Omelie 2015 di don Giorgio: Seconda Domenica dopo l’Epifania

18 gennaio 2015: Seconda dopo l’Epifania
Is 25,6-10a; Col 2,1-10a; Gv 2,1-11
Il primo e il terzo brano della Messa hanno in comune il fatto che in entrambi si parla di pranzo: pranzo regale, nel brano di Isaia; pranzo nuziale, nel brano di Giovanni. C’è di più: ci troviamo di fronte ad una grande sorpresa. La sorpresa è la novità, qualcosa di assolutamente inaspettato. Sorpresa e novità caratterizzano i due banchetti, quello regale di Isaia e quello nuziale di Giovanni.
Isaia, in un passo famoso, ripreso dall’Apocalisse, profetizza che sul monte Sion, su cui è stata costruita Gerusalemme, il Signore apparecchierà un pranzo principesco, al quale saranno invitati tutti i popoli della terra, senza esclusione di nessuno per motivi razziali o religiosi. Ecco la sorpresa. Allora Dio “strapperà… il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre distesa su tutte le nazioni”. Sono parole che hanno subìto diverse e opposte interpretazioni. In realtà, facendo parte di una profezia, esse meriterebbero una maggiore attenzione. Il velo e la coltre sono simboli di qualcosa di misterioso. Tuttavia, possiamo farci qualche dea di ciò che possono rappresentare.
Il velo o coltre fa pensare almeno a due cose: a qualcosa che separa e a qualcosa che nasconde. Perché i popoli sono tra loro separati, così che alcuni sono privilegiati o ricchi e altri si trovano in situazioni disagiate di forte sudditanza? Che cos’è l’impedimento che non permette a ciascun popolo di scoprire la sua vera identità, i suoi veri beni, le sue vere ricchezze, a meno che rimaniamo ancora vittime dei secolari pregiudizi per cui a contare siano il denaro e la pelle? In altre parole, usando il linguaggio dei mistici, che cos’è ciò che divide e ciò che moltiplica? Se è vero che, come dicono i mistici, sia orientali che occidentali, la molteplicità è di per sé un male, qual è allora quel male che rompe quell’unità che sta alla base dell’essere cosmico?
Ciò che separa, divide e moltiplica è l’avere, mentre ciò che unisce e porta all’unità è l’essere. Non possiamo dividere o moltiplicare il nostro essere, ma lo possiamo ricoprire di un avere, che moltiplica dividendo e isolando. Quale concetto abbiamo di ben-essere? Come possiamo parlare di ben-essere materiale, come se fosse possibile mettere insieme l’avere e l’essere, ovvero ciò che divide e ciò che unisce?
Il nostro vero problema di esseri umani, perciò carnali, sta nel cercare l’armonia tra lo spirito e il corpo, tra l’essere e la materia. Più copriremo il nostro essere con il velo o la coltre dell’avere, del possesso, della appropriazione, più creeremo divisioni, separazioni, emarginazioni. E allontaneremo quel giorno in cui, sul monte Sion, nome ideale, tutti i popoli potranno sedersi attorno alla stessa tavola. Pura utopia di persone fuori del mondo? E allora i primi ad essere fuori del mondo sarebbero i profeti di Dio. Diciamo Dio stesso. Che senso dare allora alle parole di Isaia?
Ma c’è di più. Dobbiamo aspettare che arrivi quel giorno, in cui Dio farà sedere alla tavola del suo Regno tutti i popoli della terra, oppure spetta già ora a noi togliere a poco a poco il velo o la coltre che divide questa umanità in molteplici volti, rivolti l’uno contro l’altro? Perché non porci la vera domanda: che cos’è che in realtà divide e separa gli uni dagli altri? Siamo proprio convinti che con un po’ di avere in più diventeremo tutti fratelli? Qual è la cosa che veramente ci manca per stare “meglio”? Il “meglio” non sta nell’avere!
Passiamo ora al brano di Giovanni, che narra il miracolo compiuto da Gesù a Cana di Galilea. Anzitutto, bisogna partire dalla parte finale del racconto, quando il quarto evangelista usa un termine particolare, tutto suo. Egli scrive che «questo, a Cana di Galiela, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù». Mentre gli altri tre evangelisti (Matteo, Marco e Luca) descrivono i miracoli di Gesù come “atti di potenza”, che manifestano la sua vittoria sul male e su satana, Giovanni parla di “segni”. I miracoli di Gesù, secondo Giovanni, non sono solo fatti strepitosi, ma rivelano qualcosa di profondo. Giovanni ci avverte: attenzione!, c’è qualcosa di sorprendente, di nuovo che tu devi cogliere.
Il miracolo di Cana è, dunque, un “segno”. Qual è allora il suo senso profondo? Ci sono nel racconto elementi fortemente simbolici, per cui invece che parlare semplicemente delle nozze di Cana, o del miracolo di Cana, dovremmo parlare del Mistero di Cana.
Che sia un mistero, lo dimostrano anche le difficoltà che gli studiosi incontrano nel cercare di dare un senso a certi termini usati da Giovanni, al dialogo sintatticamente incerto tra Gesù e Maria, infine all’intervento del Figlio che trasforma l’acqua in vino.
Pensate soltanto a queste stranezze: si tratta di un matrimonio, e tuttavia non si dice praticamente niente degli sposi; Gesù si rivolge a sua madre, ma contrariamente a tutti gli usi la chiama «Donna»; sebbene egli sia un ospite, i servi obbediscono ai suoi ordini, come se egli fosse il maestro di tavola; Gesù trasforma in vino di qualità quasi seicento litri d’acqua pura, ma più che per trarre d’impiccio la famiglia degli sposi, lo fa per manifestare la sua gloria.
D’altra parte, non si può non essere colpiti dal numero elevato di termini teologici che si addensano in pochi versetti. Alcuni di essi evocano temi importanti della tradizione biblica: le nozze, lo sposo, il vino delle promesse, la gloria.
Siccome la cosa è abbastanza lunga e complessa, non tento neppure di fare una esegesi del testo. Vorrei solo fare qualche mia considerazione generale sul mistero di Cana.
Anzitutto. Non solo in questo caso, o nel caso in genere del Vangelo di Giovanni, diciamo che ogni evento storico, anche il più banale, rivela qualcosa di profondo, da leggere e perciò da vivere oltre la cronaca. Tutta la storia, dunque, è un “segno”: nel suo complesso e nei singoli fatti. Non è pura cronaca, che descrive gli eventi come un susseguirsi di cause e di effetti. Lo storico racconta, senza andare oltre. Il teologo vede oltre. Non solo è “intelligente”, nel senso etimologico del termine intelligenza, cioè non solo legge i fatti nel loro interno, ma coglie quel significato profondo racchiuso nei fatti. Certo, solo l’occhio di Dio può conoscere tutti i misteri, ma i credenti in Lui possono far parte di questo occhio di Dio. Il profeta, poi, ha un occhio in più del teologo, perché del presente intuisce qualcosa che va oltre il presente.
Se voglio uscire dalla depressione di una storia, che sembra in balìa di un susseguirsi altalenante di eventi, banali e drammatici, ma che condizionano il nostro vivere quotidiano, lasciandoci fuori casa, come estranei o come alieni, l’unica via d’uscita è rientrare in noi stessi, nel nostro miglior essere, per cogliere quel misterioso divino, che ha vedute completamente diverse dal nostro modo terreno di vedere le cose. In altre parole, l’uomo moderno, se vuole salvarsi, dovrà fare un “salto di qualità”, quel salto che permetterà di trasformare l’ordinario banale nella Novità-Sorpresa di Dio.
Qual è la Novità-Sorpresa nel caso specifico delle nozze di Cana? Secondo una mia personale interpretazione, tutto è partito dalle parole di Maria al Figlio: «Non hanno vino». Ripeto, non faccio esegesi, perché le cose si complicherebbero. Dico solo che Gesù chiama sua madre “donna”, come la chiamerà “donna” sulla croce, poco prima di morire. Non è un nome generico, ma sulla bocca di Gesù, “donna” assume e richiama qualcosa di particolare. Qualche studioso vede in Maria la nuova umanità che si riscatta. Da parte mia, c’è di più. Maria non rappresenta tanto l’umanità in genere, ma la parte femminile migliore dell’umanità. È Donna-donna. Così la vede Gesù. Vede in lei la rivincita di secoli e secoli di repressione, in quanto donna.
Ancora oggi, nonostante le conquiste dei diritti civili anche nel campo delle donne, si stenta a uscire dal solito cliché maschilista. Eppure, il Vangelo è esplicito nel ridare il primato alla donna. Maria è la donna tipica della corredenzione dell’umanità.
Gli esegeti possono anche attutire lo scontro verbale, che c’è stato tra il Figlio e la Madre. Ma voglio pensare ad una vera dialettica tra Dio e la sua migliore creatura, che quasi si contengono la salvezza dell’umanità. Il maschio sembra tagliato fuori. La donna in Maria avrà la sua parte migliore. La salvezza del mondo sarà contesa tra la donna e il maligno.

 

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