Un tale mi disse: “Sei o no un prete?…”

di don Giorgio De Capitani
Un tale mi disse:
«Sei o no un prete? Non puoi allora odiare nessuno. Devi solo perdonare, rassegnarti, obbedire alla misericordia divina. Devi fartene una ragione. Il male c’è; non puoi pretendere di abbatterlo nelle sue radici. Con un po’ di buon senso ci si può accomodare, per trovare un modus vivendi che possa accontentare tutti. Vuoi proprio lottare contro le ingiustizie e lo strapotere terreno? Vuoi proprio alzare la voce contro una barbarie, che sta dilagando tra la massa anche dei credenti? Vuoi anche contestare una Chiesa istituzionale, succube del proprio ripiegarsi al dio mammona? Vuoi tutto questo? E allora fingi! E così potrai salvarti la faccia. Fingi di essere arrabbiato, e poi stringi pure la mano anche del razzista, se questo ti potrà servire a tenere il piede in due scarpe, per farti servire da un gregge di pecoroni, sempre utili comunque per mandare avanti la baracca, con tanto di cucina, di folclore, di sport, di divertimento. Vuoi essere coerente fino in  fondo, pretendendo dalla tua gente una radicale coerenza di fede? Rimarrai solo!  E, da solo, come potrai condurre una parrocchia? Non sai che i cosiddetti giusti amano crogiolarsi nella loro purità legale, per evitare di contaminarsi con la carnalità sociale? Non sai che i cosiddetti santi sono coloro che preferiscono starsene “separati” nel loro buco di perfezionismo interiore, e se ne guardano bene dall’immischiarsi in faccende terrene? Non puoi non allearti con qualcuno, anche perché la maggior parte della gente vive di esteriorità, e, senza il corpo che interagisce con una società di corpi, si rimane tagliati fuori. Sei un prete, e come tale hai il dovere di vivere in mezzo alla tua gente, che è esistenzialmente alienata. Se vuoi fare il giusto, il santo e il perfetto, allora devi lasciare il tuo ministero: non è fatto per te! Il prete è al servizio del regno di Dio, che è composto anche di terra, di cibo, di lavoro, di casa: certo, non è tutto qui, c’è anche l’anima, ma l’anima va coltivata a parte, con una serie di sacramentalismi che benedicono o consacrano scelte strettamente religiose o usi e costumi, che la società esige per auto-consolidarsi. Se tu, prete, pensi troppo al regno dello spirito, allora fàtti monaco! Non puoi assumerti responsabilità pastorali. O prete di parrocchia o monaco: non hai altra scelta. Se esageri nell’educare la gente all’essenziale, rischi troppo: tradiresti la tua vocazione pastorale. Se parli più di Spirito che di religione o di strutture ecclesiastiche, rischi ancora di più: saresti sull’orlo della eresia. E allora, deciditi! Sì, deciditi, santiddio! Non puoi vivere da prete, con addosso il saio monacale! Il monaco vive di pura contemplazione divina, vive di Mistica, ma la gente è là, fuori, che aspetta il prete che faccia il prete, mangiato dai “suoi, e anche digerito fino a farsi carne nella carne. È così! Se fai l’eremita, magari qualcuno potrà anche ringraziarti, se spenderai un po’ del tuo tempo da monaco a intercedere per lui, perché il Signore condoni anche le bestemmie più gravi e perfino quel peccato contro lo Spirito santo, che Cristo ha stigmatizzato come imperdonabile. In fondo, i monasteri fanno da parafulmini, anche per i peccati commessi dai ministri della Chiesa. E il prete, sicuro di essere protetto, si butta ancor più nella mischia, dove il maggior male e il minor male si scannano per contendersi più anime possibili. No, il prete non arriverà mai al punto di proporre il maggior male, ma il minor male, sì. Forse che nel campo pastorale il prete conosce un’altra scelta? La Chiesa non ha forse inventato i confessionali, per sentirsi “mediatrice” tra i peccatori e la misericordia divina? Quando capitò che i peccati fossero troppo pochi e non c’era più posto per tutti i preti per confessare i penitenti, allora la gerarchia trovò il sistema di allungare la lista dei peccati, anche per evitare che i preti rimanessero disoccupati. È così. Tu sei prete, per restringere da una parte la morale allo scopo di sentirti utile come mediatore del perdono di Dio, tuonando dal pulpito contro gli immortali, e dall’altra parte per allargare la morale, per non perdere tutte le anime, rischiando di restare solo o quasi nell’ovile di Cristo. Sì, caro prete, devi stare nel mezzo, chiudendo un occhio e anche due, quando ti fa comodo, per avere attorno numerosi collaboratori. Non ti invidio. Oggi è difficile fare il prete. Proprio per facilitare tale compito, si concede al prete più vita comoda, un decente stipendio, un posto assicurato, una dignitosa casa.  Caro don Giorgio, sei uno spostato. Rientra in riga, o ti rovinerai la vita, con il rischio di perdere anche il paradiso, con qualche anatema della Chiesa».
Risposi:
«Tengo solo alla mia coscienza, e al mio Spirito! Gli esseri umani mi interessano, certamente, ma non per servirli nelle loro alienazioni. Resterò solo? È un rischio che ho messo in conto. Le folle mi fanno paura, ma non per questo tralascio il mo dovere di gridare la verità di Dio a tutti. Solo i vigliacchi si disperdono nell’anonimato. Anche la Chiesa ama le folle oceaniche, si gode lo spettacolo dell’anonimato, ed è qui che si è giocata la sua anima!».
Quel tizio se ne andò, per nulla convinto della mia risposta. In lui c’era la folla. Le mie parole scivolarono via, come su una lastra di ghiaccio.

3 Commenti

  1. don ha detto:

    Condivido la tua riflessione, soprattutto sull’ambiguità delle folle che applaudono e osannano …. aggiungo che lo facevano con il duce e lo fanno con l’attuale Papa! Ma l’applauso è ambiguo e segno di superficialità. Su questo non possiamo fondare il nostro ministero

  2. Enrico ha detto:

    Don Giorgio, non c’è nulla di più rivoluzionario del Vangelo. Non è e non sarà mai solo. Avrà vicino e potrà contare sulle persone che sanno che il Vangelo è agire e adoperarsi perché accada qui e ora sulla terra. Con stima.

  3. Giuseppe ha detto:

    Ho sempre frequentato la parrocchia, sarà anche perché era a due passi dalla nostra abitazione, o perché la fede semplice e sincera di mia madre, rasentava il bigottismo. A poco più di quattro anni frequentavo già l’azione cattolica e facevo il chierichetto (o come si dice oggi ministrante) e mi capitava anche di spostare il voluminoso messale dal “cornu epistolae” al “cornu evangelii”. Conoscevo a memoria l’intera messa in latino, anche se non capivo il significato della maggior parte di quello che ripetevo. Per di più mia madre, che avrebbe voluto tanto vedermi prete mi faceva dire una preghiera a questo scopo, ma le sue aspirazioni sono andate deluse; del resto ci aveva già provato con i miei quattro fratelli maggiori, sempre senza successo.
    A quel tempo, negli anni cinquanta, la nostra società era molto più bacchettona: la paura del peccato influenzava ogni aspetto della nostra vita alimentando i noi i già naturali sensi di colpa, mentre alcune tradizioni religiose e devozioni particolari avevano assunto quasi una forma scaramantica. Il Concilio era ancora di là da venire e nella considerazione della gente la Chiesa cattolica aveva un posto di riguardo che in qualche modo incuteva rispetto e timore. Il prete era un punto di riferimento fondamentale e veniva visto come un precettore, un maestro di vita di una dimensione superiore alla nostra povera umanità, figuriamoci i vescovi, i cardinali e il papa.
    Ci sono voluti papa Giovanni e Paolo VI per rendere la chiesa più umana e vicina alla gente. Per farci capire che il prete è prima di tutto un uomo come noi, che prendere i voti sacramentali non significa avere la garanzia della santità e che una celebrazione eucaristica non ha bisogno necessariamente di una basilica sontuosa, dei candelabri e… del campanello…
    Certo il sacerdozio è una cosa estremamente seria, ma non deve impedire a chi l’abbraccia di esprimere la propria opinione e di agire come ritiene più opportuno. Gesù Cristo nell’affidare la sua missione agli apostoli era perfettamente consapevole delle loro debolezze e fragilità e non li ha certo scelti perché fossero tutti uguali e perfetti come degli automi.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*