Omelie 2014 di don Giorgio: Quarta Domenica dopo il Martirio di S. Giovanni Battista

21 settembre 2014: Quarta Domenica dopo il Martirio di S. Giovanni il Precursore
Is 63,19b-64,10; Eb 9,1-12; Gv 6,24-35
Il primo brano della Messa è la seconda parte di una lamentazione – un vero e proprio salmo di supplica – che il profeta anonimo, voce del popolo eletto, rivolge al Signore perché Egli di nuovo apra i cieli e discenda tra la sua gente per scuoterla. Siamo in un momento storico particolare del popolo ebraico: tornato in patria dopo l’esilio babilonese, aveva trovato una terra deserta, senza più nulla, tutta da ricostruire. Occorreva non solo tanta buona volontà, ma soprattutto quel ritorno alla fede genuina, precedentemente tradita.
Vorrei soffermarmi su una parola che torna spesso nei testi sacri. Una parola che ricorre più di altre, ed è: giustizia. Ho avuto la conferma, dopo una ricerca fatta su internet. Vi riporto ciò che ho trovato: nella Bibbia la parola amore è presente per 196 volte, la parola pace per 306, la parola giustizia per 455 volte. Lasciamo stare il numero, che potrebbe anche variare, ma ero più che certo che la parola giustizia superasse le altre. Ma la cosa più importante è cogliere il senso, che ha la parola giustizia nei testi sacri.
Noi cittadini abbiamo un concetto tutto particolare di ciò che è giusto, concetto che poi varia di volta in volta, secondo i nostri umori o le nostre pretese. Il più delle volte equipariamo giustizia a legalità, come se la giustizia fosse prerogativa dei giudici o dello Stato. Anche nella società civile la giustizia di per sé va oltre una istituzione umana, ma in realtà non è così. Ecco perché il cittadino ha perso il vero valore della giustizia. Talora in nome della giustizia parliamo di diritti. Ma anche qui siamo fuori strada. La giustizia di per sé va oltre il concetto di diritto umano. La giustizia, in poche parole, anche su un piano civile, fa parte di ciò che noi siamo in quanto esseri umani. I diritti vengono dopo i doveri che sono insiti nel nostro essere umano, altrimenti si rischia di trasformare in diritto qualcosa che non corrisponde alla nostra dignità umana.
La parola che ricorre sulla bocca di tutti è giustizia, ma nel suo senso negativo: questo non è giusto!  E siccome allarghiamo sempre di più il campo dei diritti-pretese, la mancanza di giustizia rientra tra le lamentele più diffuse.
Anzitutto, sfatiamo l’idea che giustizia equivalga a legalità. Se un Parlamento emettesse leggi sbagliate, in tal caso non potremmo parlare di giustizia. Legalità, dunque, non corrisponde di per sé a giustizia, intesa nel suo significato più ampio di rispetto della dignità dell’essere umano.
Secondo la Bibbia parlare di giustizia è parlare di quel disegno misterioso di Dio, che non può essere racchiuso nelle piccole menti umane, ma che trascende la logica umana, ovvero quel nostro modo di pensare le cose o l’universo secondo criteri di potere, di forza, di numeri, di denaro. I giusti, secondo la Bibbia, sono coloro che sono fedeli all’Alleanza: sono coloro che non fanno parte dei giochi umani, sono coloro che rifiutano compromessi con i più forti. La giustizia biblica è quel misterioso piano di Dio, che scompagina i piani umani. Essendo del tutto misterioso, il disegno di Dio sulla storia esige grande fede, il che significa che, pur facendo parte di questo momento storico, dobbiamo sempre salvare in noi quell’aspetto contemplativo, che è il nostro segreto di libertà interiore.
Il secondo brano della Messa è tratto dalla lettera agli Ebrei. Una lettera, purtroppo, dimenticata e poco conosciuta: non è tanto indirizzata agli Ebrei, ma è piuttosto un “discorso di esortazione” per tutti i cristiani che attraversano una situazione di prova e di crisi. L’autore non è certamente san Paolo, ma rimane ancora anonimo: senza un nome. Tema centrale è il sacerdozio di Cristo. In che senso Gesù è sacerdote, se non apparteneva alla classe sacerdotale di Aronne e non ha mai officiato nel Tempio? Sì, è sacerdote ma in un modo del tutto diverso dai sacerdoti della religione ebraica. Storicamente infatti egli è stato e ha vissuto l’ebraismo da “laico”. Tuttavia Gesù è davvero il grande sacerdote della nuova alleanza. Il sacerdozio di Cristo non appartiene ad alcuna religione. Quante volte l’ho detto: il cristianesimo di per sé non è una nuova religione. Ogni religione crea vincoli e separazioni: solo il sommo sacerdote ebraico poteva entrare nel Santo dei Santi, separato dal luogo, detto semplicemente Santo, dove potevano accedere i comuni sacerdoti.
Il Tempio era un insieme di barriere: barriere per le donne, barriere per i pagani, ecc. Pochi ricordano che alla morte di Cristo, «il velo del Tempio si squarciò in due, da cima a fondo» scrive l’evangelista Luca. Secondo gli esegeti, l’autore sacro intendeva dire che la morte di Cristo ha segnato la fine dell’antica religione ebraica: sono cadute per sempre le separazioni tra l’essere umano e Dio.
Il cristianesimo è apertura, non è un mondo di chiusure. Ma tutti sappiamo come sono andate le cose. Il cristianesimo, lungo i secoli, è tornato ad essere una religione: un mondo di separazioni. La Chiesa cattolica, in fondo, che cosa è diventata? Anche noi preti, sacerdoti della nuova alleanza, dovremmo chiederci ripetutamente se siamo ministri, ovvero al servizio di un Mistero, quello divino, che unisce e non separa: unisce nel profondo di noi stessi. Più restiamo esterni a noi, più distinguiamo, separiamo. Dio è nel profondo del nostro essere. Qui, siamo tutti fratelli, e ci sentiamo fratelli. Pensate: il Figlio di Dio, incarnandosi, è disceso dal cielo, rompendo ogni barriera. L’incarnazione è una discesa. La religione invece è una salita, con tanti gradini, con tante complicazioni, con tanti ostacoli. Cristo è venuto per togliere ogni separazione tra impuro, profano e sacro. Noi ministri non facciamo altro che separare ancora ciò che è religioso da ciò che è umano. Già la parola “sacerdozio” dovrebbe farci riflettere: deriva da sacer, sacro, tutto ciò che è divino. La parola “religioso rimanda alla religione, che invece separa il sacro da ciò che noi chiamiamo profano. Di per sé non c’è nulla di profano: il termine “profano” deriva dal latino “profanus”, ovvero ciò che è al di fuori, resta al di fuori (pro) del fanum, intendendo con quest’ultimo termine un bosco sacro, un luogo sacro, un tempio. Tutto l’universo è la casa di Dio: nulla può essere fuori.
Ne abbiamo ancora di strada da percorrere prima di arrivare a comprendere e ad accettare un mondo, dove non esistano più distinzioni tra sacro e profano. Lo stesso laicismo non avrebbe più senso.
Il brano del Vangelo ci aiuta a riflettere su un tipico atteggiamento anche di noi credenti: chiedere continuamente a Dio segni e miracoli d’ogni tipo. Come fossimo drogati. Ottenuta una grazia ne vogliamo un’altra. Non ci accontentiamo mai. Sembra che non possiamo fare a meno di interventi dall’alto.
Corriamo da un santuario all’altro per chiedere grazie materiali e spirituali. Non apriamo gli occhi abbastanza per capire che tutto è un segno di Dio, anche ciò che noi chiamiamo male. L’evangelista Giovanni non usa la parola miracolo, ma parla di “segni”: un segno nasconde qualcosa che va oltre il gesto o l’azione in sé.
Che cosa era successo? Gesù aveva compiuto il giorno prima un grandioso segno: aveva moltiplicato pani e pesci per sfamare la folla che lo stava ascoltando. Dalla domanda provocatoria che rivolge a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» appare chiaro l’intento di Gesù: compiere un “segno” che andasse oltre un pezzo di pane materiale. Ma sapeva anche che la folla sul momento non avrebbe capito il significato di quel segno. Difatti la folla lo vuole fare re. Pensate: un re che avrebbe regalato pane a tutto il regno! Ma Gesù non ci sta, e se ne va tutto solo sul monte vicino. Scesa la notte, attraversa il lago per far disperdere le proprie tracce. Ma la folla lo cerca, finché non lo trova a Cafarnao. Qui s’inserisce l’episodio della pagina del Vangelo.
Gesù subito provoca tutta quella gente accorsa per chiedere un altro miracolo: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». Gli ebrei reagiscono male. Forse noi moderni avremmo fatto di peggio. Siamo in difficoltà economica, e tu mi parli di un altro cibo? Ma di quale cibo? Noi chiediamo un lavoro onesto, un pezzo di pane per sfamare i nostri figli, e tu ci parli di vita eterna? Ma dài, sii serio e non prenderci in giro.
In due mila anni di cristianesimo che cosa abbiamo capito di Cristo? Abbiamo fatto del cristianesimo una religione taumaturgica con la pretesa che ci risolvesse tutti i problemi esistenziali. È vero: Cristo si è incarnato, ha assunto la nostra “carne”, non può non essere vicino alle nostre difficoltà quotidiane per sopravvivere. Ma la domanda è un’altra: l’essere umano di che cosa ha “veramente” bisogno? Solo di un cibo materiale, di un lavoro e di tanta salute? Perché non siamo mai contenti? Il peggior castigo per gli ebrei era quando Dio “taceva”: quando cioè faceva mancare la sua Parola di vita.
Il più grande peccato di oggi è un cuore arido, una mente atrofizzata. Anche il corpo fisico ne risente.

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