Omelie 2012 di don Giorgio: Festa di Cristo Re dell’Universo

11 novembre 2012: Nostro Signore Gesù Cristo re dell’Universo
 

Anche qui, tutti gli anni siamo quasi costretti a trovare delle buone ragioni per giustificare la Festa di Gesù Cristo con il titolo di Re dell’Universo. Già la parola re, una tra le più piccole parole della nostra lingua, sembra che stoni nel contesto dei Vangeli. Re deriva da “regere”: governare, comandare. Ogni dizionario alla parola re dà questi sinonimi: sovrano (uno che sta sopra), monarca (uno solo che comanda).
Nella Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, Dio è presentato come re, cosmico e in particolar modo del popolo eletto. Geloso della sua regalità, tanto è vero che quando gli ebrei vollero anche loro un re, Dio tramite il profeta Samuele aveva fatto sentire la sua delusione, quasi che il popolo non avesse più fiducia in lui.
Anche il futuro messia è raffigurato nelle vesti regali. L’episodio dei magi è significativo. Si chiedono: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei?”. Erode si spaventa, perché teme un rivale. Chi non ricorda l’episodio narrato da Giovanni, quando le folle, dopo il miracolo compiuto da Gesù che aveva moltiplicato i pani, lo vogliono fare re? Chi non ricorda l’entrata regale di Gesù in Gerusalemme? La folla acclama: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!”. Chi non ricorda il dialogo tra Gesù e Pilato che gli chiede: “Sei tu il re dei Giudei?”. E sulla tavoletta posta sopra la testa di Gesù inchiodato sulla croce Pilato che cosa aveva fatto scrivere? “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”.
Anche la parola regno è assai diffusa sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo. Ciò che potrebbe impressionarci è l’insistenza con cui nei Vangeli si parla ancora di un “Regno di Dio”. Il primo annuncio di Gesù è proprio questo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”. Nelle parabole Gesù presenta Dio sotto le vesti di un re. Del resto la Chiesa fin dall’inizio, e ancora oggi, parla di Gesù come sacerdote, re e profeta. Tutti, gli stessi laici, nel Battesimo partecipano al triplice ufficio di Gesù come sacerdote, re e profeta. Rivolgendosi ai battezzati, l’apostolo Pietro scrive: «… voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce (…)» (1 Pt 2, 4-5. 9).
Questo aspetto non è mai stato dimenticato dalla tradizione viva della Chiesa, come appare, ad esempio, dalla spiegazione che del Salmo 26 offre Sant'Agostino. Scrive: «Davide fu unto re. A quel tempo si ungevano solo il re e il sacerdote. In queste due persone era prefigurato il futuro unico re e sacerdote, Cristo (e perciò "Cristo" viene da "crisma"). Non solo però è stato unto il nostro capo, ma siamo stati unti anche noi, suo corpo (…). Perciò l'unzione spetta a tutti i cristiani, mentre al tempo dell'Antico Testamento apparteneva a due sole persone. Appare chiaro che noi siamo il corpo di Cristo dal fatto che siamo tutti unti e tutti in lui siamo cristi e Cristo, perché in certo modo la testa e il corpo formano il Cristo nella sua integrità».
Il Concilio Vaticano II, di cui in questi giorni si fa un gran parlare, ricorrendo il 50 anniversario della sua apertura ufficiale (11 ottobre 1962), tra i numerosi documenti ci ha lasciato uno in particolare, la Costituzione “Lumen Gentium” che tratta la Chiesa in sé, anche come popolo di Dio. Il laicato viene rivalutato in tutta la sua importanza.
Si torna a insistere sulla reale partecipazione dei laici alla triplice funzione di Cristo: come sacerdote, re e profeta. Facciamo pure tutte le distinzioni che vogliamo tra il Sacerdozio gerarchico e il sacerdozio comune del Popolo di Dio, tuttavia l’affermazione rimane, ovvero che anche il Popolo di Dio, nel suo laicato, è parte del sacerdozio, della regalità e della profezia di Cristo. In questo senso, dovremmo allora veramente rivalutare il battesimo, così da evitare di ridurlo ad un semplice rito di immissione nella Chiesa come struttura.
Sì, è vero, la Chiesa ha sempre detto le più belle cose sul Popolo di Dio, ovvero sui laici, ma nello stesso tempo ha sempre tenuto lontano il Popolo dalla gerarchia della Chiesa. (Già la parola gerarchia è veramente brutta, offensiva, anti-evangelica). Una netta separazione che dura ancora oggi, nel potere e nei privilegi. Basterebbe solo pensare al mondo femminile. La donna nella Chiesa è rimasta ancora ai margini. La rivalutazione del popolo di Dio non va vista solo nel campo collaborativo o di tipo pratico o nelle mansioni di potere. In questo senso qualche passo in avanti c’è stato, ma non basta. Ed ecco la domanda: che significa che Cristo è sacerdote, re e profeta? Certo, basterebbe leggere i Vangeli per rendercene conto. Cristo è venuto non per essere servito, ma per servire. Basterebbe questo per ribaltare ogni nostra concezione della fede e del nostro essere Chiesa di Dio. Spesso mi chiedo: come fa il Popolo di Dio, nel suo laicato, comprendere il senso sacerdotale, regale e profetico di Cristo se la Chiesa finora non ha fatto altro che tenersi per sé la triplice missione di Cristo, e per di più tradendola?
La festa di oggi potrebbe aiutarci a cogliere il senso della regalità di Cristo. In fondo, dire che Cristo è sacerdote e profeta non è che ci crei problemi: ci sembra che sia scontato unire le due parole, sacerdote e profeta, almeno in teoria, ma aggiungere la parola re sembra quasi una contraddizione. Ma è proprio questo paradosso che dovrebbe farci riflettere. Assumendo il titolo di re Cristo ha voluto darci una lezione, proprio partendo dalla storia dell’umanità. Una storia fatta di re e imperatori, di regine e imperatrici, di faraoni e di monarchi, che hanno esercitato un potere di dominio coercitivo sul popolo. Cristo sembra dirci: anch’io sono re, ma non nel senso che voi date alla parola. Per voi il regno è di dominio, per me il regno è di servizio. E non solo l’ha detto, ma tutta la sua vita ne è la prova. Ha regnato dalla croce. San Paolo lo dice chiaramente: la croce è stata lo scandalo per i giudei, e follia per i greci. Secondo loro Dio non poteva morire così, nella umiliazione più assurda. Appunto, uno scandalo, una follia.
Pensate a ciò che è successo nella storia della Chiesa. Ancora oggi. Cristo deve trionfare, e la Chiesa deve esserne la prova. Il trionfalismo nella Chiesa. Un trionfalismo che non ha conosciuto limiti, che ha travolto ogni diritto umano. Leggendo la storia della Chiesa, nei suoi periodi più bui, e ancora oggi nel suo rifugiarsi in una struttura di ferro mi chiedo come ha potuto e come tuttora può tradire il messaggio evangelico di Cristo.
Il segreto per uscire da questa prigione piramidale sta nel cogliere il vero senso della espressione “regno di Dio”. E non è che dovremmo fare grandi sforzi, o ricorrere a tutta la sapienza dei dotti: apriamo il Vangelo, e che cosa troviamo?
All’inizio ho citato il messaggio iniziale di Gesù alle folle: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Sto leggendo un libro di commento al Vangelo di Marco del sacerdote spagnolo, Josè Antonio Pagola, che soprattutto per il suo libro “Gesù – un approccio storico”  è da tempo sotto controllo da parte della gerarchia vaticana, per le sue aperture e soprattutto perché l’autore fa una ricerca storica, preoccupandosi di andare alle origini del Vangelo per sapere ciò che è del Cristo autentico e ciò che è una manipolazione della Chiesa primitiva. Commentando le parole di Gesù: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino…”, il sacerdote spagnolo scrive:
«Gli esperti pensano che quello che Gesù chiama “regno di Dio” sia il cuore del suo messaggio e la passione che anima tutta la sua vita. La cosa sorprendente è che Gesù non spiega mai esplicitamente in cosa consista il “regno di Dio”. Quello che fa è suggerire in parabole indimenticabili come agisce Dio e come sarebbe la vita se ci fosse gente che si comportasse come lui. Per Gesù il “regno di Dio” è la vita così come Dio la vuole costruire. Era questo che portava dentro: come sarebbe la vita nell’Impero, se a Roma regnasse Dio e non Tiberio? Come cambierebbero le cose, se non si imitasse Tiberio, il quale cerca solo potere, ricchezza e onore, ma Dio che chiede giustizia e compassione per gli ultimi? Come sarebbe la vita nei villaggi della Galilea, se a Tiberiade regnasse Dio e non (Erode) Antipa? Come cambierebbe tutto, se la gente non somigliasse ai grandi proprietari terrieri, che sfruttano i contadini, ma a Dio, che vuole vederli sfamare e non morire di fame? Per Gesù il regno di Dio non è un sogno. È il progetto che Dio vuole portare avanti nel mondo. L’unico obiettivo che devono avere i suoi seguaci. Come sarebbe la Chiesa se si dedicasse solo a costruire la vita come vuole Dio e non come la vogliono i padroni del mondo? Come saremmo noi cristiani, se vivessimo convertendoci al regno di Dio? In che modo lotteremmo perché ogni essere umano abbia il “pane di ogni giorno”? In che modo grideremmo: “Venga il tuo regno”?».
Poco dopo, il sacerdote spagnolo scrive: «L’unico modo per guardare la vita come la guardava Gesù, l’unico modo di sentire le cose come le sentiva lui, l’unica maniera di agire come lui agiva, è di orientare la vita verso la costruzione di un mondo più umano». Dunque, possiamo concludere, il regno di Dio non è la restaurazione di una teocrazia, neppure della Chiesa cattolica in quanto tale, ma la costruzione di un “mondo più umano”. Per fare questo, occorre che il regno di Dio parta dal nostro interiore. Dobbiamo convertirci. Commenta Pagola: «Il verbo greco che rendiamo con “conversione”, in realtà significa “mettersi a pensare”, “rivedere la prospettiva”. Le parole di Gesù potremmo tradurle così: “considerate se avete qualcosa da rivedere e correggere nel vostro modo di pensare e di agire, perché in voi si compia il progetto di Dio per una vita più umana”. Se è così, la prima cosa da rivedere è ciò che blocca la nostra vita. Convertirci significa “liberare la vita”, eliminando paure, egoismi, tensioni e schiavitù che ci impediscono di crescere in maniera sana e armoniosa… Non ci si richiede una fede sublime né una vita perfetta, ma solo che viviamo confidando nell’amore che Dio ha per noi. Convertirci non significa impegnarci a essere santi, ma imparare a vivere accogliendo il regno di Dio e la sua giustizia. Solo allora può iniziare in noi una vera trasformazione».
“Liberare la vita”! La vita è prigioniera di che cosa? Sì, è prigioniera anche di una religione che crea paure, peccati inutili, steccati e separazioni tra giusti e peccatori. Allora più diventiamo liberi, più diventiamo umani e più ci avviciniamo al regno di Dio.     

 

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