Omelie 2014 di don Giorgio: Quinta domenica dopo Pentecoste

13 luglio 2014: Quinta dopo Pentecoste
Gen 11,31-32b-12,5b; Eb 11,1-1.8-16b; Lc 9,57-62
L’autore anonimo della Lettera agli ebrei mette in evidenza, elogiandola, la fede degli antenati, in particolare di Abramo, il capostipite del popolo eletto, che, sulla parola di un Dio sconosciuto – non dimentichiamo che proveniva da una famiglia politeista – lascia la propria patria, la Mesopotamia, per avventurarsi verso una terra straniera, quella dei cananei, che poi diventerà la terra promessa.
Sarebbe interessante soffermarsi più a lungo sulla figura di Abramo. I cristiani di una volta conoscevano meglio la Bibbia dei cristiani di oggi, che, come ha detto bene il Papa, vanno a messa magari controllando il tempo. Siamo onesti: a noi preti è rimasta solo o quasi l’omelia festiva. Che cosa possiamo dire in una decina di minuti a nostra disposizione, per volere del popolo dei fedeli? Un’omelia poi per nulla omogenea, a causa della rotazione: oggi qui, domani là, in orari diversi. A parte questo appunto polemico, mi chiedo come si possa dire qualcosa di impegnativamente riflessivo, in un contesto per nulla favorevole.
D’altronde, parlare di Abramo significa parlare dell’origine della fede delle tre grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo): milioni e milioni di esseri umani invocano Abramo come “padre dei credenti”.
Certo, conoscere Abramo non significa accontentarsi di qualche storiella, anche divertente. Ogni sua vicenda segna una tappa del cammino, e dire cammino è dire storia di una fede che, partita da un ordine dall’alto, è stata poi soggetta a continui imprevisti.
Don Giacomo Perego, sacerdote paolino, commenta: «Quando parliamo di Abramo, normalmente noi lodiamo la grandezza della sua fede, cogliendo in lui uno che, più di ogni altro, ha saputo seguire la voce di Dio e discernere la sua volontà. Questo è vero, ma non bisogna dimenticare che tutto questo non è stato “automatico”… c’è un prezzo da pagare dietro la maturazione della fede, un prezzo fatto di lotta, di spaesamento, di notti insonni, e di lacrime di gioia di fronte alla gratuità del dono di Dio. Abramo è un uomo come noi; anche lui ha imparato a costruire la sua vita passo dopo passo… Non compare in scena come “modello preconfezionato” di fede: la sua fede cresce con lui. Anche Abramo sbaglia, inciampa, ma la sua forza sta nella capacità di non rassegnarsi mai, di ricercare continuamente la sintonia con Dio. La storia di Abramo si apre sullo sfondo di una promessa molto chiara: in essa egli è invitato a lasciare tre cose per acquistarne altrettante. Ascoltiamo Gn 12,1-3.
1) Vattene dal tuo paese – verso il paese che io ti indicherò.
2) Dal tuo popolo (patria, clan) – farò di te un grande popolo.
3) Dalla casa di tuo padre – renderò grande il tuo nome, diventerai una benedizione.
Come potete notare da questo semplice brano, Dio rivolge tre promesse ad Abramo: la terra, la discendenza numerosa, e la grandezza del nome. Ci si aspetterebbe qualche spiegazione da parte di Dio e qualche interrogativo da parte del patriarca: perché proprio lui? Come si avvererà questo? Va bene l’invito a partire, ma verso dove? Come? Con chi? La voce di Dio sembra spegnersi prima ancora che Abramo abbia il tempo di formulare una sola di queste domande. Una cosa è certa: bisogna mettersi in cammino. Abramo ha 75 anni, Sara 65. Si apre una storia nuova…».
Ma il cammino di fede di Abramo non sarà facile: sempre sottoposto a continue verifiche, prove, delusioni, amarezze. Sembrava che la meta fosse sempre lontana. Sembrava che Dio si divertisse a prendersi gioco di lui.
Per Abramo la strada non è stata mai diritta, piana, come quella che di chi si prefigge una meta, e la vuole assolutamente raggiungere. La metà è là, davanti. Prima o poi ci arriverò. Magari dopo diverse tappe di ristoro. No. Per Abramo la meta era solo nella testa di Dio, e Abramo doveva fidarsi. Ma fidarsi non significava obbedire ciecamente alle indicazioni di Dio. Sarebbe stato troppo facile.
Il cammino di Abramo è stato un ininterrotto spostare le tende. Pensava di aver trovato il posto giusto ed ecco un altro ordine di Dio: “Smonta, e va’ in quell’altro posto”. Sempre altrove.
Dio è sempre pronto a scombussolare i piani umani. Tutto ciò che sembra a noi logico non lo è nel piano di Dio. Dio ha un suo disegno che s’innesta nella storia umana, ma a modo suo. È assurdo parlare di caos, di destino. Un disegno c’è, ma chi lo capisce in pienezza è solo Dio. Noi uomini tentiamo di capirci qualcosa, pretendiamo di capirlo, talora pensiamo di averlo capito. Poi, tutto cambia. Bisogna smontare la tenda, e spostarsi. Bisogna andare altrove. Verso altri orizzonti. Non si può fermarsi, e godersi un po’ di felicità.
La fede è un’avventura: un cammino verso l’ignoto divino. Quando ci fermiamo, ci prendiamo un pezzo di terra, o la conquistiamo, ci mettiamo i paletti per difenderla, ci creiamo poi una struttura, e ancora altre strutture così da aver bisogno di altre terre, e per garantirle ci proteggiamo con castelli di dottrine intoccabili, è allora che Dio sgretola i nostri piani, mette a rischio la nostra stessa sopravvivenza. Tutto di colpo sembra crollare, e parliamo di assenza di Dio. No. Non è assenza di Dio. È presenza di Dio. Dio torna a far sentire la sua voce, dopo anni e dopo secoli di silenzio.
Anche la Chiesa dovrebbe essere come un accampamento: un insieme di tende da montare e da smontare. Il Figlio di Dio, lo scrive Giovanni nel quarto Vangelo, ha posto la sua tenda in mezzo a noi. Ecco cosa significa incarnazione. Non è venuto per fissare la residenza in una casa, in un luogo determinato. A Dio non piace stare nello stesso posto. A Dio non piacciono le case in muratura. La tenda rende bene l’idea di un Dio nomade. Il nomadismo è stata la prima esperienza del popolo eletto, a iniziare dal suo capostipite Abramo. E quando gli ebrei fissarono la loro dimora nella terra promessa, rimase come nostalgia il primitivo nomadismo, e quando se ne dimenticavano, dimenticando le loro origini, la prova arrivava, e si chiamava abbandono forzato delle terre conquistate. Gli ebrei non dimenticheranno mai l’esilio in Egitto e a Babilonia.
Certo, non si pretende che viviamo sotto le tende. Ma il nomadismo interiore fa parte del nostro stesso essere umani. Sono stati scritti libri stupendi sul nomadismo come cammino interiore. Purtroppo c’è il rischio che troppa struttura vincolante blocchi il nostro spirito, lo spenga. È la tentazione a cui è stata sottoposta anche la Chiesa. È la tentazione dell’essere umano in genere: perdere il senso della ricerca della verità.
Ciò che non posso perdonare alla Chiesa e alla società è quel potere che schiaccia lo spirito di vita che c’è in noi: la sete dell’infinito, dell’ignoto, dell’imprevedibile, quella voglia interiore del mai scontato, quel rifiuto a rimanere immobili, fra quattro mura, prigionieri di strutture statali o religiose.
Talora richiamo alla mia mente le parole dell’Angelo Gabriele, quando annuncia alla ragazza di Nazaret che anche la cugina Elisabetta, oramai avanti negli anni, sta per avere un figlio: “Nulla è impossibile a Dio”.
Quando penso a certe nascite diciamo straordinarie narrate nella Bibbia (la prima è stata quella di Isacco: Abramo aveva 100 anni, e Sara 90), penso a quella gestazione continua dell’intero universo. Dice il Salmo 104,30: «Tu, Signore, mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra».
Quel “tutto è possibile a Dio” è nella nostra stessa costituzione umana. Non è questione di  credere in qualcosa di esteriore, in un intervento straordinario di Dio, in un miracolo. La creazione è già un miracolo. Certo, per chi crede. Per chi crede nella stessa creazione. Per chi crede in se stesso.
Non siamo chiamati a camminare perché Dio ce lo ordina. La nostra stessa natura ci porta a camminare: a scoprire imprevedibili risorse che sono già dentro di noi. Non si va all’avventura così per il gusto di cambiare, ma per la sete di scoprire.
Le cose spengono la sete d’infinito che è nel nostro essere. Liberarci dalla schiavitù delle nostre piccole patrie è il primo passo per procedere oltre, verso l’ignoto.
Che cristiani siamo, se non sentiamo dentro di noi vibrare la sete di qualcos’altro, che non è quell’insieme di preoccupazioni per il domani che ci fanno dimenticare l’oggi di un Dio, che è nello stesso tempo la nostra speranza e la nostra provocazione.

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