Omelie 2018 di don Giorgio: ULTIMA DOPO L’EPIFANIA

11 febbraio 2018: ULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Is 54,5-10; Tm 14,9-13; Lc 18,9-14
Peccati, tradimenti e promesse 
Una prima riflessione ce la offre il brano di Isaia o, meglio, del profeta anonimo che gli studiosi chiamano il Secondo o Deutero Isaia, che ha scritto la seconda parte del libro di Isaia, ovvero i capitoli che vanno dal 40 al 55, dove si annuncia e si descrive il ritorno degli esuli ebrei nella loro patria.
Il Signore aveva punito, forse troppo duramente, il popolo eletto, con la distruzione nel 586 a.C. da parte dei babilonesi del tempio di Gerusalemme e la deportazione in massa degli ebrei a Babilonia, dove rimasero in schiavitù per più di cinquant’anni. Solo con l’editto del 538 a.C. del persiano Ciro il Grande, gli ebrei poterono tornare in Palestina. Qui trovarono desolazione e dovettero ricostruire tutto: le mura della città e il tempio. Iniziava così un nuovo periodo.
A leggere le profezie del dopo esilio sembra di assistere a qualcosa di veramente straordinario e di definitivo, come se si trattasse di un nuovo eden, che non potrà più essere tolto per la gioia del popolo eletto, che finalmente potrà gustare in pienezza i frutti della terra promessa.
Il Signore non solo torna a garantire un futuro diverso, ma addirittura fa un giuramento: «Ora è per me come ai giorni di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque di Noè sulla terra; così ora giuro di non più adirarmi con te e di non farti più minacce. Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace; dice il Signore che ti usa misericordia».
Ma sarà proprio così? Non si trattava di un sogno “ingenuo” di profeti utopici?
La storia ci insegna che i sogni durano poco, che le utopie troppo belle sono irrealizzabili e che la realtà rimane la tragedia di una società fondamentalmente malata di egoismo, individuale e collettivo, senza poter vedere una via di uscita, neppure oggi dopo duemila anni di cristianesimo.
Le profezie come intenderle?
Come leggere allora la storia dell’umanità?
Secondo la Bibbia, il mondo è in cammino verso un futuro migliore, con la garanzia di un Dio che mantiene sempre le sue promesse. Ma è proprio così? Le risposte possono essere diverse.
Una prima cosa da dire è questa: non sembra che il progresso tecnologico di per sé abbia migliorato il mondo: certamente ha favorito le comodità, ha offerto più possibilità di allargare gli orizzonti culturali, di visitare luoghi lontani, in altre parole: di avvicinare il mondo e di portarlo quasi in casa nostra.
Ma con quali risultati? Di questo mondo globale presente nel nostro contesto esistenziale che cosa abbiamo preso: la parte migliore o la parte peggiore? Questo è il punto, o la vera domanda da fare.
Se l’uomo di un tempo, parlo della gente comune, quella povera, si accontentava di quel poco che aveva e lo prendeva come una benedizione divina, nonostante difficoltà di ogni genere, oggi sembriamo trottole in balìa di una tecnologia inarrestabile e impazzita.
Non possiamo dire che l’uomo moderno sia più felice, nonostante un maggior benessere materiale. Un tempo, c’era il ben-essere nonostante la povertà materiale, oggi c’è il mal-essere, nonostante un maggior avere.
Le lotte sindacali per la conquista dei diritti civili sono servite, certamente, ma solo in parte: forse ci saremmo aspettato di più, ovvero che la giustizia andasse oltre quell’individualismo di massa, che ha reso la società un insieme di tanti individui, vittime di un ego distruttivo di ogni solidarietà, e della stessa giustizia che non è solo mia, ma di tutti.
Che significa, dunque, mondo migliore?
Ho letto giorni fa il titolo di un articolo che è già un programma: il ’68 non ha più nulla da insegnarci, perché oggi il mondo è migliore di quello che era cinquant’anni fa. Certamente, il passato è passato, e il mondo d’oggi è diverso, ma in bene o in male? Possiamo star qui delle ore a discutere sugli aspetti anche negativi degli anni della contestazione sessantottina, ma dire che il mondo d’oggi sia diventato migliore è una grande bugia. Oggi siamo più alieni dei ragazzi che allora, cinquant’anni fa, contestavano bene o male l’avere di una società borghese e capitalista.
E oggi chi sono i giovani?
Politici e gerarchi ecclesiastici sono preoccupati per le prossime votazioni, perché, secondo alcuni sondaggi, una certa preoccupante percentuale dei diciottenni diserterebbe le urne.
A parte lodevoli eccezioni, che anche personalmente conosco, c’è da spaventarsi di questo mondo giovanile che pensa solo a costruirsi un proprio orticello, senza sporcarsi le mani impegnandosi in qualcosa di veramente serio, al di là di qualche impegno di tipo volontaristico che serve solo per salvare la faccia.
Anni fa si parlava di essere, della scoperta dell’essere. Gli stessi sessantottini erano attirati dall’essere, anche se poi questo fascino è durato poco, con l’avanzare del boom economico, con l’avvento del progresso tecnologico che ha dato un colpo fatale all’essere, creando le premesse della società di oggi, spaventosamente vuota della propria realtà interiore.
Non è vero che oggi il mondo sia migliore, se è vero che abbiamo sepolto o addirittura spento l’essere interiore.
In questa campagna elettorale tutti offrono a buon mercato un po’ di avere,  dietro la veste di ingannevoli promesse.
Sta proprio qui l’inganno, e sta qui anche la nausea dei giovani, che sono stanchi di sentire parlare di cose e cose, ma nello stesso tempo si rendono complici, restando vittime di una nausea, senza però reagire.
Ma a questi giovani chi parla del mondo dell’essere? La politica no, e purtroppo nemmeno la Chiesa.
Li invitiamo al voto, ma in nome di che cosa? Per un pugno di ceneri?

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