Perché nell’Italia presentista e populista è salutare parlare di Pci

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IL BLOG
10/10/2020

Perché nell’Italia presentista e populista

è salutare parlare di Pci

Il valore del libro “Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia” (Marsilio) è il rifiuto dell’oblio su una grande storia che è anche storia del paese.
Alessandro De Angelis
ViceDirettore
Diversi anni fa, in un appassionato carteggio, Vittorio Foa, una delle personalità più acute nella storia del movimento operaio, si interrogò e interrogò Miriam Mafai e Alfredo Reichlin sul perché del “silenzio dei comunisti”. Il perché della timidezza, ai limiti della rimozione di un lutto non elaborato, nel raccontare quel paese nel paese che ha segnato la vicenda repubblicana, un’esperienza unica ed originale. Così peculiare da impedire che i suoi eredi fossero sepolti nelle macerie del Muro di Berlino. “Sento come un’ossessione questo silenzio”, diceva Foa, reso più acuto e doloroso dal rumore, nel dibattito pubblico di allora, di un anticomunismo sopravvissuto alla fine del comunismo stesso, come aggressione più che come ricerca.
Ecco, siamo ancora lì, a proposito di silenzio, anzi, semmai peggio nell’Italia presentista e populista, che nella dittatura dell’istante ha sterminato la memoria novecentesca delle identità collettive col napalm dell’antipolitica: la storia d’Italia come cinquant’anni di partitocrazia e malaffare, i partiti come Caste e non come democrazia che si organizza, il nuovismo, per cui la storia cessa di essere un campo di costruzione di senso e diventa un ferro vecchio. Non è questione di oggi, anzi le “scaturigini” hanno ormai radici ventennali, ma la novità di oggi è la capacità “egemonica” di tutto ciò. Il libro della storia d’Italia ha di nuovo voltato pagina: democrazia e populismo non sembrano i due poli di un conflitto, ma la democrazia stessa è diventata “populista”: chi più chi meno, c’è un humus comune, nel linguaggio, nella visione delle istituzioni, nella cultura della disintermediazione.
Scusate le chiacchiere – ebbene sì, le maledette premesse – però il valore del libro Quando c’erano i comunisti. I cento anni del Pci tra cronaca e storia (Marsilio) è anche questo: il rifiuto del silenzio, adesso che anche il calendario potrebbe invitare alla riflessione (il prossimo anno ricorre il centenario della nascita del Pci). Gli autori Marcello Sorgi e Mario Pendinelli, sono giornalisti di valore e grande esperienza, che quella storia, almeno nella parte finale, l’hanno vissuta e raccontata da cronisti. Il loro saggio, denso e rigoroso, non è, e non vuole essere, una classica storia del Pci ma il tentativo di rispondere a domande che, più volte e in altre epoche, tutti si sono posti. Sembra un paradosso, ma l’“attualità” sta proprio nel loro essere demodé e in lite con l’oblio dominante: perché il Pci è nato, e poi rinato nel dopoguerra, diventando il più grande partito comunista d’Occidente, un esperimento unico ed originale, la cui storia e penetrazione organizzativa ha interessato studiosi per generazioni. E per generazioni si è discusso, chi sottolineando la sua carica innovativa rispetto a Mosca, dalla svolta di Salerno fino allo strappo di Berlinguer, chi documentando il rapporto con l’Urss, anche nel primo caso (la svolta di Salerno) fino a negarne l’autonomia. Ricordate, i tanti topoi storiografici, dalla celebre “doppiezza” al Pci come una “giraffa” col corpo in Italia e la testa oltre la cortina di ferro?
Ecco, il racconto di Sorgi e Pendinelli che pur tiene conto della dimensione internazionale – molto bello il ritratto, anche caratteriale di Lenin – esplora e racconta il tratto più originale di questa storia. Il Pci, è ormai assodato, non fu un partito autonomo. E nemmeno, assodato pure questo, una prefettura di Mosca, anche se faceva parte della grande e terribile storia del movimento comunista internazionale novecentesco. Se non è diventato uno dei tanti partitini satelliti del socialismo reale o attratti dal comunismo rurale di Mao o da quello castrista delle canzoni degli Intillimani, è grazie ad Antonio Gramsci e alla sua lezione. Scriveva Eugenio Garin, citato nel libro: “Gramsci non credeva che il consenso dovesse essere conseguenza della conquista del potere: nella sua visione doveva avvenire esattamente il contrario”. È il punto cruciale per comprendere la specificità del Pci, perché è grazie a questa elaborazione che il Pci ha “parlato italiano”, interpretando in modo creativo gli equilibri che si sono venuti a creare nell’equilibro geopolitico e, soprattutto sul terreno del partito di massa.
Forse la parte più riuscita del libro è proprio il ritratto, che restituisce nella cura dei dettagli anche il clima dell’epoca, delle donne e degli uomini che negli anni Trenta del secolo scorso ebbero un ruolo nella storia comunista italiana, anche non essendo comunisti, come nel caso di Tania, la cognata che riesce a salvare i Quaderni. La fascinazione di Gramsci è tutt’uno con la fascinazione del clima culturale dell’epoca, dei suoi protagonisti, delle proprie relazioni. Uno dei tanti aneddoti: “Durante il periodo degli attentati fascisti, che impone una sorta di vigilanza rivoluzionaria, un giorno mentre è di guardia nella redazione del suo giornale, Longo vede entrare uno sconosciuto, “un signore distinto con gli occhiali” racconterà a Felice Chilanti, giornalista e scrittore, “Chi cercate?” gli chiese. “Antonio Gramsci” è la risposta. “È già uscito. Voi chi siete?”. L’altro risponde: “Benedetto Croce””.
Il rapporto dialettico Croce, il ruolo di Gramsci come intellettuale e dirigente politico, o meglio come intellettuale in quanto dirigente politico, e dirigente in quanto intellettuale, il suo radicamento nella cultura europea e italiana, l’analisi del capitalismo oltre la teoria marxista del crollo sviluppata nel quaderno sull’Americanismo: la sua esperienza e genialità dentro la temperie drammatica dello stalinismo, e arrestato perché, come scrisse il pm, “andava impedito a questo cervello di pensare”, è la riposta alla domanda al centro del libro. Esperienza che matura non “ideologicamente”, ma in quello straordinario e anticipatorio contesto della Torino degli anni Venti, come scrisse Gobetti, in un passaggio anch’esso citato nel libro: “Il Movimento comunista torinese, negli anni 1918-20, si presenta con una organicità di pensiero e una serietà di intenzioni, che suscitano meraviglie e interessi anche in un avversario”. Perché è lì, non a caso, che nel confronto con la modernità della grande fabbrica si misura il salto rispetto al socialismo parolaio e inconcludente che si agita nel paese.
Il libro non finisce qui, ma sostanzialmente si capisce che, per gli autori, finisce qui la forza creatrice del comunismo italiano, nella misura in cui tutti i meriti di Togliatti sono racchiusi nell’aver custodito e attuato la lezione di Gramsci, aggiungendo, di suo, solo una maggiore attenzione al mondo cattolico. Giudizio un po’ ingeneroso, forse al di la delle stesse loro intenzioni, perché cela i tratti di originalità politica e intellettuale, non solo organizzativa, con cui il Migliore dà lo scettro al novello Principe, nelle condizioni date di una lunga guerra di posizione sul terreno della democrazia politica. Il rapporto con i ceti medi e la strategia delle alleanze sociali, la capacità di coniugare Gramsci e Croce, proletariato e borghesia, il partito che si fa Stato su una capacità di visione autonoma dell’interesse nazionale: il Pci di Togliatti è un esperimento politico unico ed è forse anche lì che vanno indagati i tratti che maggiormente ne hanno garantito una tenuta e un rapporto fecondo con la società italiana.
I libri vanno letti, non raccontati nelle presentazioni, neanche quando la lettura appassiona, come in questo caso, sino alla storia più recente, di quando il Pci entra in crisi strategica dopo il compromesso storico fino alla svolta dell’89, raccontata grazie a interessanti testimonianze dirette. In conclusione il volume ripresenta la celebre intervista di Mario Pendinelli a Umberto Terracini che, a proposito di Pci e storia d’Italia, al teatro Goldoni di Livorno parlò dal palco e nel dopoguerra firmò la Costituzione da presidente dell’Assemblea costituente. In chiaroscuro, nelle pieghe di un’intervista malinconica, c’è tutta la consapevolezza della crisi e la necessità di coniugare socialismo e diritti. Riflessione, anche questa, valida per l’oggi, almeno per chi è alla ricerca di vie nuove per la sinistra nella grande crisi. E non si rassegna al silenzio.

2 Commenti

  1. GIANFRANCO ha detto:

    Coniugare socialismo e diritti è come la quadratura del cerchio: impossibile. Perché? Perché i diritti afferiscono al riconoscimento del valore primario della persona umana mentre per il socialismo/comunismo il valore primario non è il soggetto umano, bensì il collettivo, la classe, il partito, lo Stato.

    • Don Giorgio ha detto:

      Il capitalismo cosa ha fatto e cosa fa? Non è forse peggiore del comunismo? Il comunismo sembra oggi morto, il capitalismo sembra eterno. Chissà perché ha condannato il marxismo e i comunisti, mentre non ha mai condannato il capitalismo e i capitalisti.Berlusconi ha ucciso la mente di milioni italiani, peggio di Hitler o di Stalin che hanno ucciso non la mente ma solo i corpi.

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