Don Lorenzo Milani: sì, ma… con tanti se e tanti ma

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Don Lorenzo Milani: sì, ma… con tanti se e tanti ma

Certo, non mi sarei aspettato che, in occasione del 50° della morte di don Lorenzo Milani, uscissero pungenti critiche e si gettasse anche qualche ombra di troppo sulla sua figura. Al contrario, ero già pronto a subire il solito scontato panegirico d’occasione, a senso unico.
Si sa, le commemorazioni sono una poltiglia di parole trite e ritrite, anche se indirettamente ne può venire un vantaggio: risvegliare un ricordo e, si spera, un messaggio di chi, bene o male, ha lasciato magari solo per qualche decennio una certa scia di popolarità.
Recentemente c’è stato qualcuno, una specie di romanziere, che sinceramente non conosco e che tanto meno vorrei conoscere tramite qualche suo romanzetto, che ha fatto di tutto per pubblicizzare il suo ultimo libercolo (mi pare che tratti di un prete pedofilo!), facendo una particolare dedica a don Lorenzo Milani (non si capisce perché). E ancor più recentemente è stato riedito un articolo scritto dal cardinale Carlo Maria Martini, nel 1983, a 25 anni dalla pubblicazione di “Esperienze pastorali di don Lorenzo Milani”, dal titolo: “L’esperienza pastorale di don Milani oggi”. Martini evidenzia per un verso il primato della Parola e dei poveri e il radicalismo evangelico del Priore di Barbiana, e per l’altro l’assenza della donna e della Chiesa come comunione.
Anch’io ho fatto qualche critica sulla figura e sull’operato di don Lorenzo Milani, nella introduzione alla relazione tenuta da Marco Vannini sulla mistica, il 18 marzo scorso, presso l’Auditorium di Merate (Lc). Dovevo presentare la figura di don Piero Pointinger, un sacerdote della Diocesi di Milano che aveva operato pastoralmente presso la parrocchia di Rovagnate, dal 1948 al 1967, l’anno della sua morte.  Mi sono sentito quasi  in obbligo di fare anche un confronto con don Lorenzo Milani, entrambi morti in giovane età, per una grave malattia tumorale, lo stesso anno e lo stesso mese.
Riporto esattamente ciò che ho detto:
«Notevolmente differenti, sotto tanti punti di vista, soprattutto nel campo pastorale e pedagogico (senz’altro più innovativo e rivoluzionario don Milani, la cui popolarità ha varcato i ristretti confini di Barbiana, paese di pochi abitanti), vorrei far notare un aspetto che ritengo interessante: don Lorenzo non ha lasciato nulla in opere (prima di morire ha chiuso perfino il suo doposcuola), ha lasciato solo il suo insegnamento o diciamo la sua pedagogia, che è stata studiata in tutto il mondo, mentre don Piero è ricordato solo per alcune sue opere, e non per il suo pensiero, ritenuto da tutti difficile e incomprensibile.
Ed è per questo che, mentre il don Lorenzo pensiero è più che evidente, sotto gli occhi di tutti, il don Piero pensiero è tutto da riscoprire, approfondire, ripresentare nelle sue profonde intuizioni.
Ma… sarei troppo semplicistico facendo questa distinzione a favore di don Milani, come se il Priore di Barbiana fosse stato bene inteso e non invece anche frainteso.
Paradossalmente, quasi quasi mi azzardo a dire che don Piero, nel suo piccolo, è rimasto almeno incontaminato nel suo pensiero, ancora lì tutto da scoprire, mentre don Lorenzo è stato ed è tuttora strumentalizzato nel suo “extra pensiero”. Mi spiego. Tutti ancora a parlare di un don Milani sessantottino, rivoluzionario social-politico, di sinistra, comunista classista, addirittura costituzionalista, dai modi poco ortodossi, sgarbati, volgari, offensivi; un prete scomodo per la Chiesa per aver messo in discussione il suo metodo pastorale ed educativo, e soprattutto il maestro integralista che ha contestato la scuola italiana.
Mi chiedo: è tutto questo il vero don Lorenzo Milani? E il suo mondo interiore dov’è? Qual era il suo Dio?
Credo che sia lecito chiederci in quale Dio don Milani credesse. Don Milani stesso si definiva un “mezzo ebreo” e ha cercato sempre di rimanere il più possibile vicino alla propria origine. Qualcuno parla di un ebraismo in don Milani a tratti latente, nascosto, eppure ben riconoscibile.
Forse è difficile rispondere alla domanda: a differenza degli appunti di don Piero, dove è continuo, come in un dialogo spontaneo e serrato, il confronto con il suo mondo divino, certo quello cattolico, ma nello stesso tempo sottoposto ad una severa indagine speculativa e meditativa, negli scritti di don Lorenzo poche volte si parla di Dio, di Cristo, del Vangelo, della fede: sì, si parla della Chiesa ma nei suoi aspetti istituzionali da riformare per una pastorale più aderente agli ultimi e ai poveri.
 Eppure, ci sono almeno due indicazioni che potrebbero aiutarci a scoprire la sorgente interiore di don Milani.
Don Lorenzo, ad una domanda sulla scuola, così risponde: «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a far scuola e come faccio a averla piena… Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter far scuola. Bisogna essere…». Sì, bisogna essere!
La seconda indicazione la trovo nel dialogo tra Lorenzo seminarista e il suo vecchio maestro di pittura, Hans Joachim Staude. Un giorno Lorenzo va a trovarlo. Quando Staude lo vede, esclama: «Ma che cosa è questa tonaca?». E Lorenzo: «Ho deciso di farmi prete. È tutta colpa tua, caro Joachim… Sì, perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli, di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada».
Ma, insistendo sul confronto tra i due preti, a differenza di don Piero che non è salito sull’altare di una popolarità mondiale fuori controllo, mantenendo perciò quella incontaminata libertà di spirito ancora tutta da scoprire, don Lorenzo subirà via via il martirio di una “santificazione” soprattutto laicale per non dire laicista, che tradirà la persona don Milani, facendone un personaggio buono per ogni stagione, e tradirà il suo messaggio, riducendolo in slogan populisti per tappare ogni buco e ogni ricorrenza.
L’errore più grosso è quello di rendere qualcuno un mito, metterlo sul piedistallo e quasi venerarlo ponendo un’aureola sopra qualsiasi cosa abbia fatto o sopra qualsiasi parola abbia detto. Anche i santi hanno commesso errori, hanno detto o scritto castronerie. Pur nel suo piccolo, hanno reso un mito anche don Piero: se osi rimarcare qualche suo difetto, sei fulminato, e magari da parte di coloro che, quando don Piero era in vita, lo avevano crocifisso.
Ma vittima della mitizzazione è stato soprattutto don Lorenzo, che torna sul piedistallo, ogniqualvolta ci sono le commemorazioni, quando è d’obbligo parlarne bene.
Ma chi opera queste mitizzazioni? Soprattutto la folla che, come ha scritto un grande filosofo e teologo danese, riesce sempre a farla da padrona e a togliere al Singolo il suo mondo interiore: “In ogni campo, per ogni oggetto, son sempre le minoranze, i pochi, i rarissimi, i Singoli, quelli che sanno: la Folla è ignorante”.
Il Singolo è solitudine, come è stata solitudine estrema quella di Cristo morente che, sulla croce, urla: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E si chiude così, nel silenzio drammatico del Padre, la vicenda storica di Gesù di Nazaret, il quale, come scrive Giovanni, mentre muore “consegna lo spirito”, che alcuni traducono: “dona lo Spirito santo”.
Don Piero scrive nei suoi appunti: «Quando moristi, dalla tua bocca uscì un soffio: un suono che ciascuno intese, ma che nessuno comprese. Lasciamo pensare che in quell’ultimo anelito ci fosse anche il mio nome. Lasciamo pensare che mi chiamasti con un soffio divino».
Se don Piero è diventato un mito per i rovagnatesi, don Milani non ha certo evitato di dare occasioni alla folla di osannarlo. In una lettera alla mamma scrive: “In quanto a San Donato, io ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquant’anni sotto il sedere dei miei vincitori”.
L’ipertrofia dell’ego di don Lorenzo forse non è solo una invenzione dei suoi detrattori, ma sembra talora evidente dal suo modo di agire e da alcune sue affermazioni. Nel libro “Non so se don Lorenzo”, Adele Corradi riporta il seguente episodio: «“Voi non ci credete”, ripeteva don Lorenzo un giorno sì e uno no a quegli otto ragazzi che stavano scrivendo la Lettera a una professoressa, “ma io sono un grande maestro. Voglio scriverlo su un cartello a caratteri cubitali: IO SONO UN GRANDE MAESTRO e appenderlo sulla mia testa qui sopra il mio letto, perché voi non lo capite che io sono UN GRANDE MAESTRO”».
 Eppure, credo che valgano ancora le parole di Cristo: “Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8). E queste altre parole, sempre di Cristo: “… dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10).
Don Piero scrive: “Ciò che avvicina l’uomo a Dio è innanzitutto una relazione di presenza nel silenzio. Poiché Dio è l’Infinito, possederlo significa imporsi il silenzio d’ogni personalismo egoistico. Poiché Dio è l’Amore e l’amore è ineffabile, solo il silenzio può esprimerlo. Come il bimbo che, guardando una cosa bellissima, subito disse: Oh mamma! poi tacque, questa relazione di presenza nel silenzio si completa in quella di “donazione in consumazione”. Poiché la materia si spiritualizza, consumandosi nel dono, come la goccia che sale all’amplesso del cielo, sublimando la sua natura, mentre par che la terra la perda. Poiché solo quando l’uomo è discreto come una goccia, allora Dio ne fa una perla del suo cuore”.
Qualcuno potrebbe pensare che io abbia cambiato idea su don Milani e che ora quasi lo disprezzi. Ma si sbaglia. Non è così. Certo, metto in discussione il don Milani manipolato, frainteso, usato e strausato, citato in ogni occasione opportuna e inopportuna.  Vorrei che uscisse fuori il vero don Lorenzo, cioè che si riscoprisse sotto la sua scorza ruvida e orgogliosa quello spirito interiore che lo animava nel suo agire e che col tempo si è quasi disperso tra osanna sperticati e oblii di una generazione che facilmente si immerge nel presente, staccandolo dalle eredità di un passato segnato da grandi maestri e da grandi profeti. Così vorrei che uscisse fuori il vero don Piero, al di là delle tre o quattro opere che sono ancora rimaste, oramai logore. D’altronde, non dimentichiamo: i tempi cambiano, per tutti. Se fossero qui oggi don Piero e don Lorenzo, probabilmente non sarebbero lo stesso don Piero e lo stesso don Lorenzo. Se dovessi tornare a fare il prete a Cambiago (erano gli anni ‘70), anzitutto non ci tornerei, e se dovessi tornare non sarei più il don Giorgio di 60 anni fa.
Che significa, allora, commemorare don Piero e don Lorenzo? Cerchiamo almeno di non restare all’esterno del loro essere. Farne dei miti sarebbe l’errore più grossolano, scimmiottarli ancor peggio.
In fondo, siamo tutti piccole gocce che vanno a far parte dell’oceano dell’infinito divino. Gocce d’eternità! Se sono appesantite, vanno a fondo».
Dunque, anche se anch’io come tanti altri preti sessantottini ero rimasto come folgorato dalla carica rivoluzionaria del Priore di Barbiana, ora, dopo cinquant’anni dalla sua morte, ripensandoci con meno emozioni  e rileggendo più criticamente quel periodo storico, avrei sì qualcosa da dire e ridire, senza tuttavia cadere nella grossolanità strumentale di chi va alla ricerca di tutto ciò che, paradossalmente, serviva a stravedere per il personaggio don Milani, ancor più simpaticamente se fosse stato uno stinco di santo: ovvero, come un pioniere cui si possono perdonare anche difetti umani e scontrosità caratteriali o quel modo eccentrico di un fare spigoloso, che dà però quel tocco in più perché il messaggio possa acquistare una maggiore risonanza, oltre che più incisività e popolarità.
Era anche il momento in cui iniziava quella rivoluzione su più fronti che avrebbe poi tolto tabù anche di linguaggio, virtuosità borghesi, e rotto quei falsi rapporti con l’autorità/autoritarismo che teneva ancora a regime ogni opinione personale.
Ma c’è di più. Quando in questi ultimi anni, ringraziando anche Angelo Scola per avermi messo in quarantena più che triennale, ho scoperto tramite Marco Vannini la grande Mistica, il mio occhio è cambiato, ed è passato dal mondo esterno o dei sensi a quello interiore o dello spirito.
Non solo mi è quasi di colpo venuto a mancare quel senso o orientamento orizzontale, di cui, negli anni sessantottini, ci aveva duramente rimproverato l’allora cardinale Giovanni Colombo, come se noi preti ci fossimo dimenticati dell’aspetto verticale verso Dio, ma ho colto, al di là della contrapposizione laicista (orizzontalismo) e religiosa (verticalismo), quel mistero dell’essere interiore, dove si apre un altro mondo, quello dello Spirito di libertà, o di rigenerazione divina. 
Purtroppo – sì, purtroppo perché mi sembra di essere diventato insofferente e quasi ingrato anche verso i santi e i profeti prima stimati e venerati –, ma anche per fortuna, la realtà appare ora completamente diversa. E per realtà intendo l’insieme di eventi, personaggi, situazioni, anche quel mondo di novità o di aperture sociali e religiose che avevano catturato nel passato la mia simpatia.
Anche il cardinale Carlo Maria Martini ora lo vedo con occhi diversi: mi sembra più lontano, senza più quell’aureola di carisma che me lo aveva fatto stimare e amare.
Che anche don Lorenzo Milani sia uscito dal mio giro di simpatie giovanili o, meglio, che lo veda da un’altra angolatura, senz’altro meno populista, non lo riterrei cosa del tutto strana, anche se, e vorrei dirlo con tutta l’anima, un debito l’avrò sempre con il Priore di Barbiana: avermi fatto capire che nella Chiesa si rimane, costi quello che costi, perché solo così si ha il diritto/dovere di contestarla, come figlio, e non come un estraneo.
Ma ora come posso tacere che, pur stimandolo per tutto ciò che don Milani ha fatto più di cinquant’anni fa, i tempi sono radicalmente cambiati e che i ricordi, pur doverosi, non devono tenerci con lo sguardo all’indietro, perché, più che il progresso sociale o tecnologico, è la scoperta di ciò che siamo all’interno del nostro essere che conta, e tale scoperta richiede, lo ripeto, l’occhio interiore, che qualcuno chiama il terzo occhio, oltre a quello fisico e a quello psichico.
Mi sta bene che don Milani e altri abbiano fatto molto nel campo sociale ed educativo, ma non basta. Non si tratta di fare di più, ma di fare “diversamente”. Occorre perciò cambiare direzione, e rientrare dentro di noi, ovvero rientrare in quel sé interiore che millenni e millenni sono riusciti a coprire, imponendo alla storia un passo sbagliato.
Con ciò, non intendo giudicare né le intenzioni né le opere: tutto buono, magari. Ma siamo rimasti sempre o quasi fuori di noi. E la religione, creandosi un suo dio, ha peggiorato la situazione, alienando masse e masse di credenti idolatri.
Sarebbe un grave errore, perciò, riesumare i santi del passato, o i vari Milani e i vari Martini. C’è da fare un altro lavoro: far rientrare l’uomo nel suo essere, e fargli scoprire quel mondo dello spirito che è vita, ridimensionando radicalmente la società, il potere politico e la religione.
Né lo stato né la religione dovranno essere i nostri punti di riferimento, o le nostre mediazioni necessarie. Nel nostro essere più profondo vi è tutto ciò di cui abbiamo veramente bisogno: anche gli antichi filosofi pagani lo chiamavano “divino”, e noi, più materialisti, dovremmo farne a meno, sperando in un altro dio, quello della tecnologia, dell’economia, del potere o della religione?
Scusate, ma non ritengo che commemorare anche il passato “migliore” (così allora giudicato) possa servire a qualche cosa. Forse, e senza forse, un passato c’è che bisognerebbe risvegliare, ed è quello del genio greco e quello della grande mistica occidentale e orientale.
Nessuno si è mai accorto che il loro oblio o il loro sterminio (pensate alla Chiesa che ha messo sotto silenzio generazioni di spiriti liberi) ha bloccato la storia, facendone solo uno strumento di morte?
Una cosa tuttavia vorrei salvare dei vari don Milani: il loro coraggio di credere in qualcosa, il loro lottare per una causa. Sul qualcosa e sulla causa si può anche legittimamente discutere, ma sul loro coraggio no.
Vi invito a leggere anche  l’articolo di Carlo Maria Martini.
L’esperienza pastorale di don Lorenzo Milani
20 maggio 2017 
 
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