Omelie 2014 di don Giorgio: Dedicazione del Duomo di Milano

19 ottobre 2014: Dedicazione del Duomo di Milano
Bar 3,24-38 opp. Ap 1,10; 21,2-5; 2Tm 2,19-22; Mt 21,10-17
Ogni terza domenica del mese di ottobre, la Liturgia ambrosiana celebra la dedicazione (o consacrazione) del Duomo di Milano.
Ogni diocesi ha la sua cattedrale, che è la Chiesa madre di tutte le chiese diocesane. Cattedrale, perché c’è la cattedra, ovvero la sede del magistero del Vescovo. Si chiama anche Duomo, ovvero la casa per eccellenza. Il nostro Duomo è stato consacrato il 20 ottobre (era la terza domenica) del 1577, da San Carlo Borromeo.
Ci chiediamo che senso abbia ancora oggi ricordare questa data. Antico non è solo il nostro Duomo, antiche sono tante chiese anche della nostra zona. Quando entro in una di queste chiese, mi viene istintivo pensare alla grande e umile testimonianza di fede dei nostri antenati. Nessuno sa ciò che potrebbe dirci una chiesa, se potesse parlare. Pensando alla nostra esperienza, possiamo però immaginarcelo. Si entra in chiesa, non solo per soddisfare il precetto festivo. La chiesa è dove ci si raccoglie, nella penombra di un silenzio che lascia parlare il cuore e lascia parlare quel divino che è dentro di noi. Certo, non è di per sé necessario entrare in una chiesa. Tutto il creato è casa di Dio. Ma anche il bello può distrarci. Difatti, le chiese più raccolte sono quelle più spoglie di arte, con le pareti grezze, senza dipinti o senza quadri, con le finestre che lasciano filtrare qualche raggio di luce.
Parlare di Duomo è parlare di grandi folle che si riuniscono a pregare o ad ascoltare la parola del proprio vescovo. Tutti noi ricordiamo ancora la gente numerosa, giovani soprattutto, che a migliaia correvano ad ascoltare la parola di Carlo Maria Martini. Una parola pacata, quasi sommessa, ma profonda, che scavava dentro, lasciando qualcosa di indicibile.
La Parola di Dio non è mai autoritaria, casomai è autorevole: una parola che s’impone non perché la dice il vescovo, in quanto gerarca, ma perché è una parola “parlante”, che esprime in quanto parola qualcosa di quel Mistero che si rivela sia al dotto come all’umile, nello stesso modo, senza privilegiare i titoli di studio o le cariche istituzionali.
Tornando alle nostre chiese, i nostri vecchi sapevano ascoltare la voce di Dio, forse più di noi moderni, più colti, più emancipati, più critici. Ma erano altri tempi. Tempi in cui la voce del parroco, quando non era solo minacciosa, confortava la povera gente che vedeva nella fede l’unica speranza di vita. La fede diventava anche un momento di gioia, dopo dure giornate di duro lavoro sotto duri padroni. Il conforto della fede non era solo per l’aldilà, era per l’al di qua, per continuare a vivere, nonostante tutto, nella speranza di un  domani migliore, già su questa terra.
È chiaro che oggi non possiamo più limitarci a sorbire omelie solo moralistiche, del tipo: fai questo o non fare quello, secondo un codice indiscutibile e anacronistico. La gente vuole una parola che provochi le stesse parole consuete, un certo modo univoco di pensare, un comportamento quasi rassegnato, una società civile senza passione, una realtà ecclesiastica che si sta esaurendo in un trantran ritualistico o festaiolo.
La Parola di Dio non acquista autorevolezza con il potere. Non è che di per sé vale di più la parola del vescovo o del papa in confronto alla parola di un povero prete di campagna. Tanto è vero che, se vi siete accorti, papa Francesco sta dicendo quelle verità semplici che i nostri parroci da anni ci avevano sempre detto. Tranne che i parroci parlavano senza andare sui giornali, il papa invece dice le stesse cose andando sui giornali. Una cosa che sta diventando insopportabile, tanto è ipocrita.
Vorrei aggiungere un’altra cosa. Quando si parla del Duomo come cattedrale, come il cuore centrale della Diocesi, come la sede dell’autorità da cui dipendono il clero e il popolo di Dio, forse si dimentica che la cattedrale è viva se sono vive le comunità parrocchiali. La cattedrale in sé non ha senso, a meno che non diventi una cattedrale nel deserto, ma, in tal caso, a che cosa servirebbe?
Se è vero che dipendiamo dal nostro vescovo, è altrettanto vero che il vescovo dipende da noi. Certo, egli può anche non farlo, può restare in curia, dettare ordini a tutta la diocesi, ma, anche in tal caso, a che cosa servirebbe? Che senso ha parlare di un pastore senza un gregge?
Ma il gregge c’è, non perché il pastore abbia qualcuno o qualcosa su cui comandare. Il gregge ha bisogno di una guida saggia, di un padre o di una madre che sappia condurre le pecore verso pascoli fertili, verso terre sconfinate. Già dire pecora ha un significato negativo per noi moderni, ma non l’aveva presso il popolo ebraico. Cambiamo pure la parola, e diciamo figli di Dio, diciamo esseri umani, diciamo coscienze incarnate, diciamo dignità divina.
Anche la parola gerarchia andrebbe cambiata: nella vera Chiesa di Cristo non c’è nessuno che comanda sugli altri. Chi comanda serve. Questa è stata la legge evangelica più tradita. Basta un gradino in più, e si guarda chi è sotto con uno sguardo altezzoso. La parola servire è quella più predicata, ma anche nella Chiesa vale il detto: si predica bene, e poi si razzola mai.
Il brano evangelico di oggi è forse una delle pagine più forti dei quattro Vangeli. Ogni tanto si cerca di dimenticarla, di addolcirla, interpretandola simbolicamente. Pensate un po’: abbiamo preso alla lettera, ancora oggi, l’episodio dei Magi che non sono mai esistiti come personaggi storici. Alla fine di settembre si sono svolte in Germania le celebrazioni solenni per gli 850 anni della traslazione delle reliquie dei Magi a Colonia: notate che traslazione sta per trafugamento, le cosiddette reliquie dei Magi sono state rubate. Ma reliquie di che cosa, se il racconto dei magi è un “midrash”, ovvero un racconto che non è storico, ma solo edificante.
E poi leggiamo con leggerezza, idealizzando il gesto di Gesù che invece ha preso sul serio una frustra di cordicelle menando colpi a destra a sinistra e al centro contro i venditori di animali, e ha rovesciato fisicamente i tavoli e le sedie dei cambiamonete, dicendo: «Sta scritto (Isaia 56,7): “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”. Voi invece – aggiunge Gesù con le sue parole – ne fate un covo di ladri». Giovanni evangelista riporta queste altre parole di Gesù: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
Questo è un episodio da prendere alla lettera. È successo veramente così. Gesù si è davvero arrabbiato. Ha fisicamente preso in mano una frusta, e ha fatto come dicono gli evangelisti.
All’inizio, vi dicevo: se le pareti delle nostre chiese potessero parlare… e alludevo ai sacrifici, alla fede dei nostri vecchi. Ma possiamo anche dire: se le pareti delle nostre chiese potessero parlare, forse ci direbbero: voi ministri di Cristo non avete avuto il coraggio di imitare il vostro Maestro. Anzi, avete fatto come quei sacerdoti al tempo di Cristo che permettevano che il Tempio, la Casa di Dio, si trasformasse in un mercato.
Sulla parola mercato possiamo anche discutere, soprattutto oggi che parliamo di mercato come se fosse il campo di battaglia dove risolvere tutti i nostri problemi esistenziali. Anche negli ultimi Documenti sociali della Chiesa, il mercato viene visto positivamente, purché rispetti la dignità dell’essere umano. Ma tutti e tre i sinottici (Matteo, Marco e Luca) riportano queste parole di Cristo: «Voi invece ne fate un covo di ladri», rifacendosi alla profezia di Geremia (7,11). Non dico chi sono i ladri di oggi, sarei scortese in questa chiesa di cui sono ospite.
Invece vorrei dire questo in generale: dovremmo riportare i luoghi di culto alla loro essenzialità contemplativa: come luoghi incontaminati, senza neppure l’ombra di denaro, dove si respira il divino in tutta la sua più radicale intimità. Luoghi dove il silenzio si fa preghiera, e dove la parola di Dio si fa coscienza pensante. Tutto il resto – riti, canti, devozioni – non deve mai prendere il sopravvento. C’è troppo frastuono fuori, nella nostra vita ordinaria. In chiesa, dovremmo dar voce al silenzio di Dio, e ad una parola che fuori è scomparsa.

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