tempo e nella morte. Appare, accanto, un nuovo sovrano, “sulle nubi del cielo, simile a un figlio di uomo”. Viene dal cielo e non dagli abissi dell’oceano come le bestie detronizzate. Riceve i poteri regali su tutti i popoli della terra e il suo regno non avrà fine. Probabilmente, all’inizio questo “figlio di uomo” rappresentava il popolo d’Israele nella sua parte migliore, e non si dice se il suo governo fosse spirituale o terreno.
Lungo la storia, poi, lentamente, prenderà forma un’attesa messianica, aperta al futuro, in attesa dell’Inviato del Signore, il Re Messia. Di fatto, Gesù applicherà a se stesso l’espressione “figlio dell’uomo”, nell’aspetto più umano della sofferenza, nell’aspetto più divino della facoltà di rimettere i peccati e nell’aspetto conclusivo della storia del giudizio finale.  A quest’ultimo aspetto si aggancia l’interpretazione che ha dato Gesù ricordando la parabola del Giudizio finale, accettando di rispondere al sommo sacerdote circa la propria identità.  È il brano del Vangelo di oggi.
Prima di commentarlo, ancora una riflessione sulla storia guidata da Dio: è di don Angelo Casati. La visione del Vegliardo sul trono «viene a dirci che il futuro, checché se ne pensi, non è di coloro che incarnano arroganza e bestialità, ma del Figlio dell’uomo. Vorrei dire, il futuro è di colui, di coloro, che credono non nella bestialità, nella volgarità, nella corruzione, ma nell’umano, di coloro che danno spazio e forza a quanto di profondamente umano, di nobile e di conseguenza di divino, vive nella storia. Anche se sembrano zittiti ed esiliati dai cosiddetti rampanti, i vincenti. Che pensano di essere immortali: vanno proclamando che il loro potere non avrà fine. Ma si illudono! Solo al Figlio dell’uomo spetta, dice la visione, un potere eterno che non finirà mai. Il suo regno, fatto di umanità e non di bestialità, non sarà mai distrutto. E non è forse quello che ci ricorda anche Paolo nella lettera ai cristiani di Corinto? Ci ricorda che con la risurrezione di Cristo una forza di vita scorre nelle vene della storia e che ogni arroganza dei potenti verrà ridotta al nulla, sino all’ultima delle potenze arroganti, la più devastante, la morte. Anche questa verrà annientata, annientata per sempre».
Ma quando ciò avverrà? Questo interrogativo è il nostro dramma umano, ed è il dramma della storia che continua ad essere un bersaglio della bestialità del male, che si incarna negli istinti più bestiali dell’essere umano.
Una parabola ancora tutta da decifrare
Il brano del Vangelo di Matteo contiene una parabola tutta da decifrare. Anzitutto, va detto che è l’ultima parabola di Gesù, poi ha inizio il racconto della sua passione. Perciò, possiamo immaginare il contesto: quello di un duro scontro di Gesù con i rappresentanti dei diversi gruppi di potere che gravitavano attorno al tempio di Gerusalemme.
Fa osservare giustamente don Ciccone che «questo testo va riletto secondo un linguaggio tipico dei predicatori del tempo che volevano scuotere gli ascoltatori con immagini impressionanti… Qui si vogliono fornire insegnamenti su come comportarsi oggi, su che cosa veramente vale, su che cosa significhi seguire Gesù e come veramente incontrarlo… Tutto si svolge come un dialogo tra il re e i due gruppi divisi tra destra e sinistra (nella simbologia religiosa la mano destra richiama gesti e situazioni favorevoli). La verifica è sul “fare” e sull'”aver fatto” in rapporto ai bisogni e alle necessità quotidiane delle persone. Non c’è nulla di eroico, ma il richiamo alle opere di misericordia (ne sono elencate 6, numero imperfetto) richiede attenzione a queste e ad altre che potrebbero sorgere nella realtà di ciascuno, allungando l’elenco stesso. I giusti non sanno neppure di aver soccorso il Signore stesso nei bisognosi. Non c’è neppure un accenno a gesti religiosi di culto, né ai temi dell’Alleanza ebraica. Quello che conta sembra essere il puro gesto materiale di aiuto. Tutti sono chiamati alla salvezza, passando attraverso l’attenzione a chi è povero. È una splendida, terribile e semplice sintesi che angoscia nella storia e si pone come vera attenzione».
Ma andrei oltre: non mi fermerei ad un aspetto solo sociologico del messaggio cristiano. Fa notare don Casati che Dio non è uno che si esibisce, ma si nasconde. È un Dio in incognito. Ma dove si nasconde? Sì, nella parola di Dio, nella Chiesa, nel povero. Ma Dio si nasconde in noi, ed è qui che Dio assume il volto di tutti, di ogni essere umano, soprattutto nei volti sfigurati dalla violenza e anche a causa della nostra indifferenza. Non è vero che può bastare un gesto di carità, senza badare alle motivazioni per cui lo compiamo. Le motivazioni sono tutte nel fatto che ogni essere umano, in quanto essere umano, richiede rispetto e dignità. È in quell’”io sono” che c’è la mia dignità divina, e come tale devo essere rispettato.

 

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