Omelie 2018 di don Giorgio: SECONDA DI AVVENTO

25 novembre 2018: SECONDA DI AVVENTO
Is 19,18-24; Ef 3,8-13; Mc 1,1-8
Nel terzo brano della Messa di questa seconda domenica di Avvento – sono i primi otto versetti con cui Marco dà inizio al suo Vangelo – troviamo due parole che possono aiutarci a riflettere in questo periodo di preparazione al Mistero natalizio.
Deserto
Anzitutto, incontriamo la parola “deserto”. Etimologicamente significa: luogo abbandonato, solitario, trascurato. Nella Bibbia il deserto assume significati diversi. Al di là del suo aspetto fisico o, meglio, proprio per il suo aspetto fisico, il deserto è il luogo della rivelazione, della prova e della purificazione. Non mi posso soffermare sui numerosi episodi che hanno come protagonista il deserto. Basterebbe pensare al deserto che il popolo ebraico ha dovuto attraversare durante il cammino verso la Terra Promessa. Basterebbe pensare al profeta Elia: proprio nel deserto incontra la presenza di Dio al passare di una brezza leggerissima. Basterebbe pensare ai quaranta giorni di Gesù nel deserto. Basterebbe pensare ai luoghi solitari scelti dai primi anacoreti, eremiti, monaci cristiani.
Soffermiamoci al brano di oggi. Giovanni il Precursore va nel deserto, ma non per fare una vita eremitica, ma per condurvi gli israeliti ad ascoltare la sua parola: la voce di una parola che invita a riprendere il cammino di Dio.
Dal punto di vista della Mistica, che cosa può rappresentare il deserto? Tra le molteplici simbologie, per la Mistica il deserto rappresenta il luogo della essenzialità, del silenzio e della gratuità: nel deserto l’uomo non fa nulla di suo, è nelle mani della provvidenza divina. Il deserto è solo un dono da accogliere. Non c’è nulla di artefatto.
Per i Mistici il deserto è il luogo dello Spirito che soffia dove e come vuole, senza incontrare ostacoli: non ci sono barriere architettoniche di nessun genere.
La parola del Precursore Giovanni, allora, potrebbe sembrare assurda: come si può, in un deserto, raddrizzare i sentieri, preparare una strada per il Signore che viene?
In un deserto-deserto non ci sono di per sé sentieri o strade; se ci sono è perché il deserto è stato in parte contaminato dalla presenza umana.
In senso mistico, il deserto è il luogo senza sentieri e senza strade, poiché lo Spirito segue le sue strade, imprevedibili e sempre nuove. Le traccia con traiettorie sono del tutto misteriose, ma sono le uniche che portano alla libertà interiore.
Il vento anche fisico segue forse strade stabilite dalle leggi umane? Può mutare in intensità da un momento all’altro, e cambiare improvvisamente direzione. Così lo Spirito interiore.
Il deserto, anche in senso fisico, è quanto ci sia di più paradossale, in rapporto al progresso economico. Forse che all’uomo moderno si possa parlare di essenzialità, di radicalità, di gratuità? Queste sono parole che fanno a pugni con quel concetto di progresso, che consiste nell’aggiungere e mai nel togliere, nel ricevere e mai nel dare, nel guadagnare e mai nel perdere, il tutto nel campo dell’avere che rifiuta a priori ciò che appartiene all’essere, visto solo come la chimera o la fissazione di qualche buontempone.
Conversione
L’altra parola che troviamo nel brano di Marco è “conversione”. Pensando alla conversione ci viene facile pensare a quell’intento, tipico di ogni religione, di fare proseliti, ovvero di convertire più gente possibile alla fede nel proprio dio e nella propria struttura religiosa. Non era assolutamente in questo senso che il Precursore invitava i suoi compaesani a convertirsi: la sua missione era quella di scuotere la loro coscienza assopita, in vista di una maggiore consapevolezza del fatto di essere un popolo legato a Dio mediante una speciale Alleanza. Ma di per sé il proselitismo non era molto diffuso tra gli ebrei, anche se ci sono dure parole di condanne da parte di Cristo nei riguardi dell’ipocrisia: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è diventato, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi» (Mt 23,15). Israele era un popolo chiuso, poco propenso ad aprirsi agli estranei.
Ma il proselitismo sarà la caratteristica del cristianesimo, convinto di convertire alla propria causa il mondo intero. Poi arriverà il momento di crisi, quando subirà all’interno, tra i propri seguaci, un arresto di fede. Forse è giunto il momento di chiederci, non come diffondere il cristianesimo, ma come viverlo nella sua autenticità, a partire dall’interno della Chiesa, che sembra aver perso l’anima evangelica.
Ma vorrei allargare il discorso al di là della fede strettamente religiosa. In altre parole, che significa in realtà “conversione”? Do solo qualche  spunto, da approfondire.
Conversione, dal latino “conversio”, significa “volgersi verso qualcuno o qualche cosa”, “cambiare direzione” o “strada”. Nel Nuovo Testamento c’è un termine caratteristico connesso a questo concetto: μετάνοια (dal verbo μετανοέω, “cambio mentalità”). Adesso possiamo anche capire le parole di Giovanni: occorre raddrizzare i propri sentieri.
I Mistici parlano di due “uomini”: quello esteriore e quello interiore, e della necessità che l’uomo esteriore “torni” nell’uomo interiore. Ecco il significato di “conversione”: un’opera di interiorizzazione, di spiritualizzazione.
Altro spunto. Qualcuno parla di fuga, come se, rientrando nel nostro essere, ovvero spiritualizzandoci, fuggissimo dalla realtà del mondo in cui viviamo. Si fugge sì, ma per estraniarci da tutto ciò che è inessenziale, superfluo, per concentrarci nella propria interiorità, e diventare così più presenti a se stessi e poter poi assumere uno sguardo più nitido sul mondo, uno sguardo contemplativo, che significa: vedere le cose come stanno, nella loro realtà, senza farci ingannare dalle apparenze.
Conversione, dunque, significa tornare alle nostre origini da cui proveniamo, ovvero il Sommo Bene, che è Dio, che è Uno, e qui trovare la fonte dell’unificazione e della semplicità, mentre distogliere lo sguardo dall’unico Uno, il Sommo Bene, da cui proveniamo, vorrebbe dire disperderci nel molteplice, frammentarci. Non dimentichiamo che la parola “universo” non significa l’insieme di tutto ciò esiste, ma deriva da uni-verso, ovvero: tutto tende verso l’uno.
Anche la parola “semplicità” andrebbe riscoperta. Per semplicità s’intende la capacità di arrivare all’essenza della realtà, senza girarci attorno complicandoci la vita. Come vedete, tornare in noi stessi, là dove lo spirito è la realtà più semplice, ci rende più lucidi nella mente, nel cuore e nella vita.

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