Omelie 2013 di don Giorgio: Seconda domenica di Avvento

24 novembre 2013: Seconda di Avvento

Bar 4,36-5,9; Rm 15,1-13; Lc 3,1-18

Durante l’Avvento, in preparazione al Mistero natalizio, la Liturgia ci propone quei brani delle Sacre Scritture che possono meglio aiutarci ad accogliere ancora una volta, anche quest’anno, la Bella Notizia, purificando anzitutto la mente da ogni inutile distrazione e da affanni troppo terreni. Dalla mente si passa di conseguenza al comportamento.

È chiaro che, se si hanno idee confuse, anche il proprio agire ne risentirà, cioè sarà dettato dalle idee confuse: tuttavia, non è a dire che la chiarezza delle idee basti perché ci comportiamo di conseguenza in modo coerente. L’incoerenza sta proprio qui: nel divario tra il pensiero e l’azione. Io penso in un modo, e poi agisco al contrario. Più la verità mi illumina, più sento l’esigenza di comportami di conseguenza. Sarebbe troppo comodo accontentarci del poco che sappiamo, per evitare di complicarci la vita. Meno so, e più mi sento tranquillo, anche se la mia vita è piatta come la mia mente. Ci sono stati poeti, scrittori e filosofi che hanno affermato che la conoscenza ci rende infelici. Più sappiamo, più soffriamo. La gente comune in pratica si comporta così: preferisce non approfondire troppo la realtà, per soffrire di meno, vivendo perciò senza crearsi troppi problemi di coscienza.

Vorrei precisare meglio che cosa intendo per coerenza. A noi sembra di essere incoerenti, quando cambiamo idea su di una cosa o di una verità. Ma la coerenza non va vista nel suo aspetto statico, ma dinamico. Coerenza non significa che devo sempre rimanere con le mie convinzioni, senza fare un passo ulteriore. Se cambio idea, non per opportunismo, ma perché ho approfondito la verità, oppure perché mi sono accorto che prima ero in errore, allora anche la mia coerenza di vita cambia, perché devo far corrispondere il mio modo di vita alla nuova idea o alla verità che ho approfondito. Ecco in che senso la coerenza è dinamica: è in continua evoluzione, se è vero che sono sempre alla ricerca della verità. Non devo dire: per essere coerente, allora non cambio mai idea, se cambiare idea significa cogliere la Novità. In breve: la coerenza va di pari passo con la conoscenza della verità, e perciò nel mio comportamento mi devo adeguare. Per cui: sono coerente in rapporto al mio convincimento attuale, e non a quello passato. Allora ero coerente in un certo modo, ora lo sono in un altro. Si tratta sempre di coerenza.

Questo periodo di Avvento è chiamato “forte” dalla Liturgia, proprio perché dovrebbe risvegliare la nostra coscienza, ma la nostra coscienza si risveglia soprattutto dietro la conoscenza della verità. Se mi risveglio dal mio stato comatoso, ma ancora con la mente confusa o annebbiata, a che servirebbe? Non entro in ulteriori discussioni di tipo filosofico o mistico: la verità è già dentro di noi, almeno in parte, oppure, quando nasciamo, siamo come tabula rasa, come una lavagna pulita su cui man mano scrivere qualcosa di vero? Io penso che nasciamo con già dentro la sete d’Infinito, penso che abbiamo già dentro di noi l’immagine del Divino. Non siamo stati creati, come dice la Genesi, “a immagine e somiglianza di Dio”? Che significa? È importante dire queste cose, perché non è questione di essere più o meno laureati, di conoscere sempre più cose, ma il problema vero sta nel creare continuamente occasioni per risvegliare in noi le verità che giacciono dentro di noi come assopite.

L’occasione è l’Avvento, l’occasione è l’ascolto della Parola di Dio, l’occasione anche la lettura di un buon libro, l’occasione è l’incontro magari casuale con una persona eccezionale, l’occasione è la Natura, l’occasione per lo studente è la scuola, ecc. La nostra colpa è quella di sciupare quelle occasioni capaci di risvegliare la coscienza, per toglierla da una specie di assopimento. Quando diciamo: quella omelia mi ha provocato, diciamo una cosa positiva. Quell’omelia mi ha risvegliato, mi ha dato la possibilità di togliere qualche velo dalla mia coscienza assopita. Le solite talora banali e scontate omelie a che servono? Tutti quanti siamo predisposti alla verità: si tratta di eliminare i pregiudizi, gli ostacoli, le pigrizie, le nostre costruzioni mentali. La verità non entra ex-novo dal di fuori, si tratta invece di risvegliarla perché l’abbiamo già dentro di noi. Che significa l’esortazione: “Conosci te stesso”, motto greco iscritto sul tempio dell’Oracolo di Delfi? Conosci te stesso!

Sapete qual è la mia preoccupazione, diciamo la mia sofferenza, diciamo la mia rabbia? È constatare con quanta superficialità noi educhiamo i ragazzi, lasciandoli con tanta indifferenza e altrettanta colpevolezza nel loro stato amorfo, quando basterebbe poco: abituarli a sfruttare ogni occasione per risvegliare in loro la consapevolezza di ciò che sono. La parola “e-ducare” che cosa significa? “Ducare” deriva dal latino e vuol dire “condurre”, “trarre”; il prefisso e- deriva dal latino “ex” e vuol dire “fuori da”. Dunque, educare significa aiutare il bambino a tirar fuori dal proprio sé le energie migliori. Un bravo educatore non offre nulla di suo al bambino, ma lo aiuta ad essere se stesso.

Passiamo ora a commentare i brani della Messa. Vorrei subito farvi notare una cosa. Sembra che ci sia una divergenza di vedute tra la citazione delle parole di Isaia, riferite all’attività di Giovanni Battista dall’evangelista Luca, e il primo brano, tolto dal libro di Baruc. Isaia e Baruc parlano di una strada da rendere pianeggiante, senza ostacoli, senza avallamenti, senza alture: una strada simile alle vie cosiddette “sacre” o “processionali”, perfettamente rettilinee poste davanti ai templi nell’Antico Vicino Oriente. Mentre per il profeta Isaia è il popolo di Dio a dover rendere pianeggiante la strada, invece per il profeta Baruc è il Signore, che «ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio». Più che le prospettive, diversi sono i contesti storici. Quando il Signore vedeva il suo popolo prostrato dal dolore (pensate ai momenti di prova, all’esilio ecc.), allora era Lui a consolarlo, a fare di tutto perché la strada del ritorno a Gerusalemme fosse facilitata. Ma, quando a tornare era il Signore, perché si era apparentemente allontanato per i continui ostinati tradimenti della sua gente, allora il popolo doveva prima pentirsi, comprendere i suoi errori, fare penitenza. E ad ogni tradimento del suo popolo, Dio chiedeva qualcosa in più. Tornava, ma ad una condizione: che il popolo facesse un passo ulteriore. Ad ogni tradimento dell’Alleanza, doveva corrispondere una maggiore consapevolezza dei propri errori, e delle proprie responsabilità. Vorrei chiarire meglio.

Chi non sbaglia? Tutti sbagliamo. Dio sa benissimo che siamo deboli, fragili, soggetti a mancanze. Sbagliano anche i santi. Il problema sta nella consapevolezza che siamo deboli, e nella volontà di ravvederci, di rimetterci sulla carreggiata, sulla via del ritorno a Dio. Ma questo comporta una continua verifica del nostro modo di agire, un continuo confronto con  Dio stesso, che non rimane sempre identico: è sempre una Novità.

Tornare a Dio non significa tornare al Dio di prima, al Dio che conoscevo prima del peccato: Dio non è mai lo stesso; ogniqualvolta torno, Egli mi rivela un aspetto nuovo. In questo senso, se i peccati o gli sbagli servissero a farci scoprire un Dio sempre nuovo, potremmo dire come sant’Agostino: felix culpa.

Questo concetto di un Dio sempre nuovo, che rinnova perciò il mio modo di credere e di agire, non è molto presente nel popolo di Dio. Il popolo pecca, si allontana da Dio, e poi per lui Dio è sempre identico, quello di prima. Ai cristiani interessa solo il perdono dei loro peccati, non interessa riscoprire un Dio diverso, dopo ogni ritorno a Lui. Se Dio fosse ogniqualvolta diverso, diciamo più nuovo, capiremmo che anche i peccati, le nostre mancanze assumerebbero un aspetto diverso. Non andremmo a confessare le solite cose: capiremmo che ci sono mancanze finora ignorate. È senz’altro consolante sapere che Dio è la tenerezza, come sta insistendo anche Papa Francesco. Ma non basta dire che Dio è misericordioso. Sì, Dio perdona, ma ci chiede un passo ulteriore. Il problema non è neppure: cercherò di essere migliore, di fare le cose con più amore o con più dedizione, o con più fede, restando però nei soliti schemi religiosi. Il problema è il mio rapporto con Dio: Dio si rivela, ogni giorno che passa, con un volto nuovo. Allora i dubbi che ho del “mio” Dio, a cui ci tengo per tradizione, non sono peccati, tutt’altro: peccati sono invece le mie certezze, le mie abitudini di fede, peccato è tenere sempre lo stesso Dio di prima. Potrebbe sembrare paradossale: quando commetto qualche mancanza, per prima cosa dovrebbe venir meno la certezza sul mio Dio. Ad ogni pentimento sincero, dovrebbero sorgere nuovi dubbi, e i dubbi dovrebbero portare a scoprire un volto diverso di Dio.

Così, il nostro impegno in questo Avvento in preparazione al Mistero natalizio in che cosa consiste? Nel ripetere, anche quest’anno, le solite preghiere, le solite attese, magari con più intensità o anche con più fede? La nostra preghiera dovrebbe essere più o meno questa: fa’, o Signore, che il prossimo Natale sia una nuova scoperta del tuo Mistero. Cambierò in meglio, se scoprirò che Tu sei Altro. Altro dal “mio” dio, altro dal dio di una religione che lo ha imprigionato e ingessato. Per dirla con parole più teologiche: il mio impegno in questi giorni non sarà solo di carattere morale, non riguarderà solo il mio comportamento, ma dovrà essere di accoglienza alla Sorpresa. Sono disposto a scoprire qualcosa di Nuovo del Volto di Dio? Questa è la cosa importante. Tutto il resto ne verrà di conseguenza.    

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