Omelie 2014 di don Giorgio: Sesta Domenica dopo Pentecoste

20 luglio 2014: Sesta dopo Pentecoste
Es 33,1834,10; 1Cor 3,511; Lc 6,2031
Mi soffermerò su ciascuno dei tre brani della Messa, senza voler per forza cercare un nesso tra di loro.
Il primo, tolto dal libro dell’Esodo, parla del colloquio di Mosè con il Dio d’Israele. Da notare subito che la Bibbia presenta diverse pagine in cui il Signore non rifiuta un dialogo con l’uomo. Accetta anche la sfida dell’uomo. Chi non ricorda la famosa pagina della Genesi, capitolo 18, che narra il dialogo serrato tra Abramo e il suo Signore che voleva distruggere Sodoma e Gomorra? Abramo sfida Dio sul grave problema della salvezza dei giusti. Come tu, Dio giusto, puoi distruggere un’intera città, sapendo che ci sono anche degli innocenti? Un problema sempre attuale. Come si può permettere un castigo, sapendo che ci vanno di mezzo anche degli innocenti?
Non solo i patriarchi dialogavano con il Signore. Anche i santi di tutti i tempi. Non dobbiamo pensare ai santi come a gente tutta devota, rassegnata, in perpetua adorazione. Ci sono stati santi che discutevano con Dio, anche litigavano.
Dio accetta la sfida, ascolta il grido di chi lo contesta. Poi, risponde a modo suo. È Dio, e noi non possiamo capire ciò che Lui ha in mente. Secondo la nostra logica, le cose dovrebbero andare diversamente, ma Dio ha in mente un suo piano, anche se scende a patti con l’uomo. Che cos’era l’alleanza tra Dio e il popolo eletto? Una alleanza che veniva rinnovata, a causa delle infedeltà d’Israele. Una alleanza che Dio non ha mai interrotto, anche se, come dice la Bibbia, è stato lì lì per distruggere l’umanità. Pensate al diluvio universale. Di volta in volta il Signore trovava il modo per riprendere il dialogo con l’uomo.
Anche Mosè – è il primo brano di oggi – dialoga con il Signore. Pretende troppo: “Mostrami la tua gloria!”. Cioè: fammi vedere il Tuo volto. Mosè aveva una buona ragione a chiedere al Signore di manifestarsi apertamente. Il popolo lo stava tradendo, adorando le divinità pagane. Dio doveva manifestare tutta la sua potenza, e non con due tavole di pietra su cui c’erano scritte le dieci parole, ovvero i comandamenti.
Ma Mosè non si rendeva conto di ciò che chiedeva. Come si può vedere il volto di Dio? E poi, anche se vedessimo il volto di Dio, che cosa cambierebbe? Dio si è rivelato in Gesù Cristo, e chi lo ha riconosciuto? Dio si manifesta ancora oggi in mille modi diversi, e chi lo riconosce? Certo, siamo sempre pronti a contestare Dio perché le cose non vanno bene, perché gli innocenti soffrono, ma perché siamo così ciechi da non vedere la misericordia e la bontà di Dio, quando queste si manifestano proprio in quei giusti che noi contestiamo, in quegli innocenti che noi condanniamo a morte con la nostra cattiveria?
La risposta di Dio a Mosè: “vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” è da intendere bene. Non si può vedere il volto di Dio mentre passa, ma solo le sue spalle, quando è già passato. Dio è sempre davanti, dobbiamo seguirlo: seguire le sue orme. Dio, quando parla con l’uomo, ha il volto girato. Nessuno può vederlo in faccia. Se lo vedessimo in volto, rimarremmo così abbagliati da perdere la nostra identità: non saremmo più noi. Talora parliamo di ombra di Dio, di segnali di Dio. Tutte immagini che indicano che il mistero di Dio è inaccessibile, e che, nello stesso tempo, lascia dei segni nella storia.
Il Signore invita poi Mosè a tagliare di nuovo due tavole di pietra, come le prime. Dio non torna indietro. Insiste. Riprende il suo dialogo. Il popolo lo ha tradito? Mosè si era arrabbiato la prima volta, spezzando le pietre? Dio vuole riscrivere la sua legge. Non demorde. L’amore è questo: mai cedere di fronte a nessun tradimento. E nemmeno di fronte al proprio Dio, quando questi sembra dimenticare la sua promessa. Certo, sembra. Ma anche certi silenzi di Dio possono pesare sulla nostra fede, tanto più che il Signore conosce le nostre debolezze e i nostri limiti. Anche i santi entravano in crisi.
L’apostolo Paolo, nella sua prima lettera ai cristiani di Corinto, parla di alcune fazioni che si erano già formate all’interno della comunità. “Io sono di Paolo!”, “Io sono di Apollo”, “Io sono di Cefa”, “Io sono di Cristo”. Cefa era Pietro, Apollo invece era una delle grandi figure del cristianesimo primitivo, di cui più volte Paolo ne ha tessuto l’elogio. Pietro, Paolo e Apollo: tutte persone perbene, ma che, non per volere loro, stavano creando divisioni. Cristo era considerato quasi alla stregua dei suoi apostoli. Uno tra i vari leader, a capo di una specie di setta. Ciò non era accettabile in una Chiesa fondata sul sangue di Cristo. San Paolo si chiederà: “È forse diviso il Cristo?”. Lungo la storia della Chiesa, si sono sempre verificati questi fenomeni di aggregazioni attorno a qualche carismatico di spicco. E così sono nate congregazioni, ordini, associazioni, movimenti. Di per sé, nulla di male, se tutto ciò dovesse rivelare il molteplice volto di una Chiesa che riflette la bellezza armonica del Dio infinito. Non sono contrario che nella Chiesa ci sia una molteplicità di riflessi della Santissima Trinità. Casomai ciò che mi deprime è l’uniformità, quel voler omologare tutto in nome dell’obbedienza o del mantenimento della struttura. Se fate caso, non c’è un santo uguale all’altro. Ciò che invece è insopportabile è quando un leader si presenta come il non plus ultra: come l’unico detentore della verità. Non ce l’ho con i movimenti ecclesiali di oggi in sé e per sé: mi stanno anche bene, ma che riconoscano i loro limiti e il primo tra questi è che sono mezzi, strumenti, al servizio della verità che non è prerogativa di nessuno. Se sono mezzi, non sono indispensabili, se non in caso di emergenza; ma, terminata l’emergenza, i movimenti o le associazioni devono mettersi da parte. Gli spiriti veramente liberi non hanno bisogno di tutori o di sostegni: camminano da soli. I movimenti sono come dei tutori, che servono a chi non riesce a camminare da solo. Un po’ di chiarezza non fa male. Anch’io, nella mia vita sacerdotale, ho preso come esempio o come stimolo, qualche santo, ma questo santo non è rimasto l’unico per tutta la vita. Non ho mai cercato un leader fine a se stesso, ma diversi spiriti liberi, diversi tra loro. Per me la verità intera non ce l’ha in tasca nessuno, neppure la Chiesa cattolica. Dio semina la sua verità in ogni angolo della terra. Attenzione, dunque: oggi posso preferire il tal santo, il tal profeta, il tal leader carismatico, ma dobbiamo essere pronti ad aprirci ad altri, ancora più aperti, più liberi, più ostici alla gerarchia.
Infine, il brano del Vangelo. È la famosa pagina delle beatitudini secondo Luca. Esiste un’altra versione, quella secondo Matteo, che apre il Discorso della Montagna. Le due versioni sono differenti nello stile letterario, e anche nell’intento. Matteo usa una forma impersonale (beati i poveri, ecc.) e spiritualizza le beatitudini (beati i poveri in spirito, ecc.), Luca invece usa il tu, si rivolge direttamente agli interessati (beati voi…) e sembra toccare la realtà esistenziale (beati, voi poveri, senza aggiungere “in spirito).
A parte queste considerazioni che non sono comunque secondarie, ciò che colpisce nelle parole di Cristo, nella versione di Matteo o nella versione di Luca, è la scelta ben precisa, inequivocabile, per i più poveri, derelitti, perseguitati, E, se vogliamo preferire la versione di Luca, colpisce la contrapposizione radicale tra le quattro beatitudini e le quattro maledizioni (beati voi poveri, maledetti voi ricchi, ecc.).
Commenta P. Ermes Ronchi: «Davanti al Vangelo delle beatitudini provo ogni volta la paura di rovinarlo con le mie parole: so di non averlo ancora capito, continua a stupirmi e a sfuggirmi. “Sono le parole più alte del pensiero umano” (Gandhi), parole di cui non vedi il fondo. Ti fanno pensoso e disarmato, riaccendono la nostalgia prepotente di un mondo fatto di bontà, di sincerità, di giustizia. Le sentiamo difficili eppure amiche: perché non stabiliscono nuovi comandamenti, sono invece la bella notizia che Dio regala gioia a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.
Beati: parola che mi assicura che il senso della vita è nel suo intimo, nel suo nucleo ultimo, ricerca di felicità; la felicità è nel progetto di Dio; Gesù ha moltiplicato la capacità di star bene!
Beati voi, poveri! Non beata la povertà, ma le persone: i poveri senza aggettivi, tutti quelli che l’ingiustizia del mondo condanna alla sofferenza. La parola “povero” contiene ogni uomo. Povero sono io quando ho bisogno d’altri per vivere, non basto a me stesso, mi affido, chiedo perdono, vivo perché accolto. Ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, perché diventerete ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato.
Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, già adesso, non nell’altro mondo! Beati, perché è con voi che Dio cambierà la storia, non con i potenti. Avete il cuore al di là delle cose: c’è più Dio in voi, siete come anfore che possono contenere pezzi di cielo e di futuro…
Guai a voi ricchi: state sbagliando strada. Il mondo non sarà reso migliore da chi accumula denaro; le cose sono tiranne, imprigionano il pensiero e gli affetti… Diceva Madre Teresa: ciò che non serve, pesa! E la felicità non viene dal possesso, ma dai volti.
Se accogli le Beatitudini la loro logica ti cambia il cuore, sulla misura di quello di Dio. E possono cambiare il mondo».

 

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