L’Anpi di Grosseto
da Globalist
7 Agosto 2023
Grosseto dedica una strada a Almirante:
alla faccia della fucilazione fascista di 11 ragazzi nel 1944
Il consigliere Regionale Iacopo Melio contro il Comune di Grosseto che ha intitolato una strada a Giorgio Almirante. La storia di una fucilazione fascista…
Una vergogna senza fine: il Comune di Grosseto intitola una strada a Giorgio Almirante. «Dopo vari episodi passati inammissibili – scrive in una nota il Consigliere Regionale Iacopo Melio – il sindaco di Grosseto ha permesso ancora una volta alla sua amministrazione di mancare totalmente di rispetto al suo territorio e alla memoria storica.
Il Comune di Grosseto ha infatti intitolato una strada a Giorgio Almirante, forse dimenticando un fatto tanto tragico quanto indegno accaduto proprio in quel territorio».
«Ma rinfreschiamo pure la memoria a quel burlone del Sindaco Antonfrancesco Vivarelli Colonna – continua Melio – Il 22 marzo 1944 a Maiano Lavacchio, piccola località nelle campagne tra Grosseto e Magliano, la Guardia Nazionale Repubblicana, insieme ad alcuni squadristi e gerarchi del fascio locale, rastrellò, processò sommariamente e fucilò undici ragazzi “disertori” per non aver accolto la chiamata alle armi della RSI».
«E sapete chi firmò quel comunicato? – conclude – Esatto, proprio Giorgio Almirante. Quel futuro Senatore che oggi Giorgia Meloni insiste a definire “grande uomo”. Vergogna!»
Questo è l’episodio che riguarda il grossetano. Se vogliamo allargare il campo ricordate cosa è emerso dalle indagini sul rapporto tra Almirante e la strage di Peteano.
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da https://maremma-magazine.it/le-rubriche/storia/in-memoria-dei-martiri-distia-dombrone-undici-ragazzi-tragicamente-trucidati-nel-1944-a-maiano-lavacchio/
In memoria dei “Martiri d’Istia d’Ombrone”,
undici “ragazzi” tragicamente trucidati nel 1944
a Maiano Lavacchio
Fu un fatto davvero tragico che ancora oggi viene ricordato ogni anno quello che accadde la mattina del 22 marzo 1944 a Maiano Lavacchio (Magliano in Toscana) dove in piena Guerra di Liberazione furono uccisi per mano fascista undici giovani passati alla storia come i “Martiri d’Istia d’Ombrone”
L’eccidio del 22 marzo 1944 fu il primo fatto di sangue ad avere una certa rilevanza in provincia di Grosseto (l’altro fu il Massacro della Niccioleta dove vennero trucidati 83 minatori)
di Corrado Barontini
Sono passati alla storia come i “Martiri d’Istia d’Ombrone”. Nome con il quale si ricordano gli undici giovani barbaramente uccisi dai fascisti/repubblichini la mattina del 22 marzo 1944 sul retro del podere Sant’Antonio degli Andrei a Maiano Lavacchio (Magliano in Toscana).
Il motivo per cui le vittime si chiamano “Martiri d’Istia d’Ombrone”, pur essendo stati uccisi nel comune di Magliano in Toscana, si giustifica per due ragioni: la prima è che i corpi martoriati vennero sepolti nel cimitero di Istia (comune di Grosseto, ndr), l’altra è che diversi di loro erano nati proprio in questo paese.
Un libro che ricorda il sacrificio di quei giovani, realizzato dallo scrivente e Fausto Bucci, fu frutto di una ricerca sull’efferato eccidio basata su molte testimonianze orali. Lo intitolammo “A Monte Bottigli contro la guerra. Dieci ragazzi, un decoratore mazziniano, un disertore viennese. Fra oralità e storia” (I ed. Anpi, Grosseto, 1995; II ed. Follonica, 2003).
L’eccidio del 22 marzo 1944 fu il primo fatto di sangue ad avere una certa rilevanza in provincia di Grosseto (l’altro fu il Massacro della Niccioleta dove vennero trucidati 83 minatori).
Gli undici martiri d’Istia vennero fucilati dai “repubblichini” per dare una dimostrazione di forza. Non a caso il capo della Provincia Alceo Ercolani fece affiggere, pochi giorni dopo (31 marzo 1944), un manifesto che dava notizia dell’avvenuta fucilazione ed avvertiva che la stessa sorte sarebbe stata riservata a “chiunque sarà trovato armato e si unisca alle bande”.
Quel manifesto si basava sulla menzogna poiché gli undici martiri d’Istia non avevano (per scelta) portato con sé nessuna arma offensiva; un solo fucile da caccia, un “ferrovecchio”, che Attilio Sforzi portò dietro “…per vede’ se l’accomodavano”.
Gli “sbandati”, che si erano ritrovati nelle macchie di Motebottigli erano 12 uomini (fra loro un austriaco – Gunter Frichugsdorf, detto Gino – disertore dall’esercito tedesco, che sarà l’unico a salvarsi dalla fucilazione). Gli altri: Emanuele e Corrado Matteini, Alfiero Grazi, Attilio Sforzi, Alvaro Minucci, Alfonzo Passannanti, Antonio Brancati, Rino Ciattini, Silvano Guidoni, Alcide Mignarri ed il trentanovenne Mario Becucci che si era aggregato al gruppo tre giorni prima dell’eccidio, vennero fucilati senza avere nessun conforto religioso.
Il processo-farsa ebbe luogo al podere degli Andrei nell’aula riservata in quel tempo alla scuola elementare e durò complessivamente una ventina di minuti, giusto il tempo per prendere i dati degli “imputati”. Di quella specie di “Corte” giudicante non fecero parte i tedeschi, presenti all’operazione militare, comandati dal Tenete Muller, mentre fra i fascisti presenti in aula troviamo: Silio Monti (Federale del partito fascista a Grosseto), il Dottor Michele De Anna, Inigo Pucini (Podestà di Grosseto), Vittorio Ciabatti e la “spia” Lucio Raciti (pagato dalla Prefettura di Grosseto per infiltrarsi nella zona e raccogliere notizie).
La scelta di non portare le armi caratterizza la natura pacifica del gruppo e ancor più la volontà di non uccidere. La loro contrarietà alla guerra non impedì ai giovani renitenti di mantenere rapporti con la popolazione del posto e di incontrarsi con alcuni membri del comitato di liberazione provinciale (ad esempio Angiolo Rossi – detto Trueba, che era stato combattente in Spagna con le Brigate Internazionali – e Pietro Verdi che nel dopoguerra sarà Presidente dell’ANPI di Grosseto).
Ecco come si svolsero i fatti:
Nella notte fra il 21 e 22 marzo diverse centinaia di fascisti al comando del capitano Michele De Anna ed un piccolo contingente tedesco comandato dal tenente Muller, accerchiati i poderi ai margini della macchia, entrarono nel bosco, raggiungendo le “capanne di Monte Bottigli” sorprendendo i dodici giovani. Le capanne vennero poi devastate e i prigionieri avviati verso il luogo dell’eccidio. In questa situazione il viennese “Gino” (l’unico che essendo disertore dell’esercito tedesco ebbe chiaro da subito cosa lo attendeva) tentò la fuga, riuscendo ad entrare nella macchia più intricata. Spararono, ma non venne colpito.
Gli altri furono condotti al podere dell’Andrei dove all’epoca c’era l’Appalto, il Bar e le scuole elementari.
Qui vennero fatti entrare nell’aula insieme a due contadini del posto (Francesco Biagi e Ermenegildo Corsetti, trovati in possesso di 2 fucili da caccia) e due giovani sardi (Giovanni Pirìa e Luigi Careddu, renitenti alla leva ed ospiti al Podere Ariosti). Questi ultimi quattro saranno “assolti” anche se i due agricoltori (Biagi e Corsetti) vennero poi utilizzati per portare via con i carri tutto quello che i fascisti avevano razziato nei poderi: pane, prosciutto, formaggio…
Portati dietro alla casa a ridosso di una siepe gli undici “ragazzi” vennero fucilati barbaramente.
In quel luogo dell’eccidio la famiglia Matteini successivamente fece costruire una chiesina che rimane a ricordo della strage.
I corpi caricati su cinque carri vennero trasportate a Istia d’Ombrone per la sepoltura; quando furono sul ponte del fiume Ombrone trovarono i fascisti che cercarono di fermare il corteo dicendo che andavano seppelliti sul luogo dell’eccidio, ma la reazione indignata dei presenti e soprattutto di Agenore Matteini che inveì contro di loro gridando: “Io vi butto nell’Ombrone, ammazzatemi tanto io non ho più niente da perde’…”1 li costrinse a sgombrare la strada e far passare le salme.
L’indomani le autorità cercarono di impedire la funzione religiosa, ma Don Omero Mugnaini (parroco d’Istia) replicò con spirito pronto: “voi occupatevi dei vivi che dei morti me ne occupo io”2.
Nonostante gli ordini dei fascisti impartiti ai fiorai grossetani di non portare fiori, il giorno del trasporto partecipò tanta gente a rendere omaggio agli undici martiri e comparvero moltissimi rami di mimosa raccolti spontaneamente dagli alberi che in quei giorni erano fioriti: un manto giallo di questi fiori accompagnò i feretri fino al camposanto.
Emanuele (detto Lele), il più giovane dei due fratelli Matteini, prima di uscire dall’aula scrisse con il gesso sulla lavagna un messaggio per la madre:
Mamma
Lele e Corrado
un bacio
Che orrore!