Papa Francesco e… Angelo Scola

di don Giorgio De Capitani

Forse non è ancora il momento, e tanto meno opportuno, fare i confronti tra Papa Francesco e Angelo Scola, arcivescovo di Milano.

Era già capitato, ma all’inverso, quando un giornalista aveva messo in antitesi Papa Wojtyla e il cardinale Martini. Sì all’inverso, perché allora Martini era visto come l’anti-papa. Poi, dopo la sua morte, si è preferito mutare l’anti in ante, come se dire ante-signano o preveggente o profeta non comportasse anche un anti, ovvero un essere contro.

Il giornalista, che scriveva per la La Repubblica, era Giovanni Valentini. Nel 1984 (Martini era stato nominato vescovo di Milano il 29 dicembre 1979) scrisse un libro dal titolo: “Un certo Carlo Maria Martini”, Sperling & Kupfer Editori. Il 10 capitolo è provocatorio: “L’anti-Wojtyla”. Martini, in realtà, appena si pronunciava su una questione scottante era subito preso di mira, o da cardinali tradizionalisti, come Giuseppe Siri  (fu arcivescovo di Genova dal 1946 al 1987) o dalla stessa Curia Romana, o da Comunione e Liberazione (già allora cancro della Chiesa!). Ridicolo poi è stato il tentativo della Lega Nord, nota per la sua concezione puritana (poi succederà di tutto, altro che puritana!) e retrograda della fede cattolica (fino alla blasfemia), tramite quel personaggio allora emergente, di nome Irene Pivetti, credendosi paladina della ortodossia della Chiesa, volle sfidare Martini, cercando di metterlo alle strette, raccogliendo anche firme per il suo trasferimento. Quando la cafona pivellina si accorse di aver fatto un buco nell’acqua, chiese udienza, ma Martini non volle nemmeno riceverla. Poi la Pivetti diventerà presidente della Camera dei Deputati, poi emigrerà in altri partitelli, finendo infine in tv a fare gossip. Poveretta! Si sposerà con Alberto Brambilla, più giovane di lei, e dopo dodici anni di matrimonio, si separerà. Altro che paladina della fede! Chiusa parentesi.

Carlo Maria Martini soffrì parecchio e sentì come un peso addosso il confronto-antitesi con Giovanni Paolo II. Rimase anche bloccato, nel senso che dovette più volte fare retromarcia, per non dare adito allo scontro. Misurava le parole, citava continuamente il Papa, mise nel cassetto documenti quasi pronti contro questo o quel movimento ecclesiale, in particolare uno critico nei riguardi di Comunione e Liberazione. Così si disse, ma io credo che fosse vero.

Se per ipotesi Martini fosse diventato Papa invece di Wojtyla, la Chiesa quale percorso avrebbe intrapreso? Ma non serve ragionare a ritroso. Una cosa è certa: Martini ha stimolato in un certo senso il papato di Wojtyla, costringendolo se non altro a fare qualche esame di coscienza, o a non commettere errori peggiori. Checché se ne dica, Giovanni Paolo II non è stato un papa molto aperto all’Umanità. Con il suo modo di fare, anche sorretto dai mass media, ha dato alla Chiesa un maggior potere, confondendo autorità con autorevolezza. Martini, invece, era di un’altra pasta. Sì, costretto a stare dietro le quinte, costretto a mordersi la lingua, costretto a fare il diplomatico, tuttavia si poteva in lui scorgere il sorgere di un nuovo giorno.

Alla morte di Wojtyla, dopo anni di ostentata malattia, per me insopportabile, venne eletto Papa Joseph Ratzinger, con il nome di Benedetto XVI. Martini fece di tutto, portando anche il bastone in conclave quasi a dimostrare la sua inabilità fisica, per non farsi eleggere successore di Pietro. Sembra che sia stato lui a sostenere la candidatura Ratzinger. Non ditemi quali fossero i motivi. Forse non era giunto il momento di scegliere Bergoglio. Dopo Wojtyla occorreva forse un’ombra, e l’ombra fu Ratzinger. Dopo Ratzinger finalmente la Chiesa poteva respirare. E il respiro dello Spirito santo ha un nome: Papa Francesco.

Ho parlato di Spirito santo. Giustamente. È sempre in opera, anche quando la Chiesa sembra andare alla deriva. Forse si diverte a tirarla fuori dalle secche. Stavolta non poteva più permettere che il successore di Benedetto XVI fosse un suo beniamino. Lui tentò di sostituirsi allo Spirito santo, ma non ci riuscì. Fece di tutto per eleggersi il successore (alla faccia dello Spirito santo!) nominando Angelo Scola a Vescovo di Milano. E pensare che bastava restare patriarca: lo Spirito santo aveva più volte posato lo sguardo su Venezia: Giuseppe Sarto (Pio X) e Angelo Roncalli (Giovanni XXIII). Forse per Angelo Scola non gli bastava, occorreva una qualifica maggiore. Ma gli andò male. Lo Spirito santo emigrò fuori Italia, fuori Europa, andò in Argentina. Un bel colpo! Tutto il mondo esultò. Finalmente i giochi, i giochini e i giochetti vaticani erano stati smascherati, e ribaltati.

Cosa sarebbe successo se invece di Giorgio Mario Bergoglio fosse stato eletto papa Angelo Scola? Diciamo solo che per fortuna non è stato così.

Qualche anno fa, quando Comunione e Liberazione era in grande auge, nel campo ecclesiale e in quello politico, si temeva (anch’io ne ero terrorizzato) che il più grande complesso affaristico cattolico prendesse in mano le più grandi cariche dello Stato e della Chiesa: Roberto Formigoni presidente della repubblica e Angelo Scola papa. Ma gli uomini progettano, e Dio li mette nel sacco. Non solo Berlusconi, non solo i caporioni leghisti, anche i leader ciellini finirono tra gli scandali più vergognosi. Vale sempre il detto: chi frequenta i mafiosi, diventa mafioso! Chi va con i ciechi finisce nel fosso. E così è stato. Per fortuna. È quanto mi auguravo da tempo. Anche se la mia pazienza era impaziente, anche qui vale il detto: “Siediti lungo la riva del fiume, e aspetta: prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico”. Sì, c’è gente che ha sette vite. Ma prima o poi, anche la settima finirà! Che Dio sia benedetto nei secoli!

C’è chi pensa ancora che io farnetichi con le mie illazioni. Ma ci sono prove. Numerose. Angelo Scola è stato nominato vescovo di Milano il 28 giugno 2011; un anno e mezzo dopo circa, nel febbraio del 2013, papa Benedetto XVI annunciava le due dimissioni. Forse che aveva deciso il giorno prima? Da tempo ci stava pensando. Così preparò il suo successore. E la nomina di Scola è stata una scelta personale di Ratzinger, contro ogni indicazione della curia milanese che preferiva un vescovo più giovane, e non certo ciellino. Guarda caso! Il nome Scola, che era ormai sparito dalla lista dei candidati, riapparve il giorno dopo la vittoria di Giuliano Pisapia. Tutto previsto! Ma qualcosa andò storto, come ho già detto. Gloria all’Onnipotente in eterno!

E ora? Mi aspettavo che Papa Francesco facesse una mossa, forse la prima: mettere Scola in uno dei dicasteri della curia romana. Ma non l’ha ancora fatto. Aspetto sulla riva del fiume.

Il contrasto tra la linea evangelica di Papa Francesco e quella di Angelo Scola si sta sempre più divaricando. Scola è in grave difficoltà a Milano. Ogni suo tentativo di rifarsi dopo la sconfitta papale serve a illudere qualcuno. Ma non può farcela. Dovrebbe dimettersi. Milano ha bisogno di sole. Non di nebbia. Milano deve rinascere, anche e soprattutto come Chiesa profetica. Ma tutto è bloccato. Il treno va verso un tunnel mortale. Inutile correre sul treno in direzione opposta. È il treno che deve cambiare rotta.

Io credo nella pazzia dello Spirito santo, come credo nella pazzia dei profeti. E credo nella pazzia dei ribelli che alzano la voce, fuori dal coro, e urlano la loro rabbia. Non è vendetta! Non è orgoglio ferito! Vuole essere una invocazione a chi sta in Alto. E anche a chi oggi, scelto dallo Spirito innovatore come vescovo della Chiesa universale, non può limitarsi a qualche gesto di bontà, a qualche gesto di tenerezza, a qualche apertura verso l’Umanità. Un papa non è la Chiesa. Una rondine non fa primavera. Sono i vescovi che devono cambiare rotta. Sono i preti, le suore, il laicato cattolico che devono convertirsi al Cristianesimo, come Umanesimo integrale.

Caro Papa Francesco, a Milano sta succedendo di tutto. La Chiesa ambrosiana come la Concordia si è inclinata. E, personalmente, posso dire qualcosa. Ci ho messo diciassette anni per raddrizzare la comunità di Monte, e ora che le cose stavano andando per il verso giusto, la barca stava affrontando anche l’oceano, patatrac, è bastato un ordine del   capitano della sgangherata nave ambrosiana, perché anche la Comunità di Monte rischi di tornare alla riva.

Ci speravo: ma forse lo Spirito santo vuole aspettare ancora. Forse a lui piace sorprenderci come al solito. Ma forse vorrebbe che lo invocassimo con più forza, anche bestemmiando quel dio che ha sostituito il Dio dell’Universo.   

     

Dal libro di Giovanni Valentini

“Un certo CARLO MARIA MARTINI

La rivoluzione del Cardinale”
Sperling & Kupfer Editori

Capitolo 10

L'ANTI-WOJTYLA

POTENZIALE antagonista del «papa polacco» e candidato tra i più quotati nel lotto di successione, Martini interpreta e rappresenta una posizione alternativa rispetto alla linea di Giovanni Paolo II, tanto più da quando ha assunto la guida della diocesi ambrosiana. Senza cadere nell'equivoco di contrapposizioni politiche e di confronti a braccio di ferro, alla sua figura si può applicare perciò la definizione di anti-Wojtyla, con tutti gli adattamenti del caso. Nel corso degli ultimi anni, del resto, il rapporto tra i due personaggi almeno a parole s'è rinsaldato, mentre l'arcivescovo di Milano non ha perso occasione per fare professione di fedeltà al papa, manifestandogli la propria lealtà.
Diversi per formazione, esperienza e temperamento, all'interno della chiesa Wojtyla e Martini hanno la leadership di due culture diverse: rispettivamente, la «cultura della presenza» e la «cultura della mediazione». Sul piano dei comportamenti concreti, per rendersene conto basta pensare al loro differente atteggiamento verso gli integralisti di Comunione e Liberazione, legati al «papa polacco» da una grande affinità e tenuti invece a distanza dal cardinale di Milano. «Nonostante tutti gli sforzi di conciliazione che si sono fatti sul piano intellettuale e pratico», ha scritto su Pagina il vaticanista Gregorio Donato, «le due culture rimangono inconciliabili: la 'cultura della mediazione' spinge alle estreme conseguenze il mistero dell'incarnazione, interpreta in modo radicale l'ipotesi evangelica del seme che si fa pianta, del lievito nella massa, per proporre e sperimentare un tipo di cristianesimo che pur fermo nel suo riferimento soprannaturale coincide con la vicenda stessa dell'umanità. La 'cultura della presenza' spinge alle estreme conseguenze il dovere della testimonianza, la necessità dell'esplicitezza del messaggio cristiano, interpreta in modo radicale l'ipotesi evangelica della lampada che illumina, della 'città sopra il monte', per proporre un'azione pastorale e di gruppo, un dialogo con il mondo che spesso sconfina nella contrapposizione e nell'integrismo.»
Personalità forti, entrambe carismatiche, ma di segno opposto, il papa dell'Est e il «cardinale laico» hanno alle spalle anche una storia del tutto differente. Fin da quando era rettore del Biblicum e della Gregoriana, Martini coltiva una concezione della chiesa e del suo rapporto con il mondo che non coincide con quella dell'ex cardinale di Cracovia, legato a una chiesa più tradizionale nella dottrina e nella disciplina. La «Madonna nera» e il regime polacco, da una parte; la Sacra Scrittura e le grandi università occidentali, dall'altra. Oppure, per restare alle immagini del Vangelo, da un lato la «lampada che illumina» e dall'altro il «seme che si fa pianta».
Né si può dimenticare in questo confronto a distanza che l'arcivescovo di Milano proviene da un ordine come la Compagnia di Gesù, con il quale il papa ha avuto clamorosi contrasti: prima le dimissioni di protesta presentate da padre Arrupe, un fatto senza precedenti nella storia dei travagliati rapporti con il Vaticano, a causa del dissenso sul ruolo dei gesuiti in America Latina a favore dei movimenti di liberazione; poi, il commissariamento con un delegato pontificio e quindi la normalizzazione. Durante il periodo di interregno, all'interno della Compagnia la candidatura di Martini era quella più gradita e più accreditata. Al vertice dei gesuiti, una volta eletto «papa nero» come si dice per il colore della tonaca e per sottolineare appunto una contrapposizione storica, avrebbe potuto contare certamente su un largo consenso politico. La nomina a cardinale, un riconoscimento di stima, ma anche un'imposizione gerarchica da parte di Wojtyla, lo ha definitivamente sottratto a questo possibile ruolo di contro-potere e lo ha inquadrato negli alti ranghi della chiesa, secondo l'antica regola curiale promoveatur ut amoveatur.
Da quando Martini guida la diocesi ambrosiana, i primi contrasti con la parte più tradizionalista dell'apparato vaticano sono emersi non a caso con il cardinale di Genova, Giuseppe Siri, uno degli uomini di punta dello schieramento conservatore. Mancato il traguardo della tiara pontificia, Siri ha scelto la guerra teologica come campo di esercitazione e la facoltà di Milano come avversario da colpire. Bersaglio non dichiarato, ma facilmente identificabile, l'arcivescovo Martini. L'apertura delle ostilità risale all'estate del 1982. Su Renovatio, la rivista ispirata direttamente da Siri, appare un articolo a firma di Brunero Gherardini, teologo romano e consultore di vari dicasteri della curia, contro un documento emesso dalla diocesi di Milano in preparazione del Congresso Eucaristico previsto per l'anno successivo. È un attacco senza mezze misure sul piano della forma e della sostanza: il linguaggio viene polemicamente definito «strano, oscuro, involuto», incline a «fumisterie alla moda»; la dottrina è giudicata addirittura «avventata e temeraria». La rivista di Siri accusa i milanesi di voler «emancipare» l'eucarestia dal dogma della «transustanziazione», una parola impronunciabile che riassume il valore sacrificale della messa, secondo un'ispirazione ritenuta «quantomeno eversiva della fede». Se non si parla di eresia, poco ci manca.
In realtà, la posizione della curia milanese, incriminata di modernismo e perciò messa sotto processo da un conservatore come Siri, esprime un'esigenza di rinnovamento nella prassi eucaristica. Lo stesso Martini, nella relazione tenuta alla ventesima assemblea della Conferenza episcopale, aveva sottolineato le «particolari difficoltà che il credente incontra oggi di fronte all'eucarestia, in conseguenza del clima culturale in cui vive». Con l'esperienza di un contatto diretto con una diocesi complessa e vivace come quella di Milano, l'arcivescovo non aveva esitato a parlare di crisi e di incomprensione nel rapporto tra chiesa e fedeli. «Incontriamo spesso delle persone che abbandonano l'eucarestia, in particolare la messa domenicale, perché essa non le soddisfa, non corrisponde alle loro esigenze, non parla alla loro esperienza.» Martini ha il merito anche in questa circostanza di dire cose giuste e vere, di porre un problema reale, per di più con un tono misurato e ragionevole. Ma non c'è da stupirsi che un discorso del genere provochi reazioni allarmate e polemiche in un ambiente tradizionalista come la curia genovese e probabilmente non soltanto in quello.
Sulla linea tracciata dal loro arcivescovo, la risposta dei teologi milanesi all'attacco della rivista di Siri è immediata. In settembre, Giuseppe Colombo invia a Renovatio una replica di sedici pagine, chiedendone la pubblicazione integrale: le accuse di Gherardini vengono definite a loro volta come un esempio di «teologia formalistica», quella cioè che «sorvola sui contenuti perché si riduce alla difesa della formula». Ma la redazione si rifiuta di pubblicarla, con la giustificazione che è Siri in persona a voler raffreddare la polemica, in vista ormai del Congresso Eucaristico convocato a Milano proprio sotto l'egida di Martini.
Chiamato direttamente in causa, il teologo romano non ha remore invece ad attizzare il fuoco, con un'intervista a Seminari e Teologia, un'altra rivista considerata vicina al cardinale di Genova, sotto un titolo provocatorio: «Avvilimento odierno del sacro a Milano». L'avvertenza introduttiva è una nuova pesante bordata contro Martini: «A meno che non si rimedi», afferma il collaboratore di Siri, «gli italiani devono sapere che a Milano si lavora per rinnegare la presenza reale di Cristo nel Santissimo sacramento dell'altare». E quando finalmente Renovatio si rassegna a pubblicare il testo dei teologi milanesi, dopo aver appreso che comunque sarebbe apparso sulla rivista della loro facoltà, interviene ancora in difesa di Gherardini e alza il tiro in tono minaccioso: «Chi si accanisce contro di lui, dimentica che non a caso egli è ordinario della Pontificia Università Lateranense, l'università del papa». Un richiamo esplicito al rapporto con il Vaticano e un avvertimento che equivale a un imprimatur. Ma, probabilmente, si tratta anche di una mossa per sottolineare all'esterno la contrapposizione tra la linea dell'arcivescovo di Milano e quella ufficiale di Wojtyla.

Le differenze di fondo tra le rispettive ispiraziozioni emergono poi ancora più chiaramente durante il Sinodo mondiale dei vescovi, nell'autunno '83 a Roma. Il tema centrale è quello della penitenza e della riconciliazione. Martini viene chiamato a far da relatore e diventa protagonista del dibattito, con un discorso conclusivo che alla fine riassume 176 interventi orali e 54 scritti, definito «magistrale» dal vaticanista del Corriere della Sera, Luigi Accattoli. Rispetto a Wojtyla, salta subito agli occhi la diversa impostazione dell'arcivescovo di Milano, che insiste sulla dimensione sociale del peccato accanto a quella personale, sottolineando il rapporto tra la penitenza, la pace individuale e la possibilità di superare le divisioni nel mondo contemporaneo. «Ogni peccato », sostiene Martini, « ha sempre una sua dimensione sociale perché la volontà di ciascun uomo è di per se stessa verso la società. » E ancora: «Le strutture ingiuste, in quanto ingiuste, spingono fortemente l'uomo al peccato: sulla libertà umana infatti la pressione e il peso dei rapporti sociali sono molto forti». Martini non si nasconde che su questo terreno si confrontano opinioni diverse, ma in tono conciliante preferisce attribuirle non tanto ai «principi» quanto alle «accentuazioni», dovute alle diverse situazioni politiche e sociali nelle quali operano le singole chiese. Dietro una cortina di rispetto e fedeltà, sembra quasi di sentire l'eco delle polemiche su «gli occhiali del papa polacco», nella distanza tra il mondo dal quale lui proviene e quello invece in cui si muove Martini.
Anche per quanto riguarda la celebrazione del sacramento, minacciata dalla «crisi della penitenza» e dalla «diminuzione del senso del peccato», la relazione dell'arcivescovo di Milano al Sinodo si segnala per una maggiore apertura. A suo giudizio, la celebrazione collettiva è doppiamente utile, perché unisce gli elementi positivi della confessione individuale con quelli comunitari. Sull'assoluzione di gruppo, considerata un grosso nodo dal papa, Martini si mostra altrettanto sensibile: «Anche se l'assoluzione individuale è da considerarsi il modo ordinario di riconciliare i peccatori, tuttavia in certe circostanze per il maggior bene spirituale dei fedeli è lecita l'assoluzione generale sacramentale».
Al termine dei lavori, ai periti del Sinodo occorrono più di 600 schede per redigere una specie di indice analitico degli argomenti affrontati nel corso del dibattito. A Martini, dopo la relazione d'apertura, tocca anche quella conclusiva. E a giudicare dal testo del suo intervento filtrato dalle maglie del riserbo vaticano, il suo è un discorso particolarmente illuminato, in qualche modo di rottura, tutto all'insegna dell'innovazione. «Ciò che soprattutto colpisce», ammette il cardinale, «è il processo di rapido abbandono della confessione individuale.» Per cercare una spiegazione del fenomeno, non si possono nascondere «omissioni e abusi dei sacerdoti» né dimenticare un atteggiamento di «superficialità e trascuratezza» da parte dei fedeli. «Ma non si possono ignorare», aggiunge Martini con coraggio, «le cause connesse a obiettivi limiti della prassi tradizionale e soprattutto quelle connesse al rapido mutamento del costume e della mentalità.»
Capo della chiesa nella città italiana più vicina all'Europa, l'arcivescovo di Milano mostra di conoscere le trasformazioni che hanno modificato anche le abitudini dei fedeli, sa che nessuno vuole più fare la fila per confessarsi, sa che il rapporto con il confessore si riduce spesso a un rituale burocratico e superficiale, sa che la gente delle grandi città ha ritmi di vita convulsi e santifica il week-end alterando le cadenze della domenica tradizionale. Quella di Martini è un'apertura consapevole e realistica verso il mondo esterno, ma di fronte al Sinodo dei vescovi vuole essere ancora più esplicito e lancia anche un invito all'autocritica. «Il ministero della penitenza», dice, «appare in qualche modo minacciato dalla crisi di credibilità di cui oggi soffre la chiesa: il linguaggio della catechesi appare talvolta estraneo e poco comprensibile all'uomo moderno; talune verità cristiane, specie quelle che riguardano il destino ultimo dell'uomo, vengono di conseguenza troppo taciute; le divisioni che affliggono la vita stessa della comunità cristiana rendono meno credibile la sua missione.» Dalle parole ai fatti, l'indicazione finale di Martini propone un programma operativo: «L'immagine complessiva della chiesa deve diventare più trasparente attraverso l'esercizio di un discernimento evangelico dei molti motivi di divisione e tensione fra gli uomini e fra i popoli; attraverso una più assidua e pertinente presenza dei cristiani nella ricerca delle forme di convivenza umana più giusta; attraverso l'aiuto immediato e gratuito a coloro che più soffrono, specie a quelli che la società presente abbandona ai suoi margini ».

A un mese dalla conclusione del Sinodo, rientrato a Milano, in una lettera alla diocesi Martini offre un'altra prova di lealtà nei confronti di Wojtyla, sottolineando «quanto sia stato importante per i vescovi questo essere con il papa». Come per ridimensionare il successo personale che gli è stato riconosciuto anche dall'esterno e lo stesso rilievo attribuito al dibattito, osserva: «I vescovi sono chiamati a esprimere in questo Sinodo, come realtà teologica collegiale, dei suggerimenti per il sommo pontefice e perciò sono strettamente uniti a lui nella ricerca della volontà di Dio sulla sua chiesa». Poi, nello stesso spirito di disponibilità con cui dall'inizio lavora a Milano, dà conto alla diocesi di quello che ha fatto nella sua «lunga assenza». Ma con buona pace del cardinale Siri e dei suoi collaboratori, chi si aspetta dall'arcivescovo di Milano qualche segno di insofferenza o qualche eccesso di protagonismo, deve restare deluso.
«Vescovo tra tanti vescovi», come lui stesso si definisce, al Sinodo Martini ha assolto come un «servizio» al suo compito di relatore. «Avvertivo quotidianamente», spiega, «di dover svolgere questo ruolo in sintonia con lo stile di collegialità dei lavori del Sinodo. Era per me d'importanza decisiva ascoltare, cercare di comprendere l'insieme delle attese, ricostruire con fedeltà il continuo intrecciarsi di diagnosi e soluzioni legate alla diversità delle situazioni dentro cui ogni vescovo vive.» Ma dalle parole di Martini sembra di capire che questo richiamo alla collegialità del Sinodo non può essere considerato a senso unico e coinvolge anche la responsabilità di governo del papa: «Solo così», osserva, «esso può fornire al santo padre gli elementi per una riflessione e una decisione che corrispondano al bene della chiesa universale e agli impulsi che lo Spirito suscita nelle diverse comunità locali» .
Tornato al lavoro quotidiano nella sua diocesi dopo questa nuova esperienza, «il cardinale laico» procede perciò sulla propria strada, rilanciando l'esigenza di «un rinnovamento in profondità della nostra prassi pastorale di penitenza e di riconciliazione». Come ha fatto dall'inizio del mandato episcopale, uscendo dal Palazzo e camminando assieme alla gente, vuole continuare a impegnarsi «nel vivo della storia attuale dell'umanità», in mezzo ai problemi concreti di ogni giorno. «Un tempo come il nostro», conclude nella lettera di riflessione sul Sinodo, «domanda una decisa ripresa di iniziativa che educhi a una coscienza di pace, alla capacità del dialogo, alle varie forme di ecumenismo, al rispetto della dignità dell'altro, alla convinzione che alcune situazioni di divisione e di emarginazione sono insostenibili.»

 

4 Commenti

  1. Maurizio ha detto:

    Caro don Giorgio, la leggo da qualche mese sempre con grande interesse. Finalmente qualcuno che dice quello che pensa! Finalmente un Sacerdote che pensa! ;-)…

    Sarò breve e forse un po blasfemo, vogliate tutti perdonarmi…. ma questo Spirito Santo non vi lascia perplessi? Davvero essere cristiani include l’attesa di un mediatore come lo Spirito Santo, che puntualmente si fa attendere?

    Questo Papa don Giorgio, non facciamoci ingannare dalla sua capacità di accontentarci. E’ la stessa capacità di Wojtyla, solo con un aspetto differente… Wojtyla era un uomo da palcoscenico, ma Francesco non è da meno… Se fosse un politico lo si accuserebbe di populismo… Ma aspetterei ancora per definirlo “innovativo”… per ora ha parlato al telefono più con i fedeli che con i collaboratori ed oltre a Bertone nessun altro è stato rimosso… è ancora tutto come prima, lo Spirito Santo al momento continua a lasciarci a bocca asciutta… o forse si è solo stufato di lavorare al posto nostro…

    Grazie per l’attenzione.
    Saluti e auguri per tutto
    Maurizio

  2. Giuseppe ha detto:

    Vorrei solo aggiungere che trovo lo Spirito santo spesso imprevedibile, dato che a volte ci sorprende proprio nel momento in cui noi, fragili creature umane, siamo sul punto di cedere alla sfiducia e alla rassegnazione, perché sembra proprio che non succeda niente e il male, col suo fascino ingannevole, stia prendendo il sopravvento. Se è vero che le tre virtù fondamentali del cristiano sono fede, speranza e carità, e tra queste come afferma S.Paolo il primato spetta alla carità, le altre due non sono meno importanti perché fanno parte dello spirito che il Creatore ha inalato nei nostri cuori, ed è nostro dovere continuare ad esercitarle.

  3. Luca ha detto:

    Da Venezia proveniva anche Albino Luciani (Giovanni Paolo I). Cordialmente, Luca

  4. GIANNI ha detto:

    Credo sarebbe difficile svolgere, in un commento, un’analisi approfondita di fatti e personaggi che, a prescindere dalle opinioni di ciascuno, hanno lasciato un’impronta storica nel cattolicesimo italiano e mondiale così diversa.
    Mi limito, quindi, a qualche riflessione in ordine sparso.

    Siri: il grande conservatore, si dice che sarebbe stato eletto segretamente pontefice, ma che i servizi segreti USA avrebbero poi chiesto fermamente ed ottenuto quindi di revocare, sempre segretamente, l’elezione, per non creare un clima ancora più drammatico, durante la guerra fredda.
    Di qui, quella famosa fumata, che apparve bianca, ma poi si disse fosse grigia…..

    Quali diversità e quali affinità tra i vari personaggi?
    Sicuramente affini come pontefici conservatori, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, il primo espansivo, il secondo decisamente più timido e riflessivo.

    E papa Francesco?
    Sicuramente riformatore, in rottura per certi versi con i primi due, ma…
    riformatore solo della curia o anche della teologia?
    Chissà, forse teologicamente sono più vicini, secondo taluni studiosi, Scola e papa Francesco, che non papa Francesco e Martini.
    Grande dubbio, che solo gli eventi futuri sveleranno.
    Oppure potrebbe esserci una terza possibilità.
    Teologicamente su posizioni intermedie tra un Martini ed uno Scola.
    Sicuramente molto diversi negli stili, pomposo ed autoreferenziale Scola, diretto e vicino Bergoglio, ma in questo non facciamoci ingannare.
    Anche Giovanni Paolo II era diretto e vicino….almeno per certi versi.
    Martini disse chiaro e tondo, a Roma, prima delle elezioni al soglio pontificio, ad una riunione di cardinali progressisti, di non votarlo, anche e sopratutto per la consapevolezza delle sue condizioni di salute.
    Ma se fosse andata diversamente, cosa sarebbe stata una chiesa con Martini pontefice?
    Non lo sapremo mai.

    Complessivamente, possiamo ora dire che la chiesa cattolica si trova di fronte a sfide difficili, ma al tempo stesso appassionanti.
    Diatribe teologiche, come quella della consustanziazione, riforma della curia, equilibri di potere e nuovi assetti.
    Cosa succederà?
    Sarà solo per il suo modo di fare che Bergoglio passerà alla storia, oppure inciderà più a fondo in tanti controversi aspetti?
    Parrebbe più probabile la seconda ipotesi, ma è ancora prematuro esprimere giudizi storici, che possano avere un sufficiente fondamento.
    Staremo a vedere.

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