Omelie 2017 di don Giorgio: PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA

19 febbraio 2017: PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA
Bar 1,15a.2,9-15a; Rm 7,1-6a; Gv 8,1-11
Il libro di Baruc, ma che non è di Baruc
Il primo brano è tolto dal libro di Baruc. Baruc era il segretario del profeta Geremia, che ha svolto la sua missione nei momenti più drammatici della storia del popolo ebraico, ovvero durante la devastazione della città di Gerusalemme e la distruzione del Tempio da parte dell’esercito babilonese e la sua deportazione a Babilonia.
Secondo gli studiosi, il libro non è stato scritto da Baruc, ma è stato posto sotto il suo patronato per dargli più autorevolezza. In realtà, si tratta di un’antologia di brani diversi ordinati in epoca tarda (II sec. a.C.). Diversa è anche il genere letterario.
Troviamo una introduzione storica, che evoca l’uso del pellegrinaggio annuale a Gerusalemme da parte degli ebrei della diaspora, cioè di quegli israeliti che erano dispersi in terre pagane. Il testo di oggi ricorda proprio quegli ebrei che, per diverse ragioni, o perché si erano fatti una famiglia o perché avevano ricevuto qualche incarico importante, erano rimasti a Babilonia, anche dopo il ritorno in patria, che era stato favorito dall’editto del persiano Ciro il Grande del 538 a.C.
Dopo il prologo storico, troviamo una liturgia penitenziale, segue un inno alla sapienza, poi un’omelia profetica di consolazione e infine l’opera si conclude con la “Lettera di Geremia”, che è un testo polemico contro l’idolatria.
Grosso modo possiamo dire che tre sono le tematiche presenti nel libro: il peccato d’Israele riconosciuto e confessato (anche i peccati dei padri che avevano generato benché da lontano la tragedia della deportazione, secondo la già nota legge della ”retribuzione”, per la quale a un ogni delitto corrisponde un castigo, immediato o futuro); poi, c’è la tematica della conversione (non serve riconoscere il peccato, se non c’è un impegno di cambiare vita); infine, la speranza fiduciosa nella bontà di Dio (a che serve riconoscere il peccato e convertirsi, se poi Dio non è disponibile al perdono?).
La giustizia redentiva
La preghiera penitenziale, di cui fa parte il brano di oggi, è dominata dalla domanda intensa e reiterata di perdono: “ascolta, liberaci, guarda, pensa a noi, apri gli occhi, osserva!”, e così via. Commenta un esegeta: «L’orante si presenta in atteggiamento penitenziale sincero; la confessione del peccato, che ancora riaffiora, è genuina; il pentimento e la conversione sono autentici. La collera del Signore Dio non era, dunque, cieca, ma è riconosciuta come segno della sua giustizia e del suo amore, che non viene mai meno. Infatti, anche nei momenti di maggiore pervicacia di Israele nel male, il Signore ammoniva facendo balenare la triste sorte verso cui il popolo si stava avviando con la sua ribellione e la sua infedeltà”.
Qui sarebbe interessante evidenziare il rapporto tra giustizia e amore in Dio. Possiamo dire che la giustizia divina, quella vera, e non quella del dio religioso, è sempre redentiva, cioè è in vista di una salvezza. In Dio la giustizia è inseparabile dall’amore. Qui sta la differenza tra le divinità pagane vendicative e il vero Dio, quello che Cristo è venuto a rivelarci. Attenzione, dunque: anche in certe pagine bibliche vetero-testamentarie Dio è talora descritto come vendicativo, ma non è questo il vero Dio.
Il brano evangelico dell’adultera
Passiamo al brano del Vangelo. Si parla di adulterio e il termine “adulterio” deriva da adulterare, corrompere. Il senso etimologico può aiutarci a scoprire la fonte della corruzione o chi la sfrutta per corrompere qualcuno.
Prima di commentare il brano del Vangelo, vorrei fare una premessa. L’immagine dell’adulterio era spesso usata dagli antichi profeti per indicare il tradimento dell’Alleanza, presentata come uno sposalizio tra Dio e il popolo eletto. C’è un profeta in particolare, Osea, che, più degli altri, ha sviluppato il tema dell’amore di Dio per il suo popolo. Di fronte all’amore fedele da parte del Signore la “sposa” Israele rispondeva con l’infedeltà dell’idolatria cananea, bollata appunto come prostituzione e adulterio. Da notare che il termine “prostituzione” nel libro di Osea ricorre numerose volte, ma sta sempre a indicare il tradimento, ovvero l’adulterio, del popolo ebraico che si prostituiva alle divinità straniere.
Il Vangelo parla di un’adultera, perciò donna. E la donna, ai tempi di Gesù, e non solo, era vista come oggetto di un’implacabile legge maschilista di condanna a morte. Essa (sic!), solo essa è ancora colpevole di tradimento o di corruzione dell’istituzione familiare.
Te la trascinano davanti, come bestia già ferita a morte, e tu, Signore, ti senti quasi imbarazzato, più per l’ipocrisia di quei forcaioli amanti di sangue, che per quella “misera” donna colta sul fatto.
Ci sono violazioni della legge, che sembrano la gioia dei giustizialisti di mestiere, quando riescono a stanare qualcuno dall’ombra del peccato.
Non ti esce dalla bocca alcuna parola: imbarazzi col tuo silenzio quel tribunale di anziani, ligi alla lettera della legge.
Ma il tuo cuore non tace: freme di rabbia e di compassione.
Scrivi per terra, come a voler affidare alla polvere il tuo mistero di condanna e di perdono.
Quella donna resta sullo sfondo: in primo piano, è il tribunale degli uomini di potere.
La tua rabbia è tutta per loro: non ferisci ulteriormente quella donna.
Un duro imbarazzante silenzio di condanna per un mondo, quello maschilista, che strumentalizza l’oggetto-donna, per poi colpirlo a morte.
Quella donna in quanto donna inizia a sperare: quell’Uomo Gesù è il primo a vederla come soggetto di attenzione d’amore spirituale.
Anche la sabbia spera, e riceve volentieri il messaggio enigmatico di Gesù, che poi il vento dello Spirito cancellerà o, meglio, porterà lontano nei secoli.
«Chi di voi…». E le pietre, quelle di Gesù, volano violente sull’ipocrisia di una legge che ama ferire a morte i più deboli.
«Chi di voi è senza peccato…». Quale peccato? Forse lo stesso con cui si voleva lapidare quella donna? O forse quel peccato che si chiama strapotere maschilista?
Tutti se ne vanno, a iniziare dai più anziani. Le pietre-parole di Gesù hanno colto nel segno, e quei “maschi” per la prima volta si vedono denudati dalla luce divina.
Rimangono, sole, “misera et misericordia”: così commenta lapidariamente Sant’Agostino.
Il cuore dell’Uomo Gesù si fa spirito di vita e di speranza. Le parole autentiche partono dal profondo dell’Uomo-Dio e generano quel dono superlativo, che è il Per-Dono.

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