Tanta rabbia, forti ideali e poche speranze

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Tanta rabbia, forti ideali e poche speranze

Sarà anche vero! In questi ultimi tempi sto diventando sempre più acido, più critico, duro, inflessibile; esprimo giudizi perentori su tutto, società e chiesa; sembro addirittura pieno di rabbia e vendicativo. Prendo ogni occasione per condannare. Vedo in ogni bicchiere il quasi tutto vuoto. Neppure offro la possibilità che per questo mio stato d’animo ci sia qualche giustificazione. A chi poi non mi conosce do l’impressione che sia nato già col piede storto.
Di motivi per esserlo ce ne sarebbero. Ma forse, nonostante questo, dovrei fare qualche sforzo e far capire che, dietro al mio modo negativo di pormi di fronte alla realtà, ci sono forti ideali, ed è per questo che non sopporto più mezze misure, ipocrisie, banalità, soprattutto quell’analfabetismo culturale che da anni sta bloccando il cervello di milioni di italiani.
C’è un altro dato di fatto: da quando ho dovuto lasciare la parrocchia, mi sento finalmente più libero di dire la verità, senza dover rendere conto alla mia gente, e senza sentirmi continuamente rimproverare: “Tu dividi la parrocchia! Le anime contano di più delle idee! Devi star vicino anche ai tuoi “nemici”, ideologicamente o politicamente parlando!”.
E così, per un senso di generale buonismo che accomuna tutti nella fratellanza pastorale, ognuno si tiene la propria idea politica, non importa se questa è in contrasto col Vangelo radicale. Le anime contano di più del Vangelo! Non importa se poi la Chiesa, in duemila anni, ha separato i buoni dai cattivi cristiani. E per buoni intendeva gli allineati alla struttura, gli osservanti delle leggi canoniche, e per cattivi intendeva i ribelli, i disordinati canonicamente parlando.
Sì, anche quando ero a Monte, tiravo per la mia strada, imponevo un passo non sempre allineato alla massa, e tanto meno tollerante. Ma i limiti me li sentivo, dettati dalla mia responsabilità di pastore, che sente “sue” tutte le pecore del proprio gregge.
Da un anno questi limiti sono caduti. Ora mi sento veramente libero di dire ciò che penso. 
Ma perché non stare calmo, proprio per il fatto che non mi sento più addosso alcuna responsabilità di parrocchia? Perché non ricuperare il tempo speso unicamente per la propria comunità, girando il mondo, senza attaccarmi ancora con estremo rigore al proprio posto?
Chi mi pone queste domande non ha capito nulla di ciò che è il mio animo. Non ho solo innato il senso della fedeltà al proprio dovere professionale, tra cui rientra anche l’impegno pastorale di un prete: ciò che precede ogni altro dovere è la fedeltà alla coscienza, la quale è sempre tale, anche quando si va in pensione. La coscienza non va mai a riposo, e non è qualcosa di puramente personale. È molto di più. Gli impegni professionali limitano casomai la coscienza del singolo, che deve talora sottomettersi a tanti condizionamenti. Ma la coscienza ci porta fuori dal nostro sentirci persona. È in un continuo confronto con l’umanità e con universo. Questo si chiama apertura umana. Questo si chiama apertura globale.
È chiaro che, ora, non più soggetto ai condizionamenti di una comunità locale, sento di dovermi confrontare con tutta la realtà, e la realtà non è qualcosa di aleatorio, ma frazionata in tante vicende, piccole e talora grandi, che si presentano ogni giorno davanti alla coscienza. L’urto è forte.
La cosa più drammatica è questa: dover conciliare il bene ideale con le problematiche esistenziali della gente comune. Ed è qui che scatta un senso di impotenza, ma nello stesso tempo anche una grande voglia di non farsi vittime del destino, e non di lasciare che la società diventi succube della necessità di sopravvivere. E ciò crea, da una parte, amarezza, e dall’altra una ribellione. Chiamatela pure rabbia, o rivincita vendicativa. Chiamatela pure contestazione estrema, o insofferenza totale.
Oggi ciò che manca alla società è una grande voglia di rimettersi in piedi, senza dover continuamente borbottare, lamentarsi, per poi subire ulteriori beffe.
Non vedo, ad esempio, neanche tra i giovani di oggi, i disagi di una coscienza tradita da una società che è regredita anche per le loro ignavie. Sì, contestano, ma per che cosa? Non urlano altro che slogan, ma, dietro a belle parole “La Grande Bellezza siamo noi studenti!”, non vedo palpitare il cuore e non sento i brividi di qualcosa di profondo. Questi giovani vivono in superficie, come onde che si fanno risucchiare da vortici pericolosi.
E chi sono questi giovani? Figli di genitori, a loro volta figli di un benessere che li ha accecati. Questi giovani di oggi sognano questo falso benessere o un mondo totalmente diverso? Non sanno che l’attuale crisi può essere provvidenziale e che potrebbe far aprire gli occhi sul loro futuro? Il futuro è già dentro di loro, ma se vivono in superficie non lo troveranno mai, nemmeno se urleranno slogan provocanti. E allora?
Ciò che mi fa star male, e che mi rende sempre più odioso, è proprio questo rincoglionimento dei giovani che mortifica ogni loro tentativo di ribellarsi. Ma ribellarsi a che cosa? Sta qui il loro vero problema.  
12 ottobre 2014   
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