Omelie 2020 di don Giorgio: QUARTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

20 settembre 2020: QUARTA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 63,19b-64,10; Eb 9,1-12; Gv 6,24-35
Davanti a una pagina della Bibbia come quella del primo brano della Messa di oggi, non possiamo non provare forti emozioni, per quel rincorrersi di immagini che non finiscono mai di stupire, proprio per la loro capacità di farci riflettere.
Basterebbe una sola immagine, e qualcosa di nuovo potrebbe aprirsi davanti al nostro pensiero.
Lo squarcio dei cieli
Partiamo dalla prima immagine, quella dei cieli che si squarciano, per lasciare che il Signore scenda sulla terra. La potenza dell’immagine sta proprio nello squarcio di un cielo che sembra chiuso, quasi a separare l’umanità dall’Essere supremo.
Quando pensiamo ai cieli solitamente pensiamo a qualcosa di straordinariamente affascinante, ed ecco che l’immagine usata dal profeta diventa sconvolgente: ciò che è affascinante si deve quasi rompere, addirittura squarciarsi perché il Signore onnipotente si offra a noi, scendendo sulla terra.
A parte l’uso che ne ha fatto la Liturgia per il periodo d’Avvento in attesa del Natale, qui si va oltre, proprio perché non si tratta solo di un evento, ovvero della incarnazione del Figlio di Dio. Il Natale diventa una presenza talmente mistica che non è da limitare ad una data storica, ma è quel desiderio o, meglio, è una esigenza reale e profonda da parte dell’essere umano di un Dio che non sia quasi protetto nella sua Infinità da cieli chiusi.
Ma se i cieli sembrano chiusi è perché siamo noi,creature, ad avere allontanato Dio al di sopra dei cieli. E i cieli sono talmente chiusi che non basta aprirli, ma devono essere squarciati, quasi che Dio faccia un gesto di violenza. Ed è sempre così quando l’uomo arriva a proteggersi dall’Essere supremo con una ostinazione tale da sembrare una sfida.
L’immagine dello squarcio dei cieli richiama non solo il potere dell’uomo di segregare Dio lontano da lui, ma di avere la presunzione di trasformare la stessa creazione in un ostacolo come se Dio, creando, si fosse tirata la zappa sui piedi.
I cieli, invece che invitarci a pensare all’Immenso divino, sono diventati una prigione di Dio, relegato lassù, oltre il firmamento.
E basta uno squarcio nel cielo perché tutto sulla terra sussulti. Lo dice il profeta: “Davanti a te sussulterebbero i monti, come il fuoco incendia le stoppie e fa bollire l’acqua, perché si conosca il tuo nome fra i tuoi nemici, e le genti tremino davanti a te».
Dunque, all’immagine dello squarcio dei cieli, si aggiungono altre immagini, quella dei monti che sussultano, del fuoco che brucia le scorie e dell’acqua che si surriscalda. E tutto questo per farci capire che cosa? Ovvero, all’invocazione dell’uomo perché il Signore squarci i cieli perché scenda a sterminare i nemici, Lui, l’Onnipotente, come risponderà? Se la chiusura dei cieli rappresenta l’ottusità umana, come tenere chiusi i nostri occhi, altri cieli, per non vedere che il male non sta solo da una parte, ma che alberga in ognuno di noi? Già il fatto che siamo fuori di noi, abbiamo creato come una barriera tra il nostro essere e il mondo carnale di un vivere sociale che non basta dire che è alienato. C’è qualcosa di più, perché ci sono alieni che non sanno di essere fuori luogo, ma ci sono alieni a cui piace stare fuori posto.
E allora lo squarcio che Dio farà riguarderà quella chiusura che noi esseri umani abbiamo costruito tra il nostro essere, dove inabita lo Spirito, e la parte carnale. E allora i monti sussulteranno non di gioia, ma crolleranno, il fuoco dello Spirito brucerà la paglia che è quell’insieme di cose inutili che pesano sul nostro essere interiore, l’acqua prenderà la sua energia vitale nella grazia divina.
Perché il Signore è adirato
Il profeta presenta Dio come se fosse adirato, proprio perché, scendendo sulla terra dopo aver squarciato i cieli (possiamo vedervi un certo atto di violenza), fa crollare i monti, incendia la paglia e fa bollire l’acqua.
Pensare l’Onnipotente come colui che perdona, lasciando il peccato, non è da profeta di Dio, e il profeta, lo dice la parola “pro-feta”, non è tanto colui che vede in anticipo gli eventi futuri (una concezione del profeta da correggere, perché è del tutto sbagliata), ma è colui che parla oggi in nome di Dio, il quale naturalmente, pur essendo padrone del tempo e della storia, non si diverte a pre-vedere il futuro, magari attraverso apparizioni di madonne o di santi che fanno rivelazioni future catastrofiche. Questo fa parte di una religione che vuole incutere terrore per tenere soggiogate le anime a se stessa.
Il profeta, parlando in nome di Dio, e Dio si fa sentire in ogni essere umano (ognuno di noi è profeta), vuole farci capire qualcosa del Mistero divino, che ci educa (attenzione al verbo “educare”) a riscoprire in noi stessi qual è la sorgente del male, che è “il peccato”, che dà origine ai vari peccati. Anche il Vangelo lo dice: Cristo è venuto per farci capire dove sta il peccato, e non per inventare un sacramento che è la remissione dei peccati. A che servirebbe perdonare i peccati, se poi rimane la sorgente del male, che ci porta a peccare.
Il peccato è quell’”amor sui”, come dicevano gli antichi Mistici medievali, che è la fonte di ogni male: l’”amor sui” è l’amore per tutto ciò che occupa lo spazio del nostro essere, per cui lo Spirito non può entrarvi. L’”amor sui” è appropriazione di qualcosa per il proprio ego.
Se noi non capiamo dove sta l’origine del male, ovvero del peccato, non potremo mai purificare il nostro spirito, e ci accontenteremo di chiedere a Dio il perdono, con una confessione sacramentaria che è solo un alibi, un’apparenza, perché l’”amor sui” resta intatto, anche se i peccati che confessiamo vengono perdonati.
Il profeta è esplicito quando scrive: «Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia; tutti siamo avvizziti come foglie, le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento».
E si ricorre ad altre immagini: il panno sporco, le foglie avvizzite, il vento. E la domanda torna: dove sta il male, per cui siamo come panni sporchi, foglie avvizzite in balìa del vento?
Finché rimaniamo all’esterno del nostro essere, vedremo solo le nostre debolezze, e ci aggrapperemo a qualche santo del cielo o a qualche mezzo di purificazione per lavarci la faccia. E l’”amor sui” rimane intatto, e così continueremo a fare lavande gastriche, continuando a bere acqua inquinata.

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