Tesler, il genio del copia e incolla che ha reso la vita più facile a tutti (sì, anche agli imbroglioni)

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Tesler, il genio del copia e incolla

che ha reso la vita più facile a tutti

(sì, anche agli imbroglioni)

di MAURO FRANCESCO MINERVINO
Tre anni fa di questi tempi, smetteva di premere il tasto che permette di fare quella copia di copie che è diventata la nostra esistenza, un certo Larry Tesler. Un nome che funzionerebbe benissimo per un personaggio in un episodio di Happy Days o in un romanzo di Updike. Questo Tesler — Lawrence «Larry» Gordon Tesler (New York, 24 aprile 1945 – Portola Valley, California, 17 febbraio 2020) — è stato un informatico statunitense. Una definizione che presa così che dice poco. Sì, perché Tesler non era esattamente una «testa d’uovo», uno di quei cervelloni persi in calcoli e teorie astruse.
Nato a New York da gente comune e in un quartiere difficile come il Bronx, studia brillantemente alla Stanford University in California. Dopo essersi laureato, si specializza tra i primi nella progettazione di sistemi informatici più pratici e intuitivi, e si applica alle prime tecnologie di interazione uomo-computer. Da giovane nerd della Silicon Valley già lavorava ai computer quando ancora erano congegni elettronici grandi quanto frigoriferi industriali. Scatoloni con diodi e transistor con cui però uno come lui era in già grado di inventare qualcosa che prima non c’era mai stato.
È proprio a Tesler che si deve, tra le tante innovazioni scaturite dal suo genio visionario, il «Newton»: l’antenato del tablet che possiamo considerare il prototipo di tutti i dispositivi portatili moderni. Tesler fu anche il primo a usare un computer portatile su un aeroplano e a dimostrare al guru digitale Steve Jobs l’efficacia di un sistema grafico di simboli e icone che avrebbe poi rivoluzionato le sorti dell’informatica di consumo sino ai nostri tempi. È lui che nel lontano 1977, lo stesso anno di Star Wars, sfodera per un’azienda di Palo Alto la prima stampante laser, madre di tutte le fotocopiatrici venute dopo: la «nuff said». Il giorno in cui è morto Tesler il suo primo datore di lavoro nella Silicon Valley, per ricordarlo ha scritto: «La vostra giornata lavorativa è più facile grazie alle sue idee rivoluzionarie». Il tweet è della Xerox, quella delle mitologiche fotocopiatrici Rank-Xerox. Macchine leggendarie a cui quelli della mia generazione affidavano le sorti di un esame difficile da studiare con un libro particolarmente grosso e costoso e troppo complicato da comprare per studenti squattrinati e non proprio strenuamente interessati al possesso dell’originale.
La Xerox ad un certo punto affidò a Tesler i progetti e le attività sperimentali di immaginazione e sviluppo di quello che doveva diventare «l’ufficio del futuro». Insieme a un altro giovane pioniere dell’informatica, il collega Timothy Mott, nel 1973 Tesler aveva ideato un prototipo di sistema alfanumerico per trasferire parti delle informazioni dei programmi per computer, eliminando così la necessità di riscrivere il contenuto del programma ogni volta da capo. Questo era in origine l’intento del primissimo «copia e incolla». Un giorno Tesler decise di apportare delle variazioni e perfezionò la sua invenzione informatica estendendo il principio alfanumerico a parti di testo e di contenuti liberi. Fu proprio alla Apple che i comandi «Cut Up» che Tesler aveva inventato furono portati definitivamente su una tastiera standard. Uno dei maggiori comfort della storia dell’informatica, il sistema taglia/copia/incolla con i comandi del «Cut Up» che troviamo su ogni tastiera di pc, era nato.
I tasti di Tesler furono resi universalmente popolari dall’azienda informatica di Cupertino, che nel 1983 li adottò montandoli per la prima volta sul computer Lisa, e nel 1984 sulla tastiera della prima macchina della serie Macintosh. Ed è da quel dì che inizia la storia che ogni santo giorno tutti replichiamo, pestando sulle tastiere di tutti i computer del mondo — perché tutti un po’, almeno un poco, lo facciamo, per i motivi più diversi, confessabili o meno. I tasti taglia/copia/incolla” (Ctrl+C e Ctrl+V) sono diventati il sesamo magico che apre e chiude le ansie di prestazione di tutte le nostre giornate di travet salariati della cultura massificata e di utenti dei new media, rendendo disponibile il tesoro senza fine accumulato sin qui, e senza nostro merito, da quando è stata inventata la scrittura e il segno grafico. Tesler ha reso possibile a tutti gli utenti di un pc collegato alla rete il miracolo di poter attingere, a piacimento e a pezzetti, a tutti i brani creati dalla cultura del genere umano e di poter usufruire nei modi più incontrollati e fungibili dell’opera di qualsiasi genio che ci abbia ampiamente preceduto per intelligenza e sapere lasciando un segno su questo pianeta.
Miliardi di pagine di libri, di trascrizioni, di segni, di conoscenze, di pensieri, di immagini, tutto quel pozzo plurimillenario di conoscenze a cui disinvoltamente attingiamo ogni giorno per dare una parvenza di senso alle nostre (nostre?) spesso misere, stinte e replicanti esistenze di «utenti (sic) digitali», ci vengono incontro per mezzo di quella miracolosa combinazione di tasti. Grazie a Tesler il computer divenne nel giro di pochi anni una macchina molto più semplice da usare anche per un profano. Grazie alla funzionalità e alla semplicità di utilizzo garantita dal copia/incolla, chiunque poteva familiarizzare con la scrittura digitale nel giro di poche ore. Una rivoluzione che finì per investire presto anche molti generi della letteratura contemporanea. Gente come William S. Burroughs o Philip Dick, adepti della scrittura automatica e dannati della penna, ne hanno risentito come scrittori e hanno ben padroneggiato il Cut Up dei tasti magici di Tesler, giovandosi molto dell’invenzione dell’informatico di Xerox. Lo stesso Arthur C. Clarke, autore superprolifico di innumerevoli testi, e anche del racconto che ha ispirato Kubrick per 2001 Odissea nello Spazio, fu talmente folgorato dalla rivoluzione informatica propagata da Tesler da rinunciare al suo più volte manifestato proposito di ritiro dalle scene letterarie di genere. Nel 1978, incontrando Tesler, pronunciò questa fatidica sentenza: «Sono felice di rendere merito a colui che ha fatto di me uno scrittore ri-nato: dovevo ritirarmi e ora ho sei libri in lavorazione e altri due in testa, tutto grazie a WordStar e a Tesler».
Invenzioni molto utili e immediatamente redditizie, non solo per gli scrittori di mestiere. Anche per molte altre categorie di utenti. Grazie a Tesler e alle sue invenzioni informatiche, per tutti quelli a cui la cosa non fa granché scandalo, divenne incredibilmente più semplice copiare e appropriarsi abusivamente di qualsiasi cosa si trovasse disponibile in forma scritta o grafica da qualche parte: in breve una facilitazione universale del plagio derubricato a mera funzione della scrittura digitale. Un semplice clic e si può far finta che quello che stai «importando», qualunque cosa già scritta o pensata da qualcun altro sul tuo foglio di Word senza doverosamente citare, diventi farina del tuo sacco.
Il plagio digitale è diventato ormai prassi discorsiva nella vita di ogni giorno. È una scorciatoia comoda e molto sfruttata tra gli studenti e non disdegnata neanche tra i professori. È molto sfruttata, spericolatamente — solo con qualche ritocco e camuffo — anche dai professionisti del pensiero e dell’industria culturale, sempre più precari e oberati dall’esposizione mediatica, subissati dal dover far presto. Il ricorso a spiccioli e brandelli di testo copiati di qua e di là da autori e opere originali, rapidamente piegati agli scopi più fantasiosi e convenienti, è ormai un’abitudine. E quanti devono la loro imprevedibile e non propriamente faticata fortuna proprio a quei piccoli punzoni che identificano i tasti del copia e incolla sui più comuni pc domestici? Schiere di geni e di scrittori di capolavori di seconda mano abili a smanettare intascano royalties e successi esorbitanti senza aver mai pagato dazio ai legittimi predecessori di pensieri e parole «importate» quasi integralmente e fatte proprie grazie a quel fatidico e in fondo banalissimo comando informatico.
Scendendo per i rami, questa abitudine disinvolta all’esproprio di contenuti unito alla strumentalizzazione funzionale di citazioni a insaputa dei legittimi proprietari, è ormai costume consolidato e frequente tanto nelle professioni tecniche quanto tra gli habitué dei social, con moltitudini di saccenti e citatori che riempiono Facebook di roba — spesso ottima — ma sempre di seconda mano o di ennesima mano. Troppo spesso imbruttita, banalizzata o spacciata per sudore della loro spaziosissima fronte. Sino a toccare poi i più oscuri bassifondi e meandri della rete frequentati da odiatori trogloditi e serial-killer digitali di cui parlava Umberto Eco. E tutto accade quasi sempre impunemente, senza rispondere alle ragioni della correttezza etica e scientifica, e nemmeno ai legittimi diritti del copyright.
Credo che lo stesso Tesler, se avesse saputo, forse si sarebbe trattenuto dall’agevolare le fortune e la carriera di certa gente che da allora campa mettendo insieme parole e pensieri; preferibilmente quelli degli altri. C’è di più e di peggio però. Il ricorso ossessivo alla funzione copia e incolla riduce ormai drasticamente, in ogni ambito culturale, la necessità di sviluppare una linea discorsiva sufficientemente argomentata e coerente. Lo scopo a prima vista meramente pratico e funzionale, quasi banale, di risparmiare a chi digita la fatica di riscrivere manualmente segni, parole o frasi apprese, viene sempre più dannosamente travisato e degradato in forme scorrette e artificiose. Ha avuto una portata dirompente sui processi logici, ha influito sulle abitudini di lavoro di chi elabora un testo, ha cambiato, quasi sempre in peggio, la maniera di pensare e di fare ricerca, trasformando il modo in cui oggi vengono percepiti l’organicità di un testo e la sua probità scientifica e culturale, annullando il disvalore di concetti quali la ripetizione e il plagio. Sino a legittimare persino in arte e in letteratura quella copia di se stessi che è l’autoplagio. Prima che esistesse il copia e incolla, appropriarsi di un testo altrui per includerlo nel proprio — operazione dolosa — richiedeva la riscrittura a mano o a macchina del brano copiato e comportava almeno un certo impegno intellettuale: non era possibile riscrivere qualcosa senza comprenderlo abbastanza profondamente. Oggi non è così. Nel web circolano miliardi di pagine che non sono altro che la copia di altre pagine, in una sequenza infinita di citazioni parziali e ormai prive di origine, senza storia e senza finalità chiare. Si può copiare qualsiasi cosa e mescolarla ad altre senza interrogarsi sulla plausibilità delle fonti e dei risultati, senza nemmeno sforzarsi di conoscerne a fondo il significato. È sufficiente uno sguardo alla prima riga o alle prime parole, basta un po’ di retorica o un richiamo ammiccante, e si rischia di essere portati del tutto fuori strada.
Al pari di ogni altra invenzione tecnologica, quella di Tesler si è dunque rivelata utile e pericolosa nello stesso tempo. «Copia e incolla sì, ma verifica e cita sempre responsabilmente» potrebbe essere una buona regola, ma servirà mai veramente? La tecnologia digitale non abitua a pensare ma sempre più a utilizzare dispositivi e a eseguire comandi. C’è sempre una risposta che non è più nella nostra testa, nelle nostre conoscenze e nella nostra memoria. Ne consegue l’abbandono meccanico delle facoltà di elaborazione critica delle conoscenze attraverso l’esperienza dello studio, con la caduta verticale della facoltà di memorizzazione e delle attività di valutazione e discernimento, che — fin qui — sono state i motori dell’intelligenza umana e dell’incremento dei saperi nella storia. Perché imparare o memorizzare un concetto, una data, un autore, un dipinto, un brano, un verso? «Cerco nella rete, lì c’è tutto». Sì, ma solo se sai qualcosa prima e sai cosa cercare, e sei hai in mente un qualche scopo chiaro.
Tra le molte conseguenze indotte dall’invenzione dei tasti di Tesler, una è davvero eccentrica e sorprendentemente rivelativa del caos culturale che avvolge i tempi in cui viviamo. Proprio il suo celeberrimo copia e incolla ha dato origine a un nuovo culto. La «Chiesa missionaria del Copimismo», da «copy me». Non è uno scherzo, un’invenzione da comici. Esiste davvero. Del resto il «Copincollismo» è tutt’altro che una miscredenza, considerata la schiera di adepti più o meno confessi che lo praticano quotidianamente, almeno per qualche ora al giorno. E non è nemmeno un culto privo di fondamenta sociali. C’è gente che per come gli sono andate le cose in carriera e nelle professioni, infatti, dovrebbe allestire al culto domestico del «copimismo» un tempietto con tanto di altarini ai led in un angolino della casa, dove rendergli grazie e giaculatorie tutte le mattine. È una religione nata e legalmente riconosciuta nella laicissima e scettica Svezia, paese in cui, è risaputo, sono molto tolleranti e liberali anche in fatto di religioni e di culti alternativi. La «Missionerande Kopimistsamfundet» che ha preso piede tra gli iporborei eredi dei Vichinghi, tradizionalmente molto pragmatici, si basa sul principio estremisticamente libertario dell’accesso illimitato alle fonti open source. Ha come missione consentire, e anzi incoraggiare anarchicamente, che tutte le informazioni e le conoscenze disponibili nel mondo del web possano circolare per essere distribuite liberamente, senza alcun vincolo di accesso e con fruizione no profit. Bando all’Autore e ai relativi diritti, dato che la chiesa ecumenica del Copincollismo avversa qualsiasi forma di monopolio della conoscenza, primo fra tutti l’odioso e capitalistico copyright. La proprietà intellettuale è bandita in ogni sua forma conosciuta, e anzi il Copimismo incoraggia apertamente la pirateria di qualsiasi genere di fonti in qualunque settore dello scibile umano. L’atto di copiare vale come ideale di vita. Quasi un gesto magico e liberatorio. Per i credenti del Copincollismo, come recitano alcune abborracciate filosofie orientali e new age a cui si ispirano, la Copia è considerata qualcosa di superiore all’Originale, addirittura un di più a livello artistico e creativo. Come del resto insegnano anche i fanatici della smaterializzazione e della moltiplicazione seriale delle opere che vivono ormai nell’etere e sono però fungibili, solo a suon di dollari, tra i meandri dello spazio digitale, gli NFT (non-fungible token).
Tuttavia i simboli sono essenziali nella consacrazione del nuovo vangelo copincollista. I segni Ctrl+C e Ctrl+V sono considerati sacri, mentre il culto si identifica con un logo stilizzato: una lettera K piazzata all’interno di un triangolo — poteva mancare un triangolo magico in questa spassosa e grottesca sciarada new age, base della inoffensiva massoneria digitale del Copincollismo? La loro trigona divinità è infatti considerata da alcuni una sorta di Bafomet in versione alfanumerica. Si chiama «Kopimi». Kopimi per alcuni credenti del Copincollismo è un vero e proprio Dio che tutto può e tutto vede. Altri seguaci invece rifiutano sdegnosamente l’esistenza di una crudele e incontrollabile entità divina, tipo l’AL di 2001 Odissea nello spazio, una mostruosa e dilatatissima Intelligenza Artificiale che governa con la sua imperscrutabile e illimitata combinazione di algoritmi la fede del Copincollismo. Ma questi eretici sono per ora una frazione minoritaria e ben tollerata in seno al corpo mistico della Chiesa Copimista, e «non rappresentano un problema scissionistico».
Insomma, le vie della teologia digitale sono infinite, e per ora non escludono nessuno. Di questi tempi non è poco. W Mr. Tesler, and Cut&Up Unlimited.
(NB: non posso garantire che quello che trovate in questo articolo sia stato scritto per la prima volta dal suo autore. Sono tuttavia personalmente consapevole di non aver copiato e incollato. Anche se la tentazione è stata forte).
maurofrancesco.minervino@gmail.com

1 Commento

  1. diogene ha detto:

    …un sincero apprezzamento dal sottoscritto con diploma di “operatore Rank xerox” acquisito nel lontano 19..!

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