Omelie 2015 di don Giorgio: Prima Domenica di Quaresima

22 febbraio 2015: Prima di Quaresima
Is 57,15-58,4a; 2 Cor 4,16b-5,9; Mt 4,1-11
Iniziamo la Quaresima: tempo, come dice la Liturgia, “favorevole”, ovvero da sfruttare al meglio per il meglio. E il meglio, in questo caso, sarebbe puntare a ridare all’essere il suo primato.
Anticamente, la Quaresima, con i suoi digiuni e le sue penitenze, più che a mortificare il proprio corpo come una punizione, mirava a restituire alla persona la sua libertà, coperta da un mucchio di cose inutili, che il tempo ordinario accumulava di giorno in giorno.
Ed ecco allora l’importanza della parola di Dio. Una parola che taglia e risana: taglia il superfluo per ridare salute al proprio essere, ovvero all’essenzialità. Che discorsi!, mi direte. Certo, discorsi troppo alti per chi è abituato a pensare unicamente alla propria pancia. Forse, sarebbe il caso di dire: beh, per elevarci almeno un po’, dovremmo partire proprio dalla pancia, facendo un po’ di digiuno. Sarebbe già qualcosa! Il problema è che la pancia ha preso tutto, e ha annullato il pensiero.
Nei tempi attuali, a differenza dei tempi antichi, in cui si dava preferenza al digiuno e alle penitenze – e pensare che la gente era già costretta a digiunare e a tirare la cinghia, anche se si era abituata a viveri di stenti –, ciò che l’uomo moderno ha bisogno è la parola tagliente di Dio. Una parola autentica, radicale, senza fronzoli. Una parola che va alla radice dei problemi anche esistenziali. Mai come oggi l’uomo è cieco, ottuso, chiuso.
Soffermiamoci sul primo brano della Messa. Fa parte del capitolo 57 del libro di Isaia. Siamo all’inizio dell’ultima parte del libro, chiamata dagli studiosi Terzo Isaia, scritta da un profeta vissuto durante la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e negli anni successivi (dal 520 a.c. in avanti). Dunque, gli ebrei erano già tornati in Palestina, dopo il lungo esilio a Babilonia. Come vedete, insisto nel porre il brano nel contesto storico.
Il capitolo 57 è una spietata invettiva del profeta contro l’idolatria dei suoi tempi, con chiari riferimenti anche ai nostri. Per darvi una certa idea delle dure parole del profeta, vorrei leggervi alcune espressioni che precedono il brano di oggi. Gli idolatri vengono chiamati testualmente: “figli della maliarda, stirpe dell’adulterio e della prostituzione, figli illegittimi, prole bastarda”. Si evocano i culti cananei della fertilità con le loro liturgie orgiastiche nei boschi sacri (“voi che vi eccitate fra i terebinti, sotto ogni albero verdeggiante”), con l’immolazione dei bambini, con le stele rituali, con le libagioni, con i santuari sui monti. Il popolo immerso in questa orgia religiosa, non si preoccupa più di Dio, non ha rimorsi e sussulti di coscienza.
Vorrei farvi notare due cose: anzitutto, la forte sottolineatura dell’aspetto sessuale serviva al profeta per descrivere il tradimento di Israele nei confronti dell’amore nuziale di Dio.  Seconda cosa: ho parlato di orgia religiosa. Le orge avvenivano durante i culti sacri. E questo sta a indicare una religione che, anche qui, attraverso il sesso, rivela la propria bestemmia verso un Dio oggetto di perversione umana.
Poi si passa, è il brano di oggi, al tema della salvezza. Il profeta non si limita a denunciare, ma apre alla speranza. Dio punisce, ma poi apre il cuore alla misericordia. Bella l’espressione: “Dio non fa lite in eterno”! Non vuole, per sempre, mantenere il broncio. Ma a un patto: che il popolo capisca i propri errori e torni sulla retta strada.
Non basta, dice il profeta, l’osservanza puramente rituale. Occorre che il culto sia accompagnato dall’impegno, nella vita e nelle scelte morali. E qui c’è un’altra staffilata contro i digiuni ipocriti. Si digiuna, e poi si fanno affari sporchi. Si digiuna, e poi si maltrattano gli operai. Si digiuna, e poi ci si odia per qualche interesse materiale. Il bello arriva adesso, ma il brano scelto della liturgia si ferma. Il profeta chiarisce: il vero digiuno è lottare contro le ingiustizie. Dunque, dice il profeta: il vero atto penitenziale gradito a Dio si manifesta nel vincere le oppressioni sociali, nello spezzare il pane all’affamato, nell’ospitare i senza tetto, nel vestire i miseri, nell’evitare la calunnia e la maldicenza. Solo così il Signore risponde alle nostre preghiere e ci offre la sua luce e i suoi doni.
Vorrei aggiungere che, per fare tutto ciò, noi per primi dovremmo avere la coscienza a posto. In altre parole: non basta fare le cose tanto per farle, ma tutto deve partire da un cuore sincero e pentito. Qui il discorso si farebbe lungo. Mi limito solo a fare una domanda: quanto di serio c’è nelle contestazioni della società moderna? Sono contestazioni che partono da una grande idea di bene comune? In altre parole: che concetto abbiamo di umanesimo?
Nella seconda Lettera ai cristiani di Corinto, San Paolo parla di un mondo esteriore e di un mondo interiore. In altre lettere, parla di “uomo vecchio” e di “uomo nuovo”. Altra immagine è quella della “tenda”: «la nostra dimora terrena è come una tenda». Inoltre, c’è l’immagine dell’”esilio”. Scrive: «Siamo in esilio lontano dal Signore». Qui entreremmo in un campo vasto e affascinante, che è quello della mistica, che affonda le sue radici nella filosofia greca. Non dimentichiamo che San Paolo sta parlando ai cristiani di Corinto.
Riflettiamo. È facile cadere nella tentazione di contrapporre l’anima al corpo, la vita terrena alla vita celeste, cadere nel disprezzo quasi della terra, della politica, delle istituzioni statali ed ecclesiastiche, rifugiandosi in un altro mondo ipotetico o vivendo quasi isolato dalla società. Ma forse la vera domanda è questa: che senso dare a questa vita? Se è così brutto e inutile questo mondo, perché Dio l’avrebbe creato? Che senso ha, altro problema, generare figli per poi renderli infelici? La risposta della fede: “Dio ci ha creati per l’eternità, per una abitazione celeste e definitiva”, che senso ha, quando su questa terra ci giochiamo tutto il nostro futuro, senza renderci conto della posta in gioco, per mille ragioni, tra cui una incapacità direi innata di arrivare a capire il mistero della nostra vita? Eppure dentro ciascuno c’è qualcosa di divino, ma è quasi estraneo alla maggior parte degli esseri umani, che vivono come se fossero fuori di sé, in un mondo del tutto esteriore. È sempre stimolante leggere ciò che scrive Dante nella Divina Commedia, Canto ventiseiesimo dell’Inferno, quando parla dell’ultimo viaggio di Ulisse. Ulisse non vuole tornare subito in patria, ma decide, con i suoi compagni di viaggio, di superare le famose Colonne d’Ercole, lo Stretto di Gibilterra, oltre le quali nessuno era mai andato. Così Ulisse incita i suoi: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti, /ma per seguir virtute e canoscenza ». Considerate la vostra origine: non siete nati per vivere come bruti (come animali), ma per praticare la virtù e apprendere la conoscenza. Parole diventate famose, ma che forse non fanno ancora riflettere come dovrebbero.
Il Vangelo di oggi è la pagina delle tentazioni. Anche qui, non voglio ripetermi. Dico solo una cosa, su cui tutti gli studiosi concordano. In quaranta giorni, numero del resto già simbolico, sono concentrate le tentazioni a cui Cristo, spinto dallo Spirito, fu sottoposto. Gli stessi evangelisti evidenziano la continua tentazione presente nel ministero pubblico di Cristo. In questo senso, è davvero interessante l’annotazione che fa Luca, subito dopo il racconto delle tentazioni: «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato». Che significa “momento fissato”? Il momento culmine sarà la Passione, che l’Evangelista chiamerà «il potere delle tenebre» (22,53). Possiamo dire, usando l’espressione di un esegeta, che il racconto delle tentazioni è «un vangelo in miniatura, nel quale sono drammatizzate le scelte fondamentali di Gesù» (R. Fabris).
Guai se la nostra vita non fosse soggetta alle tentazioni! La tentazione non è di per sé un peccato, ma una prova che ci fa maturare. Cristo stesso è stato tentato, non solo da satana, ma anche dal Padre. Tutto è tentazione, in particolare la vita moderna, che offre di tutto. Si tratta di scegliere il giusto, l’essenziale. Sempre Ulisse, mentre finalmente sta tornando nella sua patria, Itaca, dovendo passare vicino all’Isola delle Sirene, ordina ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera, mentre lui stesso si fa legare a un albero della nave.
Credo che la cosa migliore sia esercitare in pieno la nostra libertà, il che significa: affrontare le situazioni più pericolose, trasformandole in occasioni di crescita.

 

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