Omelie 2012 di don Giorgio: Dedicazione della Chiesa cattedrale

21 ottobre 2012: Festa della Dedicazione del Duomo

La Diocesi ambrosiana ogni terza domenica di ottobre celebra la Dedicazione della chiesa cattedrale. Perché tale scelta? In una terza domenica di ottobre, esattamente il 20 di ottobre del 1577, San Carlo Borromeo consacrava il Duomo di Milano.
Il Vangelo odierno inizia con le parole: “In quel tempo ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione”. Naturalmente l’evangelista Giovanni si riferiva alla Dedicazione del Tempio di Gerusalemme, ricorrenza che si celebrava in dicembre a ricordo di un drammatico avvenimento storico: il 25 kislèv del 168 a.C. l’empio re Antioco IV° Epifane, suscitando grande scandalo tra i giudei, aveva cominciato a celebrare un sacrificio pagano su un altare nientemeno che nel Tempio di Gerusalemme! E la cosa durò per ben tre anni, con grande sofferenza dei giudei fedeli; finalmente nel 165 Giuda Maccabeo riconquistò la città, purificò il santuario e vi celebrò la dedicazione: l’altare fu nuovamente consacrato con canti di ringraziamento e salmi, e venne riaccesa la lampada ad olio che perennemente ardeva davanti ad esso, proprio nello stesso mese e nello stesso giorno in cui era stato profanato: il 25 kislèv, cioè circa il nostro 20 dicembre.
Si decise poi di ripetere ogni anno la celebrazione di questa festa con gioiosa partecipazione, festività che durava otto giorni, durante i quali ogni famiglia poneva all’esterno della propria casa (o alla finestra) un candelabro a nove braccia. Attingendo alla luce del braccio centrale, giorno dopo giorno, all’apparire della prima stella, si accendevano in progressione tutte le luci del candelabro. Ecco perché tale festa veniva chiamata anche Festa delle luci. Il rito delle luci passò successivamente a raffigurare il trionfo della Legge sulle tenebre del paganesimo.
Anche al tempo di Gesù la Festa delle Luci o della Dedicazione del Tempio era tra le feste più importanti per la fede ebraica e, come sappiamo dai Vangeli, pure Gesù, da buon ebreo, partecipava ai momenti di preghiera e di culto del suo popolo. Ma in modo del tutto originale. Lo possiamo capire dal Vangelo dello stesso Giovanni che, a differenza degli altri tre evangelisti, imposta la sua narrazione della storia di Gesù inquadrandola proprio nell’ambito delle feste giudaiche, per mostrare, di volta in volta, come il Nazareno rappresenti il senso profondo e il compimento di ciascuna di esse: lo si capisce in modo chiaro nei momenti in cui Gesù stesso pronuncia solennemente quelle formule di auto-rivelazione che contraddistinguono il quarto vangelo.
Così ad esempio la Festa delle Capanne (Giov.7,2) era caratterizzata da due riti: l’acqua della fonte sacra sparsa sull’altare a propiziare la pioggia e l’illuminazione della città con i quattro lampioni ai lati del cortile del tempio. Non a caso dunque Giovanni narra che “nell’ultimo giorno, il più grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Giov.7, 37-38); e poco dopo: “Io sono la luce del mondo – afferma Gesù – chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Giov.8,12): è Gesù la vera fonte della vita e la vera luce!
Dunque, se in occasione delle precedenti feste giudaiche Gesù si è manifestato come il Messia, il vero agnello che toglie il peccato del mondo, il Signore del sabato, l’acqua fonte di vita e la luce del mondo, ora, nell’ambito della Festa della Dedicazione, rispondendo alla richiesta dei giudei sulla sua identità, Egli arriva ad un’affermazione basilare “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Giov.10,30) ed è proprio questa frase che scatena l’ira dei giudei, i quali vogliono addirittura lapidarlo. A questo punto, fanno notare gli studiosi della Bibbia,  Gesù abbandona definitivamente il tempio, il che prepara la liturgia senza tempio successiva alla distruzione del tempio stesso. Da notare: Giovanni, nel suo vangelo, parlando delle festività le designa ripetutamente come “feste dei giudei”, in senso quasi polemico. Del resto, ovunque in Giovanni si parla del tempio, sembra dire che il tempio vero è la Chiesa; come il tempio antico era il luogo del raduno della comunità per la lode e il ringraziamento, così Gesù è il nuovo punto di raduno della comunità, che si riunisce attorno allo spezzare del pane. È questo il senso più profondo della festa della Dedicazione.
Detto questo, che mi sembrava fondamentale, passiamo ora a fare alcune riflessioni. Ogni ricorrenza liturgica dovrebbe stimolare in noi il desiderio di scoprire il senso del nostro credere.
Il Duomo di Milano rappresenta la chiesa madre. Così si dice in modo anche enfatico, ovvero esagerando l’aspetto materno, come se tutte le altre chiese fossero da intendere come figlie, come emanazioni o diramazioni della stessa chiesa cattedrale. E da qui l’invito all’unità o unitarietà. Tutti uniti, tutti concordi con il Vescovo. Ma non ci poniamo le domande, quelle stesse che hanno portato Gesù Cristo a rifondare il vero tempio, in lui. I primi cristiani si erano resi conto della grande Novità: il vero tempio era Cristo, incarnazione dello stesso Dio.     
Ma Cristo aveva anche detto: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Da qui l’esigenza di ritrovarsi in un luogo anche fisico, prima nelle case di chi era proprietario di abitazioni, che avevano una sala grande, adatta quindi ad accogliere più persone, poi, quando è stata concessa la libertà di esprimere pubblicamente la propria fede (soprattutto in seguito all’editto di Milano o editto di Costantino del 313: a proposito la diocesi milanese si appresta l’anno prossimo a celebrare solennemente il 17° centenario), si iniziarono a costruire le chiese, anche sui ruderi o adattando i templi pagani. Dai centri urbani, dove risiedevano i vescovi, man mano, dietro la spinta della diffusione sempre più capillare del cristianesimo, si sentì il bisogno di evangelizzare anche i villaggi, costruendo anche qui luoghi di culto. Il pericolo c’era che ogni chiesa o chiesuola si sentisse in un certo senso come autonoma, staccata dalla cattedrale, dove risiedeva la cattedra o la sede autorevole dell’insegnamento del vescovo.
Oggi possiamo chiederci che senso abbia celebrare la Festa della Dedicazione o Consacrazione del Duomo di Milano. Certo, è una grande opera d’arte, perciò è anche doveroso ogni tanto ricordarci che c’è. Ma ci sono bellissime chiese, delle cattedrali imponenti architettonicamente parlando ma che sono rimaste solo opere d’arte. Attirano turisti, che vanno a visitarle, senza rendersi conto che c’è qualcosa che va oltre, che c’è una presenza misteriosa e affascinante che è all’origine della stessa bellezza estetica, senza rendersi conto che esse sono il simbolo di una fede, a cui attingere, quando però non siano ridotte a dei musei.
È vero che non è la grandezza o la maestosità di una cattedrale che rende maggiormente presente il Mistero di Dio. Anzi, capita il contrario. Chi entra in un Duomo, rimane come disorientato dalla sua bellezza estetica, e non riesce a raccogliersi, a pregare come nell’intimità di una piccola chiesa, più umile e più mistica. Però, quando pensiamo al Duomo pensiamo anche al vescovo, che qui celebra i momenti più solenni della liturgia e tiene le sue omelie più vibranti. Non si può paragonare l’omelia di un prete di campagna all’omelia del suo vescovo. Sto parlando dell’effetto che può avere una parola lanciata da una cattedrale. Io, prete di una frazione, posso dire le stesse cose del mio vescovo, ma l’incidenza mediatica è diversa. Il Duomo fa da grande cassa di risonanza. Basta una virgola messa al posto giusto, e la parola del vescovo può scuotere le coscienze. Ecco perché il Duomo si chiama anche cattedrale: la cattedra o il pulpito su cui il vescovo sale per comunicare la parola di Dio, che si è fatta carne, e non pura dottrina per addetti ai lavori. Il Duomo, più che riempirsi di incenso per le solenni celebrazioni liturgiche, come vorrebbero i tradizionalisti cattolici che vivono di riti tanto antichi quanto ormai defunti, dovrebbe essere il cuore parlante della vibrazione pastorale del vescovo. E non si possono aspettare solo le grandi occasioni per una parola forte: queste occasioni devono essere frequenti, settimanali, puntuali, come puntuale è l’esigenza dell’uomo moderno di qualcosa di profondamente diverso dalle solite esigenze materiali.
Certo, ogni vescovo ha il suo stile comunicativo: Schuster aveva il suo, Montini aveva il suo, Colombo aveva il suo, Martini aveva il suo, Tettamanzi aveva il suo, e Scola ha il suo. Ma lo stile comunicativo rivela una visuale di fede che non posso ridurre solo ad un certo modo di predicare. Da come uno parla o scrive capisco qual è la sua fede in Dio, quale visuale ha della Chiesa, quale pastorale intende proporre in diocesi. Se questo è il Dio in cui credo, allora predico così. Se questa è la mia visuale di fede, allora propongo questa pastorale alla diocesi. Sì, è anche questione di coraggio, diciamo di parresia – che significa: coraggio di dire la verità -, ma è soprattutto questione della mia formazione religiosa, del mio approccio col mistero di Dio. Se credo in un Dio prigioniero di una religione, il mio annuncio non saprà di risurrezione. Chi crede nella risurrezione di Cristo, non può predicare un Dio come se fosse una mummia, o qualcosa del passato, o qualcosa di statico. L’icona più bella di Martini è stata la sua fede nella risurrezione. Ecco perché credeva in una Chiesa sempre in avanti, sempre nuova, sempre viva, pronta a rinascere, ecco perché soffriva nel vedere invece una Chiesa indietro, una Chiesa stanca, una Chiesa rassegnata, una Chiesa in balìa delle forze del male o del potere corrotto.
Se la parola del mio vescovo non rivela questa voglia di risurrezione, se è ostaggio di una religione chiusa all’Umanità, mi delude, e delude tutta la diocesi, quella diocesi naturalmente che ha voglia di risurrezione. Ma purtroppo, iniziando dai preti, anche la diocesi milanese vivacchia, continua i suoi soliti percorsi battuti da gente sempre meno vivace.
Lo so: ogni vescovo impone il suo passo alla diocesi. C’è chi lo allunga troppo, e c’è chi frena. Ma, in una società che accelera i tempi, almeno cerchiamo di capirne le ragioni, e di riempire questi tempi con una profezia che imponga al passo dell’uomo un senso profondo, che non è certo quello conculcato
da una religione che ha paura della Storia.

1 Commento

  1. Luciano ha detto:

    Grazie don Giorgio. Apprezzo molto le sue omelie perchè contengono anche delle nozioni storiche che aiutano a meglio comprendere il contesto presente. In genere, io ogni Domenica, mi connetto con il suo sito per poter celebrare la Liturgia della Parola, con l’aiuto e lo stimolo delle sue omelie. Anche ieri, purtroppo ho subito un’omelia che verteva principalmente sulla struttura (stortura)di mattoni e cemento e non quello dell’essere Chiesa Viva. Condivido pienamente riguardo alla tiepidezza e alle amenità che i pochi troppi preti, e relativi soliti fedeli, continuano a dire e a fare, senza però trasmettere l’Appartenenza e il Coinvolgimento che il Cristo Vivente emana ad ogni cuore Aperto alla Novità del Figlio di Dio che è con noi e noi, in ogni momento. Abbiamo davvero bisogno di Profeti Ispirati da Dio che ci porteranno il Rinnovamento nel Cammino verso l’Assoluto. Grazie don Giorgio, lei sta dando una mano concreta a che ciò accada. Buona Festa.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*