Omelie 2016 di don Giorgio: ULTIMA DOPO L’EPIFANIA

7 febbraio 2016: Ultima dopo l’Epifania
Sir 18,9-14; 2Cor 2,5-11; Lc 19,1-10
Siamo fragili, perciò bisognosi della misericordia divina
Partiamo dal primo brano. Di poche righe, ma da inquadrare nel contesto, tenendo conto anche del capitolo precedente, dove si invita il popolo ebraico a convertirsi al Signore. In breve: “Ritorna al Signore e abbandona il peccato… Volgiti all’Altissimo e allontanati dall’ingiustizia (17,25-26). Il capitolo 18, di cui fa parte il brano di oggi, si apre in un canto di gioia verso il Dio misericordioso. Ma, ecco la domanda: che cosa induce a compassione il Signore nella sua grandezza? Risposta: la nostra fragilità e la nostra debolezza. Convertirsi allora non significa pentirsi solo dei nostri peccati, che fanno parte della nostra debolezza, ma prendere coscienza del nostro stato di debolezza in sé. Qui sta il punto. Noi siamo talora preoccupati, anche perché la Chiesa è particolarmente ossessiva in questo, dei peccati da confessare, ma non vogliano prendere coscienza del fatto che costituzionalmente siamo fragili e deboli. Il vero ostacolo alla misericordia di Dio è il nostro orgoglio, ovvero sentirci forti, capaci perfino di sfidare Dio, quando occorre.
Come prendere coscienza che siamo fragili? Ecco una seconda domanda. Finché restiamo all’esterno di noi, in una società che sembra garantirci tutto e poi ci abbandona lasciandoci nella disperazione, pronti poi a fidarci ancora appena un altro imbonitore ci illude facendoci credere di essere anche noi i padroni del mondo, saremo sempre daccapo, e sarà inutile andare a confessarci come se bastasse ritogliere i peccati con una assoluzione per scoprire dove sta la vera fragilità umana. Ci fermiamo all’esterno, ovvero all’elenco dei peccati che commettiamo, ma non rientriamo dentro di noi, da cui partono i peccati. Nei versetti precedenti al brano di oggi (18,9-10), leggiamo: «Che cos’è l’uomo? A che cosa può servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? Quanto al numero dei giorni dell’uomo, cento anni sono già molti… Come una goccia d’acqua nel mare e un granello di sabbia, così questi pochi anni in un giorno dell’eternità. Per questo…», e qui inizia il brano di oggi, «il Signore è paziente verso di loro ed effonde su di loro la sua misericordia…».
Capite allora il vero motivo per cui il Signore è misericordioso verso l’essere umano: proprio perché noi, per la nostra stessa natura, siamo fragili e deboli. Se è vero che Dio è misericordioso verso i peccatori, sarà ancor di più misericordioso, se prenderemo coscienza del fatto che siamo deboli, indipendentemente dai nostri peccati.
San Paolo offeso da un cristiano
Passiamo al brano di San Paolo. L’Apostolo, oramai anziano, soffre la propria stanchezza, poiché non si sente accolto profondamente dai suoi e sopporta con fatica le persecuzioni, i tradimenti degli amici, le ambiguità e i sospetti che i fratelli spesso fanno emergere.
Nei versetti immediatamente precedenti parla di una visita che aveva fatto alla comunità cristiana di Corinto e, in quella occasione, era stato gravemente offeso. Da chi? Non si sa, e neppure che cosa sia successo. È difficile ricostruire il fatto. Comunque, ritornato a Efeso, ha preferito scrivere una lettera ai cristiani di Corinto per chiarire la situazione. È la cosiddetta “lettera delle lacrime” che non ci è pervenuta. Poi Paolo voleva ritornare, ma vi aveva rinunciato per non aggravare la crisi dei rapporti con i Corinzi.
Comunque, tornata la calma, dopo che la comunità ha isolato l’offensore e lo ha castigato, Paolo chiede di perdonarlo e di accoglierlo nella comunità, poiché si è ravveduto e si è sottomesso.
Che dire di questa triste vicenda che ha visto coinvolto di persona lo stesso San Paolo? Anzitutto, gli screzi, le offese e le incomprensioni erano frequenti anche tra i primi cristiani. Basterebbe leggere gli scritti del Nuovo Testamento. Tuttavia, anche questo serviva a rendere più umani soprattutto coloro che, raggiunto un certo grado di potere o di responsabilità, erano tentati di ritenersene immuni o superiori agli altri. Anche le critiche servono, talora anche le offese, per renderci conto di quanto siamo fragili e indegni di ciò che rappresentiamo. Troppi elogi o troppo consenso intorno a noi possono renderci superbi o i migliori, quando invece dovremmo essere ogni giorno stimolati al meglio.
L’incontro di Gesù con Zaccheo
L’episodio di Zaccheo è uno tra i più noti, anche per i toni pittoreschi e ironici del racconto. L’ironia iniziale lascia poi il posto alla grazia di Dio, che sa anche prendersi gioco di noi, ma alla fine entra in scena, trasformando la nostra ridicola boria in un radicale cambiamento interiore.
Luca ha descritto la scena in modo magistrale, portando il lettore un po’ incuriosito a cogliere poi il cuore dell’incontro. Non riusciamo a capire chi dei due in realtà fosse più interessato: se Gesù o Zaccheo. Essi si cercano a vicenda, contrastati però da una folla curiosa di vedere Gesù e per nulla rispettosa dell’odiato Zaccheo. Ma Gesù non vede la folla: vuole farsi vedere da Zaccheo, nel frattempo salito su una pianta, lui, l’arcipubblicano come lo chiama Luca: parola che in greco non esiste. L’intenzione dell’evangelista è comunque chiara: presentarlo come il più importante dei pubblicani, e quindi il più impuro, il più ladro, il più lontano da Dio, e, per questo, il più odiato dal popolo ebraico. E pensare che il nome Zaccheo significa “il puro”, “il giusto”.
Quando lo vede, Gesù lo chiama per nome, dandogli così la possibilità di riscattarsi. Colui che era chiamato con disprezzo, come se fosse una burla anche per il suo aspetto fisico, uno sgorbio di uomo, davanti a Gesù è solo una persona da salvare. Gesù scommette sempre sull’impensabile: anche convertire l’umanamente impossibile.
“Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua”. “Scendi”: un verbo caro a Gesù, che è sceso sulla terra proprio per incontrare ogni essere umano, e l’essere umano è tale quando scende, ovvero rientra in se stesso.
“Oggi”: anche questo avverbio è caro a Gesù, che è venuto a inaugurare l’anno di grazia del Signore, ovvero quel Giubileo che è sempre l’oggi, il presente senza limiti di tempo e di luogo.
“Devo fermarmi a casa tua”. “Devo”: è un obbligo: il Figlio di Dio non può sottrarsi al dovere di incontrare ogni essere umano, a partire – qui sta il vero amore e la vera solidarietà – non da chi è povero materialmente, ma da chi è “povero di spirito”.
“A casa tua”: Gesù cerca uomini o donne sulle strade, là dove sono esistenzialmente “poveri di spirito”, ma l’incontro avviene in casa, ovvero nell’intimità dell’essere. “Fuori”, c’è la ricerca, ma è “dentro” che c’è l’incontro.
Ora Zaccheo si sente un ladro. Anche prima lo era, ma la professione lo copriva: si sentiva giustificato. Ora, in casa con Gesù, ovvero rientrato in sé, si sente colpevole, un essere spregevole. Ed ecco le sue decisioni: restituire il maltolto. Non solo, ma decide di donare di più. Già la legge imponeva ai ladri di restituire il furto, con l’aggiunta dei danni materiali e morali. Ma Zaccheo decide di restituire parte del suo di più. Ogni di più è un furto e va restituito per il bene universale. Qual è il di più? Don Mazzolari rispondeva: non è quello stabilito dalla legge, ma dall’amore.
Il vero problema non è solo quello di restituire il maltolto, ma creare una società dove ci sia una comune coscienza di ciò che vale e non vale: al di là dei beni materiali, c’è da creare quella consapevolezza, per cui siamo tutti esseri umani che si scambiano gratuitamente i beni spirituali: i beni dell’essere, per essere chiari.

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