Omelie 2012 di don Giorgio: Quarta domenica dopo il Martirio di S. Giovanni Battista

23 settembre 2012: Quarta dopo il martirio di san Giovanni

1Re 19,4-8; 1Cor 11,23-26; Gv 6,41-51

Diciamo subito che tutti e tre i brani della Messa possono essere letti in chiave eucaristica, ovvero in riferimento all’eucaristia. Il brano di san Paolo è esplicito: riprende la narrazione della istituzione evangelica dell’eucaristia, alla luce del Mistero pasquale. Il Vangelo riporta una parte del lungo discorso sul “pane della vita”, tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Poco prima aveva compiuto la moltiplicazione dei pani. L’evangelista Giovanni non ci ha narrato l’istituzione eucaristica, tuttavia ha dato un’enorme importanza al miracolo dei pani, e al discorso sul pane della vita che ne è seguito. La manna e il cibo di Elia (vedi il primo brano) vengono letti come segni anticipatori del vero pane di vita, che è l’eucaristia.
Detto questo, non penso che siamo obbligati a leggere il primo brano in senso strettamente eucaristico. Vediamo anzitutto di inquadrarlo. Il profeta Elia è in fuga, nel deserto di Giuda. Lo cerca a morte Gezabele, la perfida regina del culto idolatra, che vuole vendicarsi per la sfida umiliante che il profeta dell’unico Dio ha inflitto ai profeti di Baal, dio della fertilità che la regina aveva introdotto in Israele, consenziente l’impavido marito, il re Acab.
Dunque, Elia deve fuggire, lontano, nel deserto. Si sente braccato dai potenti che lo vorrebbero eliminare, proprio perché è un uomo libero, dice la verità, umilia le divinità solo apparenti, si oppone alle pretese del potere di soggiogare il popolo propinandogli false divinità, idoli di cartapesta. Ma succede che, per sfuggire alla morte, va incontro lui stesso alla morte. La invoca, preso da una disperazione che non ci saremmo aspettati proprio da lui, il profeta duro, che aveva sfidato, ironizzandoli, 450 profeti di Baal. «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri».
Abbiamo un’idea sbagliata dei profeti di Dio o di quegli uomini giusti che lottano per un mondo migliore. Li crediamo forti, di una tempra d’acciaio, sempre pronti a lottare appena si alzano dal letto, privi di dubbi o di ripensamenti, sempre decisi, determinati, con le idee chiare, con le convinzioni di ferro. Ma non è così. È morto il cardinale Carlo Maria Martini, e tutti o quasi a elogiarlo nella sua infaticabile missione profetica, come se non avesse mai avuto dubbi o perplessità anche di fede, come se non avesse mai provato momenti di sconforto o di solitudine, come se non avesse mai provato il silenzio di Dio. Negli scritti dei grandi mistici troviamo la cosiddetta aridità spirituale: quel non sentire più nulla di ciò che è sacro o divino, che succede quando i sensi sembrano spegnersi del tutto, quando non si provano più sentimenti umani, quando le soddisfazioni spirituali diventano addirittura tentazioni. Sta qui la grandezza dell’uomo di Dio, del profeta, del giusto. Lottare, nonostante le prove, nonostante le incomprensioni, nonostante gli ostacoli, nonostante l’abbandono stesso di Dio. Arriva il momento in cui si è soli. Soli con se stessi. Abbandonati da tutto e da tutti. E ciò succede dopo momenti di grande soddisfazione per una vittoria ottenuta. Così come è successo per il profeta Elia, che aveva sconfitto i profeti di Baal. Poi, la fuga. Poi la solitudine. Poi la disperazione. Poi la volontà di morire.
E la se la prende proprio con quel Dio che aveva difeso sul monte Carmelo, sfidando le altre divinità. Perché ora il suo Dio lo abbandona? Sfida lui pure: “Ora basta, Signore!”. E invoca la morte.
Tornando al cardinale Carlo Maria Martini (cito un esempio, ma ne potrei fare altri mille), è vero che ha fatto quello che ha fatto, è vero che è stato un grande cardinale, è vero che ha lasciato un segno profondo nella storia della diocesi milanese e della Chiesa universale; è vero che ha capito i lontani, è vero che ha visto lontano, è vero che, usando un’espressione che è andata a ruba nei giorni della sua morte, non è stato un anti papa, ma un ante papa. Che significa? “Anti” vuol dire contro, “ante” vuol dire uno che viene prima, da dietro, dalle retrovie, per illuminare chi sta in prima fila, lo stesso papa eletto, anche correndo il rischio di sembrare un antagonista, anche correndo il rischio di sembrare non un Ante-Papa ma un Anti-Papa. Così è stato Martini.
Ciò tuttavia, fino alla sua morte, non gli ha tolto i dubbi, le perplessità di una Chiesa vecchia di duecento anni, come lui stesso ha rivelato nella sua ultima intervista apparsa sul Corriere della Sera. Fino all’ultimo, ha provato amarezza, si è sfogato per dire quanto soffrisse nel vedere una Chiesa lontana dai suoi sogni profetici. Testuali sue parole: «La Chiesa è stanca, nell'Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l'apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi… Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell'istituzione». E ancora: «Padre Karl Rahner usava volentieri l'immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell'amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque». Alla fine Martini dice: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?».
Anche Martini ha provato lo stesso sconforto del profeta Elia? Certo, due profeti completamente diversi, anche perché il contesto storico e ambientale è completamente diverso. Ma ciò che li accomuna è lo spirito profetico di chi parla in nome di Dio. Ma se Dio a un certo punto tace, che cosa succede? Elia ha invocato la morte, Carlo Maria Martini ha lasciato la diocesi milanese. Arriva il momento in cui anche il profeta dice: Ora mi fermo! La mia missione è finita! Signore, prendi la mia vita!
Ma la missione continua, su altri fronti. In altri campi. Con altri metodi. Il profeta va oltre il suo impegno momentaneo. Dio lo prova cambiando addirittura le sue abitudini, le sue lotte, i suoi nemici. Arriva il momento in cui anche il profeta si deve convertire: cambiare marcia, cambiare rotta. Deve sempre puntare al meglio. E per fare questo Dio lo manda nel deserto. Lontano dai legami di una società che, volere o no, frena, condiziona. Ora c’è “questo” nemico da combattere, domani ce ne sarà un altro, completamente diverso. Bisogna lottare sempre, contro tutto ciò che rende schiavo l’essere umano. E la schiavitù non è legata solo ad un personaggio storico del momento che ne combina di tutti i colori. Oggi da combattere è “questo”, domani sarà un altro. La profezia va oltre determinati  personaggi storici. Da combattere è il potere che sta dietro a questi personaggi. Il potere non si lega ad un solo personaggio. Discorso un po’ complesso, ma da fare.
Certe crisi, come quella che ha sofferto il profeta Elia, come quelle che hanno sofferto tutti i profeti o gli uomini di Dio, hanno lo scopo di purificare, di andare oltre determinati contrasti: Elia, braccato da Gezabele, fugge nel deserto, ma proprio qui incontra l’amarezza più sconsolante della sua vita. Ma Dio non lo abbandona. «Alzati, mangia!». Elia mangia, e di nuovo si corica in attesa di morire. Ma per la seconda volta l’angelo del Signore lo invita a nutrirsi: «Alzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino!”. Elia si alza, mangia e beve l’acqua. E così, dopo quaranta giorni e quaranta notti (numeri chiaramente simbolici) raggiunge il monte di Dio, l’Oreb.
Anche se la Chiesa ha letto questo episodio in un’ottica diciamo eucaristica: iIl cibo di Elia anticipa ciò che sarà poi il pane eucaristico, le riflessioni che ne scaturiscono sono numerose. La prima, quella più immediata, è questa: la nostra vita è come un deserto, e il deserto già per gli ebrei era il luogo delle prove, delle tentazioni, degli ostacoli. Il cibo e l’acqua servono per raggiungere la meta. E qual è il cibo più efficace se non l’eucaristia? Certamente. Ma non penavo che Elia andasse a Messa e facesse la Comunione. Il suo cibo era anzitutto la parola di Dio. Del resto, la Messa è divisa in due parti: la prima è la mensa della Parola, indispensabile per accostarsi poi alla mensa eucaristica. E su questo aspetto, ovvero sulla importanza della Parola di Dio, il cardinale Carlo Maria Martini potrebbe insegnarci ancora moltissimo. La Parola: già Lutero l’avevo riscoperta. Ma non è stato ascoltato. La Parola: deve essere anzitutto compresa. Tradotta nella lingua di ciascuno. S’incarna nella nostra mente, nel nostro cuore, nella nostra vita. La parola poi si fa pane. Si fa cibo. Quello sostanziale. Quello che nutre lo spirito. “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Così Gesù risponde, nella prima tentazione, al demonio che lo aveva provocato invitandolo a trasformare le pietre in pane. Provate a dire all’uomo moderno in piena crisi economica che “non di solo pane vive l’uomo”. Vi riderà in faccia. Si ribellerà. Accuserà la Chiesa di essere insensibile, lontana dalle vere problematiche sociali. Però nessuno si chiede se magari, proprio per vivere solo di pane, la società non funziona, non esce dalle sue spirali di odio, di quell’egoismo di fondo che è la vera causa di ogni ingiustizia sociale. 

2 Commenti

  1. Luciano ha detto:

    Grazie don Giorgio. Anche a me ha colpito molto Elia nella sua umanità fragile. Ha chiesto si la morte a Dio, però poi ha cercato di adempiere alla Sua volontà, riprendendo il cammino verso il monte Oreb. Questo mi consola perchè anche quest’uomo, così pure il cardinale Martini, hanno vissuto con Fede la loro chiamata, pur avendo anche a che fare con l’inconprensione e l’amarezza di una realtà che, come ai giorni nostri, si è allontanata dall’essenzialità del Vangelo. Sono troppi gli sfarzi, i privilegi e le inutili liturgie che non rendono visibile il Messaggio Evangelico e che pare costruire una triste involuzione del cristianesimo, riducendolo a una mera religione incolore, insapore e inodore. Peròio credo che Cristo è Vivo ed abita in noi e con noi. Per questo le fiamme degli inferi non prevarranno sulla Chiesa di Cristo, nonstante i fal si profeti attuali. Buona Domenica.

  2. lina ha detto:

    Sono certa che ogni nostra azione buona o cattiva si ripercuote anche sugli altri. Credo che la notte oscura che colpisce i profeti ed anche altri credenti, e la loro vittoria in questa lotta, vittoria dovuta al fatto che nonostante essi vivano l’esperienza tragica dell’abbandono di Dio continuano comunque ad operare secondo i Suoi insegnamenti, porta frutti copiosi che non siamo in grado di percepire. Essi partecipando alla passione di Cristo, lottano anche per coloro che, più deboli, soccombono alle tentazioni,

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