Omelie 2021 di don Giorgio: PRIMA DOPO LA DEDICAZIONE

24 ottobre 2021: PRIMA DOPO LA DEDICAZIONE
At 8,26-39; 1Tm 2,1-5; Mc 16,14b-20
Una strada “deserta”
Partiamo dal primo brano: narra un episodio che è contenuto nel libro “Atti degli apostoli”, scritto da Luca, autore anche del terzo Vangelo.
L’apostolo Filippo è invitato da un angelo ad andare sulla strada tra Gerusalemme e Gaza: una strada, che è “deserta”. L’angelo non aggiunge altro. Se la strada è deserta, vuol dire che non c’è nessuno. Che senso allora andarci? A fare che cosa?
Filippo non ci pensa: si fida delle parole di Dio. Si incammina. Sa che succederà qualcosa.
Quanto siamo scontati e prevedibili noi credenti! Facciamo se vediamo una certa logica. Paradossalmente ci fidiamo di populisti o imbonitori che promettono senza mantenere secondo la logica dell’inganno, e non ci fidiamo di Dio che per la sua stessa natura (è la Verità) mantiene sempre ciò che promette, anche se ci chiede talora qualcosa di umanamente impossibile.
Ci promette: “Quel deserto fiorirà, proprio perché lo vedi come un deserto”! E noi lo riteniamo un pazzo!
Una strada “deserta”: basterebbe già questo per fare qualche riflessione sull’apostolato di una Chiesa istituzionale che cerca sempre la massa.
La Chiesa esce e va là dove c’è la folla, a cui essa pretende di annunciare un messaggio che, esigendo una concentrazione interiore, scivola via sulla superficie fatta di pura pelle.
Cristo non ha mai rincorso le masse. Aveva compassione, questo sì, delle folle senza pastore.
Le folle sono una massa alla mercé di se stessa, proprio perché manca un buon pastore, che, essendo buono, ovvero puntando al Bene Sommo, non si limita a guidare una massa, come se nella massa si scoprisse il Progetto divino.
Cristo alla fine sarà abbandonato e tradito dalle stesse folle, che lo avevano cercato per i suoi gesti miracolosi, senza vederci un segno del Mistero divino.
La massa cerca sempre qualcosa di carnale. Le folle corrono là dove c’è un taumaturgo generoso nel compiere miracoli, che possono dare qualcosa di esteriore.
Oggi la Chiesa lascia il deserto, o il vuoto di una massa per andare nelle periferie, dove le masse sono concentrate alla ricerca di qualche speranza di sopravvivenza. Qui il mondo politico ha le sue forti responsabilità, nel non sapere gestire una convivenza umana, che è anzitutto integrazione sociale.
Ma la Chiesa, uscendo dal centro per andare nelle periferie che cosa porta? Solo la solita parola di conforto, come un confetto per addolcire l’amaro in bocca?
La Chiesa lascia il deserto per andare in un altro deserto, certo popolato da gente che cerca solo qualcosa di materiale. E allora che cosa dare a questa gente alienata?
Qualcosa di forte, di fortemente provocatorio, nel campo dell’essere, e non dell’avere!
Ed è istintivo per me pensare al deserto che si abbandona come a quel cosa di profondo, che è dentro di noi, per uscire in periferia, ovvero fuori di noi. Ed è fuori di noi che incontriamo una massa alienata, che, proprio perché alienata, ovvero che è fuori, avrebbe bisogno non di pastori alienati, ma di pastori “contemplativi” dell’Assoluto.
Già dire “contemplativo” è far intuire quella realtà essenziale, che richiede il deserto dentro di noi.
“… si facciano… preghiere… per tutti quelli che stanno al potere”
Nel breve brano della lettera che l’apostolo Paolo ha scritto a Timoteo, troviamo una raccomandazione, affinché si facciano «suppliche per tutti quelli che stanno al potere».
Un esegeta ha commentato: «Questa richiesta ci sembra, forse, di questi tempi, particolarmente stonata, per l’idea, generalmente negativa, che abbiamo della politica. Per Paolo, però, chi è al potere, chiunque esso sia, non è mai “un uomo solo al comando”, ma si tratta di una persona che è chiamata ad un servizio, per il bene di tutti. Non solo: sulla base della bontà (o meno) di questo servizio, sarà giudicata».
Fin dall’inizio del cristianesimo era usanza, durante le assemblee liturgiche, pregare anche per coloro che esercitavano un certo potere nel campo politico.
Il Venerdì santo, prima di concludere la celebrazione della morte del Signore, la liturgia ci invita a elevare a Dio la cosiddetta Preghiera universale: universale perché ci sono diverse intenzioni per cui pregare. Una di queste riguarda i governanti.
Il lettore invita: «Preghiamo per coloro che sono chiamati a governare la comunità civile, perché il Signore Dio nostro illumini la loro mente e il loro cuore a cercare il bene comune nella vera libertà e nella vera pace».
Il Sacerdote, dopo un attimo di silenzio, così prega:
«Dio onnipotente ed eterno, nelle tue mani sono le speranze degli uomini e i diritti di ogni popolo: assisti con la tua sapienza coloro che ci governano, perché, con il tuo aiuto, promuovano su tutta la terra una pace duratura, il progresso sociale e la libertà religiosa».
San Paolo scrive: «… perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio. Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità».
Qualcuno dirà che sarebbe forse meglio pregare perché i governanti agiscano per la giustizia sociale. Questione di intenderci sulle parole: dire bene, dire giustizia, dire pace, dire verità sono la stessa cosa, quando del bene, della giustizia, della pace e della verità abbiamo una concezione così unitaria da includere tutte in quel Bene, che è il Sommo o Assoluto Bene.
Dire giustizia sociale, di cui anche parlano i Documenti cosiddetti sociali della Chiesa, non deve portare a vedere il mondo o la storia in senso puramente orizzontale, e tanto meno governare il bene comune in senso carnale.
Non solo i credenti, anche gli uomini di potere non possono, non devono dimenticare che siamo fatti anzitutto di spirito. È assurdo distinguere lo spirito dalla materia, e dire: lo spirito spetta alla Chiesa, la materia spetta allo stato. La politica dell’avere sarà sempre fallimentare e porterà alla rovina gli esseri umani.
Dire spiritualità non significa dire religiosità. La religione non è qualcosa che compete di per sé allo Stato, ma l’essere umano in quanto spirito sì. Noi siamo anzitutto spirito, e lo Stato non lo può dimenticare. E la cosa assurda è che a dimenticarlo è proprio la Chiesa.

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