Omelie 2018 di don Giorgio: SECONDA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE

9 settembre 2018: SECONDA DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE
Is 63,7-17; Eb 3,1-6; Gv 5,37-46
“Tu, Signore, sei nostro padre”
Il primo brano della Messa è la parte iniziale di un vero e proprio salmo di supplica (che continua fino al capitolo 64, versetto 11): dunque, è un’accorata preghiera, in cui il popolo ebraico si rivolge al suo Dio, chiedendogli di non abbandonarlo a se stesso, anzi di impedire che egli abbia a deviare dalla retta strada, quella indicata dal Signore tramite i suoi profeti.
Anche se Dio è già intervenuto nel passato, ora è il presente che conta, ed è nel presente che Dio è vicino al suo popolo, anche nei castighi, per redimerlo e riscattarlo dal suo più grave peccato, che è l’idolatria, tradimento dell’Alleanza.
Da notare che in questa lunga supplica il popolo per tre volte chiama” il suo Dio “nostro padre”. Gli studiosi ci dicono che l’invocazione di Dio come “nostro padre” si trova molto raramente nell’Antico Testamento, forse per evitare fraintendimenti, dato che, nell’antico Oriente, la paternità del dio era legata ai culti idolatrici della fertilità. Nel periodo successivo all’esilio babilonese, però, l’invocazione di Jahvè come “padre” iniziò a diffondersi in Israele, e all’epoca di Gesù era comune nella preghiera degli Ebrei. Sarà poi Gesù, il Figlio di Dio, a comunicarci il vero volto di Dio come Padre.
Tornando al brano di Isaia (in realtà, si tratta del terzo Isaia, un anonimo profeta vissuto durante la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e negli anni successivi, dal 520 a.C. in poi), non dovremmo dimenticare anche quel contesto storico. Quella parte del popolo ebraico esiliato a Babilonia dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (verso la fine del VI secolo a.C.) che era tornata in patria, ha ripreso a ricostruire le case e il tempio: in quel momento bisognava riflettere su quanto era successo, perché bastava poco, anche pochi decenni, per dimenticare e ricadere negli stessi errori.
Una riflessione attuale
Qui non possiamo non fare una riflessione che interessa i tempi attuali. Dopo l’ultima guerra mondiale, anche il popolo italiano ha iniziato la ricostruzione, non solo materiale ma anche morale, di una nazione che era stata distrutta nei suoi valori democratici, riprendendo quei valori umani che la dittatura fascista aveva cercato di debellare. E venne il momento anche di una riscossa economica: tutto sembrava che andasse a vele spiegate verso nuovi orizzonti di libertà, di giustizia e di diritti umani.
Così sembrava. Ma la storia, purtroppo, non insegna mai nulla. E così si cadde in quel materialismo borghese, che solitamente prende prima la testa, poi il cuore, bloccando ogni respiro dell’essere interiore. Il ’68 fu un tentativo, non del tutto riuscito, di aprire alle nuove generazioni orizzonti nuovi. Ma quei sogni durarono poco. Arrivarono ben presto gli imbonitori, poi i populisti, fino ai nostri giorni, e oggi stiamo subendo una nuova dittatura o strapotere del dis-Umano che sta azzerando ogni speranza di rinascita.
Siamo fatti così, soprattutto noi italiani: ci piace farci del male, auto-flagellarci in quella realtà interiore che è il nostro essere più vitale. E, per quale finalità? Per un pugno di lenticchie, per qualcosa che possa farci godere nella pancia.
E così passiamo dalle tragedie nazionali alla ricostruzione di una nazione disfatta: rialziamo per un po’ la testa, per poi ributtarla di nuovo tra le macerie di una Umanità, che ci piace smantellare con le nostre idiozie politiche e religiose.
Mi sto chiedendo particolarmente in questi mesi, anche se da sempre si tratta di una domanda che mi perseguita: non basterebbe un po’ di saggezza per stare un po’ bene in questo mondo, già di per sé complicato e difficile, a causa di qualcosa che all’inizio non ha funzionato?
Ma la vera domanda è quest’altra: che cosa ci manca veramente perché possiamo star meglio? Certo, magari la salute, magari una casa, magari un lavoro, ma non è che ci sia qualcosa di più importante, per cui, se riusciamo a scoprilo e a viverlo intensamente, basterebbe solo l’essenziale tra i beni materiali per vivere serenamente?
La realtà purtroppo è questa: abbiamo gi occhi annebbiati, addirittura spenti, e così vediamo tutto in modo confuso, e invertiamo la gerarchia dei valori, sempre per paura di qualcosa o di qualcuno che ci rubi un nostro più o meno presunto diritto: sì, è anche nostro, ma da inserirlo nel contesto di quella grande famiglia umana, concepita da Dio quando ha creato l’universo, subito però frantumato da quel peccato simbolo di ogni peccato, che è stato l’omicidio di Abele.
“Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?”  
Anche oggi siamo tentati di prendercela con Dio, accusandolo, come gli ebrei del post esilio rimasti fedeli all’Alleanza: “Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema?”.
Ecco, qui sta il punto dolente: “Perché, Signore, lasci indurire il nostro cuore?”.
Anche oggi il cuore umano si è fatto pietra, insensibile ad ogni umanità. E la cosa paradossale è quel sentirci tutti, o quasi, solidali nelle tragedie nazionali, per poi il giorno dopo chiudere il nostro cuore alle tragedie umanitarie.
Nell’uomo moderno, che si crede in grado di dare una nuova svolta a questa società malata di individualismo esasperato ed esasperante, alberga un ego spaventoso che divide l’umano dal dis-Umano, il fratello dal socio in affari, la razza bianca dalle razze cosiddette bastarde, dimenticando che la Civiltà subirà un tracollo, se separeremo le sponde lasciando i fiumi in piena travolgere tutto, portando a valle le ossa inaridite di cadaveri alla deriva.
Un cuore indurito o di pietra si sgretolerà prima o poi al contatto di una nuova Umanità che, stavolta, prenderà l’avvio dalla potenza dello spirito interiore. Quando?
Forse i tempi sono maturi, proprio perché l’uomo è come una pera marcia destinata a crollare dalla pianta al primo soffio dello Spirito santo.

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