7 luglio 2024: VII DOPO PENTECOSTE
Gs 10,6-15; Rm 8,31b-39; Gv 16,33-17,3
Da più parti provengono forti lamentele circa il criterio con cui, nonostante le molteplici riforme liturgiche, sia rimasta ancora intatta la scelta di alcuni brani scritturistici che richiederebbero un corso biblico per capirci qualcosa.
Vorrei aprire una parentesi, che prenderà un po’ del tempo di questa omelia, tuttavia ritengo quasi doveroso presentarvi una figura tra l’altro prettamente ambrosiana, monsignor Enrico Galbiati, nato a Giussano nel 1914 e morto a Verano Brianza nel 2004, ai suoi tempi riconosciuto da tutti come uno dei più grandi biblisti mondiali, che ha dato le basi della nuova esegesi biblica, dotato di una cultura vastissima e che conosceva benissimo non solo l’ebraico, l’aramaico, il greco e il latino, anche lingue antichissime, strane e difficili, e quando andava una settimana in Africa – era richiesto in tutto il mondo – imparava il dialetto di una tribù. Ma la cosa che vorrei evidenziare di questo genio era la sua encomiabile umiltà. Non si dava arie. Gli ho chiesto di fare la prefazione a un mio manoscritto, pur non conoscendomi me l’ha preparata senza titubanza, a differenza di altri vescovi e cardinali che avevano trovate scuse per rifiutare la mia richiesta. Ho sentito che andava volentieri in qualche oratorio nei pomeriggi di qualche domenica, e tratteneva i più piccoli raccontando loro delle fiabe educative. E i giovani preti di oggi che fanno, pur avendo la responsabilità di curare gli oratori? Evadono, alla ricerca di qualche soddisfazione, accompagnati da psicologi che danno farmaci per curare la loro psiche.
Dovrei almeno accennare a tutti i suoi impegni, cariche prestigiose e altro, nel campo biblico, senza dimenticare che nel 1984 Carlo Maria Martini lo aveva nominato Prefetto della Biblioteca Ambrosiana. Ha scritto libri, tra cui uno in particolare, che ha suscitato scalpore, “Pagine difficili della Bibbia” (Antico Testamento)”, e proprio in questo libro spiega l’episodio della prima lettura, dando una interpretazione originale e risolutiva delle parole che Giosuè avrebbe pronunciate: «”Férmati, sole, su Gàbaon, luna, sulla valle di Àialon”. Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto?».
Era successo che, su sollecitazione dei Gabaoniti, minacciati da una coalizione di cinque eserciti amorrei, capitanati dal re di Gerusalemme, Giosuè scende in battaglia per difenderli. Ed è qui che l’autore sacro ricorre alla fantasia popolare mettendo in scena Dio stesso come un gigante che si cinge di una cosmica armatura, ricorrendo a strumenti bellici del tutto particolari: invia dal cielo grosse pietre, ovvero una tempesta di grandine. Qualcuno ha pensato addirittura ad una pioggia di meteoriti. Immaginate la scena! Ma c’è ancora di più. Giosuè voleva la distruzione totale dei nemici, e come poteva in quelle poche ore che gli rimanevano, prima del tramonto del sole? Ed ecco che invoca il Signore, perché fermi addirittura il corso del sole. In realtà, secondo gli studiosi, l’autore sacro mette in bocca a Giosuè alcuni versetti di un antico canto di battaglia, perciò da non prendere alla lettera come se fossero una invocazione di Giosuè. In altre parole, questa espressione non va intesa come un’enunciazione scientifica, ma come libera drammatizzazione poetica. C’è di più. Nella terminologia biblica il verbo “amam”, che significa “stare fermo”, si riferisce non all’arresto del corso del sole e della luna, ma della loro luminosità con un oscuramento atmosferico. Quindi, dovremmo così tradurre: “Oscurati, o sole, su Gabaon”.
Qualcuno di voi potrebbe dirmi: “Non stiamo qui a perdere tempo dietro a queste inezie!”. Forse si dimentica che l’invocazione di Giosuè, così come è stata tradotta e interpretata alla lettera, “Fermati, o sole”, è stata alla base della controversia con Galileo, con la sua condanna, evitata in seguito alla abiura dello stesso scienziato. A quei tempi, la gerarchia della Chiesa, che riteneva che la Bibbia dicesse il vero in tutto, in ogni sua parola, sosteneva la teoria tolemaica (ovvero che era il sole a girare attorno alla terra), contro la teoria copernicana, sostenuta da Galileo.
Quanti contrasti, condanne, scomuniche, quanti roghi si sarebbero evitati, se la gerarchia della Chiesa da una parte e una certa scienza dall’altra avessero capito di restare, ciascuno, nel proprio campo, senza invadere quello dell’altro. Se la Bibbia è un libro religioso, che ci insegna “come andare in cielo e non come è fatto il cielo”, non possiamo, non dobbiamo leggerlo come un libro scientifico. Se l’autore sacro descrive certi fenomeni atmosferici, lo fa usando il linguaggio popolare del tempo, senza entrare nel merito scientifico. Tutti sanno ormai che le prime pagine della Bibbia sono una descrizione poetica della creazione. L’autore sacro dice solo una cosa: l’origine di tutto è Dio, ma non intende descrivere come sono nati in realtà, scientificamente, l’universo e l’umanità. Pensate anche alle polemiche attorno alla cometa di Natale che ha guidato i magi. Non si tratta di stelle reali, ma simboliche. Del resto, tutto il racconto dei magi è un “midrash”, ovvero è solo un bel racconto ricostruito sulle profezie.
Passiamo al secondo brano. Qualche accenno. Il brano della Lettera ai Romani contiene o meglio riformula la promessa dell’impegno di Dio nei nostri confronti. Ma l’impegno di Dio va messo in una prospettiva completamente diversa dal nostro modo di pensare. Paolo usa parole splendide: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati».
Più volte l’ho chiarito: l’amore di Dio non è da limitare nel campo psichico o emotivo, così come noi intendiamo solitamente la parola “amore”, parola usata e strausata come un prezzemolo da mettere in qualsiasi minestra. In poche parole: il Figlio di Dio ha dato tutto se stesso per noi, ovvero il Bene eterno, infinito. Già antichi filosofi pagani, ad esempio Platone e Plotino, avevano un’alta concezione di Dio, come il Bene Assoluto, l’Unico Bene Necessario. È nel Bene di Cristo, direbbe san Paolo, che noi ci sentiamo forti. Cristo ci vuole bene, ma in Lui, non vuole il nostro bene, perché sa che è un bene falso e sbagliato.
Ed ecco le parole di Cristo (terzo brano): «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!». Sì, Cristo ha vinto il mondo, ovvero le forze del male, ma come? Messo su una croce dal potere civile e religioso di tutti i tempi!
Noi cristiani predichiamo bene, e poi razzoliamo male. Sulla vittoria di Cristo sulla croce, che anticipa la risurrezione – non va, dunque, separata la morte dalla risurrezione! – abbiamo detto di tutto e di più, ma poi, nella pratica, abbiamo fatto della potenza strutturale della Chiesa il nostro campo di battaglia. Godiamo nel contarci in quanti siamo: un milione di persone in piazza, raduni oceanici, consenso globale, tutti battono le mani, eppure Cristo ha vinto il mondo, solo, sulla croce! Solo! Talora una domanda mi assale: oggi chi sta dalla parte del Cristo crocifisso, e dunque vincitore del mondo?
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