Omelie 2021 di don Giorgio: QUINTA DI AVVENTO

12 dicembre 2021: QUINTA DI AVVENTO
Is 30,18-26b; 2Cor 4,1-6; Gv 3,23-32a
Siamo alla quinta domenica di Avvento. La Liturgia anche quest’anno sembra preoccupata del tempo che passa in un vuoto d’essere, invitando a riempierlo della Grazia divina almeno il credente, quasi soffocato sotto un mucchio di cose, che non sembrano staccarsi da un corpo tanto precario e minacciato da un virus, che neppure la medicina moderna così puntuale ed efficace è riuscita a sconfiggere.
Temiamo un virus che colpisce il corpo, e non temiamo virus che minacciano il nostro essere interiore. E la cosa paradossale o allucinante è che coloro che non temono il Covid negandolo, negano pure di essere vittima di una imbecillità di fondo, che risiede proprio nel vuoto d’essere, ovvero di un essere consumato da una carnalità esistenziale, tanto volgare quanto idolatra fino alla follia.
Eppure, la Liturgia nella sua bimillenaria saggezza sembra l’unico richiamo, perché ci scrolliamo di dosso paure insensate o certezze dogmatiche, per contemplare nella fede sciolta da ogni legame ritualistico quel Mistero, che di anno in anno sembra sciogliersi in un vago ricordo di eventi di un passato sempre più lontano.
Ci illudiamo, noi credenti, di avere il Segreto della Beatitudine eterna, e anche noi, perfino noi, viviamo di assurde contraddizioni, tra uno sfrenato consumismo e la nostalgia di qualcosa, che non riusciamo più ad afferrare nella sua realtà più profonda.
Soffermiamoci ora sul terzo brano, dove troviamo diversi spunti di riflessione.
Anzitutto, riflettiamo sulle parole dei discepoli del Battista nei riguardi di Gesù, a cui neppure viene dato un nome: viene definito come ”colui che…”. Che paradosso! Giovanni dai suoi discepoli viene chiamato “rabbì”, maestro, mentre Gesù non ha neppure un nome.
Non possiamo non vedere in questo atteggiamento quasi sprezzante dei discepoli di Giovanni l’atteggiamento di sempre di gruppi o di movimenti sempre tra loro in competizione o, meglio, in contrapposizione. Gruppi o movimenti ecclesiali, a cui non interessa il Cristo, ma il loro leader, esaltato, perfino idolatrato, quindi portato all’eccesso, oltre quella virtù dell’umiltà per cui chi sta a capo dovrebbe servire, farsi ultimo.
Pensate alla parola “ministro”, che si usa sia nel campo ecclesiale che in quello politico. Ministro deriva dal latino “minus”, minore, uno che si fa meno degli altri.
Cristo stesso aveva dato l’esempio, chinandosi per lavare i piedi dei suoi apostoli: un gesto che anticamente era compiuto dagli schiavi.
Ho parlato di gruppi e di movimenti ecclesiali e del loro leader carismatico, e già dire carisma (parola che deriva dal greco “charis”, grazia, dono) dovrebbe farci riflettere su quanto sia essenziale mettere al centro la gratuità in ogni nostro agire.
Si riceve gratuitamente per dare gratuitamente.
Senza allargare il discorso al mondo politico, pensiamo ai guru e ai leader religiosi: non mi pare che siano consapevoli che in tutto sono debitori di quel Dio che loro stessi pretendono di servire. Più che il vero Dio, essi servono il loro dio, un idolo costruito sulla presunzione di imporre ai propri aderenti un parto, frutto di qualche perversione carnale.
Ma più che i movimenti o i gruppi ecclesiali è la stessa chiesa istituzionale da porre sotto accusa, e qui di nuovo sono pungenti le riflessioni di don Angelo Casati, quando commenta le parole di Giovanni il Battista: «Lui deve crescere; io, invece, diminuire».
Scrive don Angelo: «Frase folgorante, ma, confessiamolo, poco ricordata, e di conseguenza poco praticata: “Lui deve crescere; io, invece, diminuire”. Immaginate che sconcerto se dicessimo è bene che la chiesa diminuisca, che si guardi un po’ meno alla chiesa, che i suoi esponenti siano un po’ meno sotto i riflettori, che non ci sia una loro sovraesposizione mediatica, perché invece sotto i riflettori sia lui, sia Gesù! Non siamo infatti noi la salvezza del mondo. Non lo era Giovanni il battezzatore, tanto meno noi. E se avessimo il coraggio di proclamare…che noi siamo relativi, la chiesa è relativa, cioè è in funzione e in vista di un altro, non è lei un assoluto, l’assoluto è l’Altro, è Dio e il suo Messia, Gesù di Nazaret».
Che cosa dire d’altro? Da anni dico e ripeto queste cose. La Chiesa istituzionale è solo un mezzo, qualcosa di relativo all’Assoluto che è il Bene Sommo. Diciamo pure che la Chiesa istituzionale è relativa a Cristo, ma non al Cristo storico ma al Cristo risorto. È evidente che più la Chiesa ingrossa la propria struttura, più mette in serio pericolo il Cristo risorto. E allora la chiesa istituzionale deve dire: “Lui deve crescere, io invece diminuire”.
Nonostante che un Concilio ecumenico abbia cercato di tagliare i rami secchi, mi chiedo se sia possibile vedere nella Chiesa istituzionale il Cristo risorto.
Ecco la domanda: che sforzo fa ad esempio la nostra diocesi ad essere più funzionale al Cristo risorto? Specifichiamo: non avete l’impressione che la nostra diocesi tagli sì i rami secchi, ma sostituendoli con altri rami destinati ad essere secchi? E il rischio è maggiore trattandosi di una grossa diocesi, dove c’è la tentazione del fare e strafare, ma dimenticando la realtà più importante, che è lo spirito interiore.
E qui si pone un’altra domanda: chi è il vero maestro nella Chiesa istituzionale? La risposta la troviamo nel primo brano della Messa, che fa parte del capitolo 30 del libro di Isaia, dove si parla di Dio come maestro. Pare che il titolo di “maestro” fosse usato dai Cananei per indicare la divinità che concedeva oracoli. La parola ebraica “moreh”, “maestro”, deriva dalla stessa radice presente nel sostantivo “torah”, “ammaestramento”, “legge”. E la cosa ancor più interessante è che nel libro di Geremia la legge (“torah”) di Dio viene scritta dentro il cuore degli uomini.
Tornando al primo brano, il profeta si rivolge alla comunità ebraica di Gerusalemme promettendole in nome del suo Signore e maestro la fine della sofferenza. Dio si svelerà agli occhi e agli orecchi di Israele indicando la via della giustizia da seguire. Il popolo compirà una solenne abiura nei confronti di quegli idoli, dai quali sperava la fecondità e il benessere. Il profeta in nome di Dio invita: «“Questa è la strada, percorretela”, caso mai andiate a destra o a sinistra. Considererai cose immonde le tue immagini ricoperte d’argento; i tuoi idoli rivestiti d’oro getterai via come un oggetto immondo. “Fuori!”, tu dirai loro».
Ecco il vero maestro: colui che ha la missione di gridare “fuori” agli idoli carnali e anche agli idoli ingannevoli di una religione che non ha il coraggio di puntare all’essenziale. Mi chiedo se oggi tali maestri ci siano ancora. Ho l’impressione che si tenga il piede in due scarpe e che si abbia paura di dire in faccia la verità. E la verità è urlare: “fuori” gli idoli!

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