6 giugno 2021: SECONDA DOPO PENTECOSTE
Sir 16,24-30; Rm 1,16-21; Lc 12,22-31
I tre brani della Messa ci mettono in guardia dalla insipienza (prima lettura), dalla empietà o ingiustizia (seconda lettura) e dall’ansia o affanno delle cose (terza lettura).
Primo brano: “impara la scienza”
Nel primo brano troviamo un’espressione da intendere bene: “impara la scienza”. Che significa?
Anzitutto, “impara”, ovvero apprendi, prendi coscienza, fàtti educare, va’ alla scuola. Di che cosa? Della scienza.
La parola “scienza” può significare tante cose. Può significare l’insieme di conoscenze della realtà nei suoi molteplici aspetti, oppure semplicemente conoscenza, intelletto.
Riflettiamo.
Si pensa che si è saggi o dotti solo per il fatto di conoscere tante cose, di avere tante nozioni nel campo scientifico o religioso. Ed è solo apparenza, una infarinatura. Oggi poi basta poco: andare su internet e leggere qualcosa di superficiale, e si crede di sapere tutto.
Si pensa che la scuola sia come un luogo dove si riempie la mente di nozioni. Ma quanti sanno che la scuola non è tanto apprendere cose quanto aprire gli occhi sulla realtà?
Si parla di “scuola di vita”, poi ciascuno interpreta a modo suo la parola “vita”.
Si è tutti contro il nozionismo, poi in realtà la scuola (di qualsiasi tipo, anche l’ora di catechismo) è un voler “dare”, più che un dover “essere”.
Gli insegnanti sono preoccupati di dare nozioni, e gli alunni di apprenderle, ma che cosa si fa perché gli alunni aprano gli occhi sulla realtà del proprio essere interiore? Si è preoccupati di dare nozioni sulla realtà esteriore, ma è l’essere a doversi aprire in tutta la sua potenza interiore.
Qui non si tratta di potenziare un settore della scuola che è la filosofia, o che è la religione. Ogni settore della scuola riguarda l’essere, anche quando si insegna matematica o geografia.
“Impara la scienza!”. Ovvero, apprendi la conoscenza di te stesso, di ciò che sei. L’assurdo di una scuola è il fatto che si imparano cose che stanno all’esterno di ciò che si è. La scuola è un contenitore, così gli alunni sono contenitori. La scuola è un contenitore di nozioni da offrire, e gli alunni sono contenitori da riempire. Due contenitori che restano sempre all’esterno di ciò che l’insegnante è e di ciò che l’alunno è. Tra l’insegnante e l’alunno ci deve essere un rapporto di essere, e non di avere. L’insegnante non deve dire: ”ho” da darti qualcosa, ma deve mettere l’alunno nella migliore condizione di aprirsi all’essere. Io, insegnante, sono, e tu, alunno, sei. In questo rapporto di essere nasce la “scuola di vita”.
Secondo brano: “l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia”
È anche facile, e talora comodo, usare parole quali ”empietà” e “ingiustizia”, e poi le intendiamo in quel senso che non risolve nulla di concreto. Ma che significa “empietà” o “ingiustizia” che Dio condanna?
Potremmo star qui delle ore e anche intere giornate a discutere sulla empietà o ingiustizia, ma anche qui, se rimaniamo fuori dall’essere, saremo superficiali e inconcludenti.
La risposta più semplice la troviamo nel Salmo 1, che evidenzia la differenza tra il giusto e l’empio con le due famose immagini: quella dell’albero che affonda le sue radici nell’acqua del torrente e quella della pula che il vento disperde.
Che radicale differenza!
Il giusto è l’uomo della grande fede nell’essere divino, mentre l’empio vive nella carnalità corrosa dal tempo.
Il giusto vive del Mistero divino, mentre l’empio vive di se stesso nella sua materialità più evanescente, inconcludente, destinata alla morte.
Il giusto vive, mentre l’empio è già morto.
Il giusto vive nella Grazia divina, che è eterna, mentre l’empio si aggrappa a una esteriorità che lo rende un oggetto da consumare.
Il giusto è libero, l’empio è uno schiavo.
Il giusto non è tanto colui che fa cose giuste, ma colui che è nobile dentro. L’empio non è colui che fa cose empie, ma colui che è carnale, perciò vive fuori da se stesso.
La Bibbia dice che non esiste un solo giusto sulla faccia della terra. Solo Dio è il Giusto.
Non nasciamo già nobili. La nobiltà d’animo è una conquista: richiede uno spogliamento quotidiano della propria carnalità. L’empietà è quasi incollata ad una mentalità di fondo che ci fa pensare (quando pensiamo) in modo carnale.
Terzo brano: non affannatevi
Ero tentato di parlare di quel capitalismo che oramai ha messo le radici tra la gente comune che un tempo lo odiava. Pensate all’odio che c’era tra capitalismo e marxismo. Sembrava che all’inizio del ‘900 il capitalismo fosse sul punto di crollare. Pura illusione! Il capitalismo, più che accumulo di beni materiali, è diventato una mentalità corrente.
Il brano di oggi sembra andare oltre. Gesù non parla di ansia per cose inutili o per il troppo avere. Gesù è ancor più radicale: egli parla di un’ansia che riguarda i beni necessari.
L’ansia è uno stato d’animo che toglie serenità. E sono proprio le cose più necessarie che possono creare più ansia. Pensate alla casa, al lavoro, alla salute, ecc. Nella stessa famiglia le ansie tolgono la pace tra genitori e figli.
In fondo, per togliere l’ansia creata dalle cose inutili, basterebbe togliere le cose inutili. Ma per togliere l’ansia per le cose necessarie, non si possono togliere le cose necessarie, e allora il lavoro da fare è un altro. Gesù invita a osservare la Natura. Ma forse non basta. La Natura è già una Provvidenza in sé. Il regno umano è più complesso. Entrano in gioco altri fattori, tra cui la perversione umana e un concetto di libertà del tutto fuorviante.
Gli stessi beni necessari sono soggetti a valutazioni diverse, e ciò dipende da una società
che impone le sue norme a discapito dei più deboli.
Credo che, se tutti ridimensionassimo il criterio per valutare i beni necessari sull’essenziale, senza farci condizionare dalla mentalità corrente, che vuole oltrepassare i limiti dell’essenziale, non ci faremmo prendere da ansie inutili.
La legge dello stretto necessario vale soprattutto oggi in un contesto sociale, in cui tutto invita, anzi spinge, ad avere un necessario che è un di più del necessario.
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