La “parresia” di san Paolo, ovvero il coraggio di dire la verità anche davanti al potere.

13 maggio 2012: Sesta di Pasqua

At 26,1-23; 1 Cor 15,3-11; Gv 15,26-16,4

Per comprendere il brano degli Atti degli Apostoli che la liturgia ci propone in questa domenica come prima lettura bisognerebbe fare qualche passo indietro.
Paolo viene arrestato dal tribuno romano per proteggerlo da una sommossa popolare scatenata dai giudei. Prima o poi doveva succedere: l’apostolo ogni giorno predicava una Parola, quella di Cristo, che stava veramente provocando le ire dei capi. Viene condotto nella fortezza Antonia perché possa chiarire le vere motivazioni della sommossa. Prima però chiede di poter parlare al popolo per difendersi dalle accuse. Pronuncia così il primo dei tre discorsi in sua difesa. Il secondo lo pronuncerà davanti al procuratore Felice e il terzo davanti al re Agrippa e al procuratore Festo.
Quali sono le accuse che gli sono state rivolte? Sovvertire il popolo, violare la legge e aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario, accuse che potevano costare la morte. Anzitutto: sovvertire il popolo. Come vedete, siamo sempre alla solita accusa, quella di sovvertire l’ordine pubblico, un’accusa che fa sempre comodo e che può interessare sia la religione che lo stato. La religione può anche accontentarsi di difendere l’ordine diciamo dottrinale (l’Inquisizione insegna), ma allo Stato interessa in modo particolare l’ordine pubblico. Comunque, anche le eresie dottrinali fanno paura allo stato, in quanto creano un certo scompiglio tra la gente. Se poi le cosiddette eresie mettono in discussione lo stesso sistema statale, allora lo stato è sempre pronto a dare una mano alla religione per sradicarle. Seconda accusa: violare la legge, in particolare quella del sabato. D’altronde l’ordine pubblico non è forse fondato sulla legge? È sempre pericoloso parlare di Coscienza, perché la Coscienza mette in crisi ogni regime. Ogni regime è fondato sull’ordine, sull’obbedienza, sul rispetto del sistema: non sopporta gli spiriti liberi che agiscono in nome della Coscienza. Terza accusa: aver portato con sé dei pagani all’interno del santuario.
Appena Paolo, sulla spianata del tempio, cerca di spiegare alla folla la sua missione tra i pagani, su un ordine ben preciso di Cristo, la folla non lo ascolta più, rompe il silenzio e, tra urla e gesti isterici, reclama la morte dell’apostolo. A irritarla non è il fatto che Paolo apra le porte ai gentili, ma che insegni loro, su ordine di Dio, che non sono tenuti a osservare la legge di Mosè. Ecco dove sta veramente il vizio di ogni religione, diciamo il suo più grosso peccato: pretendere che gli estranei, quelli di un’altra fede religiosa, si convertano caricandosi di tutti i pesi della propria religione. Il punto di riferimento è sempre, ad ogni costo, la religione. Qui bisognerebbe una buona volta chiarire il termine “evangelizzazione”. Già la parola dice che si tratta del Vangelo, ovvero della Buona Novella di Cristo. E che cos’è la Buona Novella di Cristo? Perché identificarla con la dottrina della Chiesa, che, in quanto struttura religiosa, sarà sempre tentata di far propria la stessa verità? Il Vangelo precede ogni struttura, precede la stessa Chiesa, la quale, se ha ricevuto una missione da Cristo, non è senz’altro quella di fare proselitismo, di andare alla ricerca di nuovi convertiti. Anche qui vedete: se capissimo che cos’è umanesimo nella sua pienezza, non confonderemmo il Vangelo con la Chiesa struttura.
Noi cristiani siamo chiamati a portare il messaggio rivoluzionario di Cristo senza per questo battezzare i pagani legandoli ad una struttura che di per sé, come struttura, non potrà mai esaurire il Vangelo di Cristo, che va ben oltre. Perché abbiamo dimenticato le dure parole di Cristo con cui si è scagliato contro i farisei e i dottori della Legge? «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi”.
Il tribuno, di fronte alle ire della folla, fa portare Paolo all’interno della fortezza. E qui lo sottopone ad un interrogatorio ricorrendo anche alla forza: lo fa flagellare. La flagellazione era una procedura permessa contro schiavi e stranieri, ma severamente proibita dalla legge Porcia nei confronti di un condannato munito di cittadinanza romana. E è a questa legge che Paolo si appella, avvertendo il centurione di trovarsi di fronte a “un cittadino romano”. Non solo: egli dichiara che neppure come castigo accetterà la flagellazione, non essendo stata ancora pronunciata una sentenza giudiziaria. Il tribuno chiede a Paolo spiegazioni, e l’apostolo conferma di essere un cittadino romano, non per aver comperato tale diritto, ma per diritto di nascita. Come vedete, l’apostolo sapeva far valere i propri diritti. Ma qui occorre chiarire una cosa. Perché Paolo si è appellato al suo diritto di cittadino romano? Se doveva essere condannato, solo il tribunale di Cesare a Roma poteva emettere un verdetto, e questo permetterà all’apostolo di recarsi nella capitale per divulgare anche là il Vangelo. Questo era il suo sogno. E il sogno si avvererà. Ma prima l’apostolo dovrà subire altre umiliazioni e minacce.
Il tribuno Lisia fa condurre Paolo dalla fortezza Antonia nell’aula del sinedrio con l’intento di capire quali siano le vere accuse che i capi ebrei gli hanno rivolto. Paolo, tra l’altro anche scaltro, riesce a dividere tra di loro gli stessi componenti del sinedrio, in parte farisei e in parte sadducei. Paolo affermando la sua fede nella risurrezione, si attira le simpatie dei farisei e le antipatie dei sadducei. Ne nasce un tumulto. Il tribuno è costretto a intervenire per proteggere l’apostolo, e lo riporta in caserma.
E non è finita. Una quarantina di giudei fanatici ordisce un’altra congiura ai danni di Paolo. Si impegnano con giuramento a ucciderlo. Giuramento cosiddetto esecratorio. Per farlo uscire dalla fortezza Antonia, organizzano un secondo interrogatorio, sempre nella sala delle adunanze del sinedrio, dato che il primo è degenerato in baruffa. Pensavano: durante il tragitto di trasferimento non sarebbe stato difficile sopprimerlo. Ma la congiura viene sventata da un nipote di Paolo, il quale avverte il tribuno, che, per garantire più sicurezza all’apostolo, lo fa trasferire sotto scorta a Cesarea, presso il pretorio di Erode: era un palazzo-fortezza fatto costruire da Erode il Grande, dove ora risiedevano e amministravano la giustizia i procuratori romani. Il sinedrio di Gerusalemme non molla, e invia a Cesarea una delegazione che, davanti al procuratore Felice, rinnova le accuse a Paolo, e Paolo di nuovo si difende. Le solite accuse: è un perturbatore della quiete pubblica, è uno dei capi della setta dei Nazirei (così era visto il cristianesimo, una setta!), infine un profanatore del Tempio. Il procuratore non crede alle accuse dei membri del Sinedrio o, meglio, a lui non interessano le questioni religiose. Però tiene Paolo ancora in carcere, e per ben per due anni. La politica prevale su ogni giustizia. Il procuratore doveva tenere buoni gli ebrei, che non erano molto contenti del suo governo.
Subentra a Felice un nuovo governatore, di nome Festo, il quale, a pochi giorni dal suo insediamento, si reca a Gerusalemme per farvi la prima visita. Subito i capi giudei colgono l’occasione per rinnovare l’accusa contro Paolo, e gli chiedono di condurre Paolo a Gerusalemme per essere di nuovo giudicato dal tribunale ebraico. Festo, dopo altri tentativi, fa la proposta a Paolo di salire a Gerusalemme. A questo punto Paolo, come era suo diritto, si appella al tribunale di Roma. Festo informa il Consiglio, e il Consiglio approva. Paolo sarà dunque inviato a Roma. Non è finita. La storia è davvero appassionante. Nel frattempo giungono a Cesarea il re Agrippa e la sorella Berenice. Il procuratore Festo espone al re il “caso di Paolo”. Il re Agrippa esprime il vivo desiderio di vedere l’apostolo. Il giorno seguente Agrippa e la sorella Berenice realizzano il loro desiderio: poter ascoltare Paolo. La cosa interessante, diciamo impressionante è il contesto in cui è avvenuto l’incontro. Non in via privata, ma ufficiale. L’incontro si svolge in una grande sala del palazzo di Erode, presenti i cinque comandanti di ognuna delle coorti di stanza a Cesarea, e gli uomini più rappresentativi della città. Davanti a loro Paolo fa la sua terza autodifesa. È il brano di oggi.
Vorrei ora fare qualche brevissima riflessione. Ciò che mi ha colpito dell’apostolo Paolo è la sua serenità interiore. Una serenità proveniente certamente dalle sue profonde convinzioni, ma in particolare dalla forza della Parola che egli annunciava. Una Parola-Verità, ma non basta: una Parola che salva. Una Verità che resta astratta a che serve? A dare forza è la Verità che salva, che libera, che rende umani. C’è un’altra riflessione. Sarebbe interessante soffermarsi un po’ sui vari personaggi “politici” che entrano ed escono dal racconto degli Atti degli Apostoli. Più che descrivere le loro nefandezze (ne sappiamo qualcosa di più grazie agli storici del tempo) Luca sembra che ci dica: Vedete questi “poveri” potenti? Nonostante la loro miseria morale, non hanno potuto fare a meno di riconoscere l’innocenza di Paolo! I potenti “corrotti” non hanno trovato colpe in Paolo, mentre gli ebrei “puri” (così si ritenevano!) hanno inventato accuse su accuse pur di uccidere l’apostolo. Sapete quel è il nemico che la verità e la giustizia temono maggiormente? Più che la depravazione morale è l’orgoglio, l’ostinazione mentale, l’accecamento del cuore. Ultimamente ho avuto una forte sensazione. I potenti di una volta, pur corrotti – non dimentichiamo comunque i tempi – sembravano particolarmente attratti dalla santità dei giusti. Se leggi la storia, ne incontrerai di re e di regine che hanno sentito il bisogno di consigliarsi con persone di diversa estrazione sociale, digiune di politica, aliene da ogni aspirazione connessa col potere, ma dotate di un grande dono, quello della saggezza e della profezia. Anche i buffoni di corte avevano il compito di dire la verità al sovrano. A me non sembra che oggi sia così. C’era uno in Italia che ultimamente si era circondato solo di galoppini, di gente pagata per dire ciò che gli faceva comodo, gente pronta a riverirlo in ogni suo capriccio, di prostitute e di avvocati disposti a falsificare la verità. La santità è sparita dai nostri palazzi politici. Anzi, i “puri” si sono contaminati appena si sono avvicinati al potere. I sovrani un tempo erano curiosi di conoscere i profeti, li ascoltavano, ne rimanevano anche affascinati, anche se poi gli interessi del potere avevano sempre il sopravvento. Oggi nei palazzi di potere è sparita perfino la saggezza, che è lasciata a quei pochi pazzi che vorrebbero un mondo diverso.

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