Omelie 2018 di don Giorgio: QUARTA DOPO PENTECOSTE

17 giugno 2018: QUARTA DOPO PENTECOSTE
Gen 18,17-21; 19,1.12-13.15.23-29; 1Cor 6,9-12; Mt 22,1-14
Ancora una volta il primo brano della Messa è stato presentato dalla Liturgia con  numerosi tagli. Se mi chiedete la ragione, non saprei spiegarvela. Nonostante questo, cerchiamo di cogliere qualche elemento utile per la nostra riflessione.
Sodoma e Gomorra punite per la loro inospitalità
Anzitutto, un chiarimento doveroso. Ci hanno sempre fatto credere che le città di Sodoma e di Gomorra (al di là della storicità dell’evento narrato dall’autore sacro) siano state duramente punite da Dio in conseguenza di quel peccato, che è passato poi alla storia fino ad oggi col nome di “sodomia” (nome che deriva, appunto, dalla città di Sodoma).
In realtà, gli abitanti di quelle due città sono state distrutte col fuoco (secondo il mito biblico) a causa anche e soprattutto della loro inospitalità. Sono gli stessi rabbini a farlo notare.
Infatti, gli abitanti volevano che venissero consegnati loro i due angeli, mandati da Dio sotto le spoglie di due giovani, per avvertire Lot perché lasciasse subito la città di Sodoma, insieme ai suoi parenti, ma Lot rispettò l’ospitalità, che era un dovere sacro per gli ebrei, e non solo per gli ebrei.
L’ospitalità: dovere sacro
Sarebbe interessante, ma mi manca il tempo sufficiente, considerare l’importanza che aveva il dovere dell’ospitalità presso gli ebrei, e in genere presso i popoli antichi, in particolare presso i greci e i romani.
Ma qualche notizia la devo pur dare per fare poi qualche considerazione riguardante il nostro tempo.
L’ospitalità, o l’invito rivolto ad altri per mangiare e stare insieme, faceva parte integrante della cultura medio orientale già negli antichi periodi narrati dalla Sacra Scrittura.
Questa particolare disponibilità ad ospitare e a rendersi singolarmente ospitali, molto probabilmente trova le sue radici nell’esperienza della vita nomade, alla quale gran parte delle popolazioni di quella zona della terra sono abituate da secoli.
Sarebbero tante le citazioni di esempi di ospitalità presenti nell’Antico Testamento, a partire da Abramo, e altrettanto numerose le citazioni presenti nel Nuovo Testamento, a partire da Gesù Cristo.
Vorrei citare solo due frasi, una presente nel libro di Giobbe, quando si dice che è peccato mangiare da solo il proprio pezzo di pane senza che l’orfano ne possa mangiare la sua parte (31,17). L’altra frase, forse ancor più scioccante, è contenuta nella Lettera ai cristiani di Roma, quando l’apostolo Paolo scrive: «… se il tuo nemico ha fame dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere…» (12,20). In ogni caso, l’Apostolo richiamava alcuni versetti dell’Antico Testamento, precisamente il libro dei Proverbi 25,21-22.
Potrei citare anche un altro passo interessante, che si trova nella Lettera agli Ebrei (13,1): «Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”.
Infine, vorrei ricordare che oggi  l’Hachnasat orchim (ovvero, l’accoglienza degli ospiti), rimane un importante aspetto per la vita di un ebreo; in molte famiglie il banchetto del sabato e delle festività non è completo, se non ci sono degli ospiti che si uniscono e partecipano al pasto. Molte sinagoghe hanno dei veri e propri comitati dediti all’Hachnasat orchim, il cui compito è quello di assicurare che nessun ospite entri in sinagoga, senza esser stato invitato a casa di qualcuno per il pasto.
Che dire dell’ospitalità ai nostri giorni?
Commenta in modo lapidario don Angelo Casati: «Urgente è allora interrogarci su ciò che oggi sta accadendo. Perché non ci succeda di assistere, come Abramo, alla visione di un fumo che sale dalle rovine di una società».
Ero tentato di aggiungere qualcosa di mio. Forse meglio di noi, anche se mi fa veramente star male vedere cristiani che con tanta superficialità mangiano Gesù Cristo e poi consegnano i diritti dei più deboli per essere mangiati da una politica selvaggia che con oscenità sacrilega mette in tavola il prodotto di sfruttamento di figli di Dio, rinnegati e uccisi per un po’ di benessere che, davanti al Cristo giudice, sarà una dura condanna.
“Voglio scendere a vedere…”
Una seconda riflessione riguarda le parole di Dio ad Abramo: «Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».
Ecco la domanda che si pone don Angelo Casati: Dio «ha forse bisogno di scendere per sapere come stanno le cose o per sapere che cosa dimora nel fondo del nostro cuore? Che Dio l’abbia detto per noi? Per insegnare a noi? Scendi! Non declamare dall’alto. Interrogati. Non essere superficiale. Va’ a fondo nelle cose».
Don Angelo ha ragione nel dire che bisogna andare a fondo nelle cose, soprattutto in una massa di gente che vive fuori del proprio sé interiore. Dio non ha bisogno di scendere dentro di noi, nel fondo del nostro essere. Siamo noi che ne abbiamo urgente bisogno. Non solo per noi stessi, per riscoprire chi siamo in realtà, ma anche per tutti coloro che vivono in questa società che non fa che alienare, ovvero portare fuori del loro sé interiore gli uomini.
Ma c’è un’altra lettura del verbo “scendere”, che ci richiama l’incarnazione di Cristo, il quale è sceso per “condividere”. Ma… condividere che cosa e con chi?
Qui siamo ancora volta chiari. Il Figlio di Dio non è venuto sulla terra per compiere miracoli, o per raccontarci belle parabole.  Egli è venuto per “condividere, ovvero dividere con l’umanità Se stesso in quanto Dio. Quanti ci insegnano queste cose?
Non sto ora ad analizzare la parabola del Vangelo. Ma l’insegnamento di Gesù mi pare chiaro: al di là dell’abito nuziale, ciò che conta è il nostro essere interiore: qui il Figlio di Dio ha condiviso se stesso.
Lo so che leggere così le parabole assumono qualcosa di sconvolgente, ma mi chiedo fino a quando ancora racconteremo alla gente che Gesù è venuto per solidarizzare con i poveri, o che è morto sulla croce per riscattarci dal peccato. È una lettura paurosamente riduttiva del Vangelo.

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