Oltre il Carlo Maria Martini di ieri

L’EDITORIALE
di don Giorgio De Capitani

Oltre il Carlo Maria Martini di ieri

Il 31 agosto del 2012 moriva il cardinale Carlo Maria Martini. Aveva guidato la diocesi milanese per ventidue anni, dal 1979 al 2002.
Ricordarlo oggi è per me un dovere morale. Forse per Scola è solo un dovere formale. Lo si capirà dalle sue parole di convenienza, domenica 31 agosto, nel Duomo di Milano.
Ripetere come un pappagallo le solite cose su ciò che Martini ha fatto o ha detto, mi pare del tutto noioso e lo ritengo anche del tutto inutile.
L’ante Martini mi interessa se mi porta al post Martini, ovvero se mi spinge a cogliere nel suo pensiero e nella sua opera l’aspetto profetico. E dire Profezia non è così scontato come sembra, in una società dove tutto sembra morire con la morte dei profeti. Sembra cioè che non ci sia l’oltre. Resta solo il ricordo, restano le commemorazioni, restano tante accademiche parole che dicono e non dicono. Ci si rivolge al passato. E si va magari a ripescare cose inedite, che servono solo a soddisfare la curiosità.
Bisogna andare oltre Martini. A me i miti non piacciono, perché servono solo a coprire le insensatezze di chi vive di ricordi ma senza aver colto nel personaggio, trasformato in un mito evanescente, le sue idee profonde, il suo divenire che va oltre la morte fisica.
I miti sono un mondo di ipocrisie che coprono la Profezia, che va ben oltre la vita terrena.
Anche nei nostri piccoli paesi è facile costruire il mito di un prete, morto e sepolto da anni. Parlo di Rovagnate, come potrei parlare di altri paesi. Si piange sulla demolizione di una costruzione materiale, resa inagibile dal logorio del tempo e dalle novità pastorali e sociali.
Ecco, ci si attacca al mito a tal punto da non permettere che le opere si adattino allo spirito del profeta, che se rivive oggi non è certo per le sue costruzioni materiali, che subiscono necessariamente il consumo del tempo.
Oggi chi è per me Martini? Ecco la vera domanda. Oggi. Anche il Martini di ieri mi interessa. Anzi, dovrò continuamente approfondire ciò che ha detto e ciò che ha fatto, cercando soprattutto di intuire ciò che intendeva dire, al di là di ciò che effettivamente ha detto, costretto com‘era nella sua autorevole posizione a pesare bene le parole.
Oggi Martini sarebbe magari più libero di esprimersi, ma non è detto. Più libero di esprimere cose che ieri erano tabù, ma sarebbe ancora condizionato nel dire cose che oggi sono ancora tabù. E sarà sempre così. La missione del profeta non avrà mai un termine. Ogni tempo ha bisogno di profeti. Ogni epoca ha le sue paure, i suoi limiti, i suoi schemi.
Martini oggi lo vedrei di nuovo come il buon pastore che conduce il gregge verso cieli aperti. Ma soprattutto come quel pastore che ama le pecore chiamandole per nome e si tiene accanto i suoi collaboratori, senza farne delle ombre o delle mummie, ovvero senza renderli ciechi esecutori dei suoi comandi.
Ci sono pecore che escono dall’ovile, tante, tantissime, per motivazioni l’una diversa dall’altra, e ci sono ministri di Cristo che vanno alla loro ricerca, uscendo dal gregge comune. Perché lasciarli soli, peggio emarginarli?
Martini ha voluto e saputo riprendere il dialogo con tanti preti milanesi, che si erano allontanati, perché allontanati dalla cecità di un loro vescovo. Martini diceva loro: “Ho bisogno anche di voi. Soprattutto di voi! La diocesi è grande, ha mille problematiche da risolvere, voi mi dovete aiutare!”.
Oggi non è più così. Almeno nella chiesa milanese. Chi esce dall’ovile, ovvero dalla rigida struttura ecclesiastica, viene emarginato. Rimproverato. Fatto oggetto di provvedimenti disciplinari.
Martini vedeva oltre lo steccato, e sognava una Chiesa più in avanti di quella dei suoi tempi, indietro di duecento e più anni. Ma sognando la Chiesa oltre lo steccato, desiderava riavvicinare i preti più ribelli: ribelli verso una Chiesa indietro di duecento e più anni.
Oggi la diocesi milanese è tornata indietro, mettendosi sulla stessa linea della Chiesa indietro di duecento anni.
L’effetto Bergoglio non è servito a nulla. È solo una patina di apparenza. L’aggiornamento della Chiesa, ovvero il suo mettersi al passo del cammino dell’Umanesimo, ci sarà solo quando i pastori capiranno di superare lo steccato, per andare alla ricerca delle pecore disperse. E tra queste pecore disperse ci sono i profeti, che vorrebbero richiamare la gerarchia ai valori più alti della coscienza, della libertà, della giustizia, che non hanno etichette, che non hanno schemi precostituiti, che chiedono spazi aperti. 
Fino a quando la Chiesa ascolterà il latrare dei cani pastori per rimettere in riga le pecore in fuga, non ci sarà rinnovamento. Ogni chiusura porta al fallimento, e allontana il Progresso Umano.
I profeti hanno un brutto destino, quello di finire canonizzati santi: è la rivincita della Chiesa-struttura. Anche in tal caso, soprattutto in questi casi, spetta agli spiriti liberi l’opera di salvare la Profezia dalle grinfie della Chiesa-religione.
Su Martini sono già state dette troppe parole, si sono già fatti troppi elogi, si è già tentato un lavoro di restauro. Ed è per questo che non amo questo Martini. Amo invece pensarlo a modo mio, ovvero in quel mondo utopico di una Chiesa ancora in fieri, ma pronta a dare via libera alle energie più vitali.
Il Martini storico mi interessa, eccome, ma solo per riscoprire in lui il Martini mistico, il Martini utopico, il Martini profeta dell’oggi, del domani e del post domani.
EDITORIALI DI DON GIORGIO 1
EDITORIALI DI DON GIORGIO 2
31 agosto 2014

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