Omelie 2019 di don Giorgio: S. FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE

27 gennaio 2019: S. FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE
Sir 44,23-45,1a.2-5; Ef 5,33-6,4; Mt 2,19-23
Non c’è confronto!
Ogni ultima domenica di gennaio, la nostra liturgia ambrosiana celebra la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Da qui, siamo passati, diciamo in modo del tutto sbrigativo, a parlare della famiglia umana, prendendo come modello e ideale la stessa famiglia di Nazaret.
La prima orazione della Messa va in questo senso: “O Dio onnipotente, che hai mandato tra noi il tuo unigenito e dilettissimo Figlio a santificare i dolci affetti della famiglia umana e a donare, con la sua immacolata condotta e con le virtù di Maria e di Giuseppe, un modello sublime di vita familiare…”. Lasciamo perdere l’espressione “i dolci affetti” della famiglia umana.
Se c’è una famiglia del tutto eccezionale e unica è proprio quella di Nazaret, che perciò non ha confronto.
Quanto più enfatizziamo la famiglia di Nazaret, tanto più ce ne allontaniamo.
Forse è lo stesso nome “famiglia” a farci cadere nell’equivoco di ritenere che ci sia un qualche rapporto tra la famiglia di Nazaret e la famiglia umana. Non basta tirare in ballo un  sacramento, quello del matrimonio, per superare il divario o l’abisso.
Dunque, non è possibile alcun confronto tra la famiglia di Nazaret e la famiglia umana, anche se fosse la più santa del mondo. Non possiamo, allora, sostenere che la famiglia di Nazaret possa diventare un modello della famiglia umana: dovremmo, in tal caso, disfare in toto l’identità, che è unica, della famiglia di Nazaret.
E allora che cosa dobbiamo intendere per famiglia? Ecco la vera domanda. È una istituzione naturale o sociale, in cui ci sia un padre, una madre e dei figli? Che significa paternità, maternità e figliolanza?
Se pensiamo alla famiglia di Nazaret, cade ogni concezione umana di paternità, maternità e figliolanza. Se pensiamo a ciò che noi riteniamo per padre, madre e figlio, abbiamo qualcosa che è assolutamente lontano dalla famiglia di Nazaret, in cui c’è un padre, Giuseppe, che è solo putativo, mentre il padre reale è lo Spirito santo; in cui c’è una madre, Maria, che ha partorito Gesù in modo del tutto verginale (per opera dello Spirito Santo), e in cui c’è un Figlio unico, del tutto eccezionale, lo stesso Figlio di Dio.
Vi chiedo se sia possibile un confronto o, addirittura, prendere come modello la famiglia di Nazaret.
E allora, lasciando pure la parola “famiglia”, come dobbiamo vedere la famiglia di Nazaret: solo contemplandola nel suo Mistero divino oppure tentare di ricavare qualche opportuna provocazione?
Non solo possiamo ricavarne qualche provocazione, ma la famiglia di Nazaret è una provocazione, nel senso che può aiutarci a riscoprire quei valori che sono assenti in una società, dove prevale o la struttura diciamo sociale o la dissoluzione di ogni struttura anche naturale.
Deus caritas est
L’amore come “caritas” è l’essenza di ogni realtà divina, e anche di ogni realtà umana. Senza l’amore soprannaturale, nulla ha valore, lo dice anche san Paolo nel famoso inno, l’inno alla carità, che viene riconosciuto come il più bel trattato dell’amore del Nuovo Testamento: lo troviamo nella Prima Lettera ai Corinzi (13,1-13). Ecco i primi tre versetti: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova».
“Deus caritas est” è il titolo della prima enciclica, pubblicata da papa Benedetto XVI il 25 gennaio del 2006. Solo in seguito, anni dopo, ho riscoperto il valore di questa enciclica, tutta ancora da scoprire nella sua profondità filosofica, oltre che mistica.
Il titolo è tratto dalle prime parole del testo latino che costituiscono una citazione dalla Prima lettera di Giovanni, capitolo 4, versetto 16: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui».
Sarebbe interessante spiegare e approfondire i termini con cui nella Bibbia si indica l’amore: come eros, come caritas, come agàpe.
Una cosa va detta chiaramente: ogni componendo dell’amore, anche fisico (eros), porta all’amore soprannaturale e prende luci dall’amore soprannaturale. E diciamo che è molto banale ridurre la parola “agàpe” a indicare il banchetto, eucaristico o semplicemente di fraternità, di solidarietà.
Se Dio è “agàpe”, come scrive Giovanni, vuol dire che siamo nell’essenza stessa di Dio.
L’amore come essenza divina e umana
Ancora quando ero studente di teologia, nel seminario di Venegono, anni ’60,  poco prima del Concilio Vaticano II, il professore di morale ci insegnava che il fine primario del matrimonio era la procreazione dei figli, e che l’amore era un fine secondario. Poi, con il Concilio le cose un po’ cambiarono, nel senso che si stabilì che il matrimonio aveva due fini sullo stesso piano, diciamo comprimari: l’amore e la procreazione.
In Dio la procreazione è sostituita dal termine “generazione”: siamo su un piano diverso, dove la carnalità è sostituita dallo Spirito più puro. Lo Spirito si genera nello Spirito.
Non sto dicendo che, essendo noi esseri umani, dobbiamo disincarnarci come se fossimo puri spiriti. No! Sto dicendo però che siamo sì carnali, ma anche anzitutto spirituali, e che l’amore appartiene al mondo anzitutto dello Spirito.
L’amore precede la carnalità, e casomai la divinizza. E questo dovrebbe succedere anche nel matrimonio, tanto più che noi credenti parliamo di un sacramento.
Certo fa parte dell’amore generare, ma non riduciamo tutto ad una generazione carnale. I Mistici parlavano anche di un matrimonio puramente mistico. Ma il matrimonio umano e il matrimonio mistico di per sé non sono su due piani diversi.
E poi: non basta procreare figli, occorre anche generarli nello spirito. L’amore non si ferma ad un rapporto carnale, ma l’amore vero genera amore, vita, libertà, educando i figli a scoprire il loro essere più interiore.

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