Omelie 2022 di don Giorgio: DECIMA DOPO PENTECOSTE

14 agosto 2022: DECIMA DOPO PENTECOSTE
1Re 3,5-15; 1Cor 3,18-23; Lc 18,24b-30
Questa Messa doveva essere quella vigiliare della Festa dell’Assunta, che si celebra domani. Ho preferito celebrare la Messa della domenica, Decima dopo Pentecoste, quindi con i testi diversi da quelli dell’Assunta.
Ma dirò subito che c’è un collegamento nei testi tra le due Messe. I brani di oggi riguardano la ricchezza, mentre i brani di domani riguardano il potere. Ricchezza e potere vanno a braccetto, e perciò la parola di Dio li condanna entrambi.
Nel primo brano della Messa, nella sua preghiera, Salomone chiede al Signore non le ricchezze o una sovrabbondanza di beni materiali, ma “un cuore docile, perché io sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male”.
Il Signore elogia Salomone per la sua richiesta, e la soddisfa, concedendogli “un cuore saggio e intelligente”.
Basterebbero queste due parole, “saggio e intelligente”, per capire dove sta la vera contrapposizione al dio denaro, che è dunque dissennatezza e tenebra.
Salomone, nuovo re d’Israele, per governare il suo popolo, che è il popolo eletto da Dio, non chiede ricchezza, ma saggezza. Poi, anche per Salomone, capiterà di allontanarsi dalla saggezza e quindi da Dio. Il potere contamina la testa, spegne l’intelletto, toglie appunto il discernimento, ovvero la capacità di distinguere il bene dal male.
Certo, il potere logora chi non ce l’ha perché lo vorrebbe, ma logora anche chi ce l’ha perché gli consuma il cervello.
Vorrei far subito notare come Salomone non dica il “mio” popolo. Il popolo è di Dio, e non del re o di chi lo governa. L’errore più grave di ogni potere umano o terreno è di accaparrarsi il popolo, così è successo e succede ancora per la religione: prendersi il popolo, e farne ciò che vuole, dimenticando che il popolo è di Dio.
Attenzione quando diciamo: il mio popolo, la mia gente, quasi il popolo o la gente fosse di nostra proprietà.
Ora vorrei insistere sul rapporto tra il denaro e la saggezza. Forse per questo, ovvero per la loro inconciliabilità, che i primi Padri della Chiesa sono andati giù duramente contro le ricchezze. Non solo Sant’Ambrogio, ma altri, ancora più spietatamente, hanno colpito ricchi e ricchezze.
Inutili e ipocriti i distinguo tra il denaro e il suo uso. Si sente dire: il denaro è buono in sé; tutto dipende dall’uso che se ne fa. Queste distinzioni sono pericolose. Basta allargare i confini dell’uso lecito, e tutto può diventare buono, anche possedere ville e patrimoni immensi.
Gesù Cristo al giovane ricco ha detto: «“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Però, udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”».
Anche qui quanti distinguo, quante interpretazioni tanto elastiche da non capire più il vero messaggio radicale di Cristo.
Gli esegeti seri solitamente usano questo criterio nel giudicare se un detto del Vangelo risale a Cristo oppure no: è la sua radicalità. Più è radicale, allora quel detto risale a Gesù.
Una cosa è certa: i ricchi difficilmente entreranno nel regno dei cieli. Poi lasciamo alla Grazia divina compiere i miracoli.
Tra le ricchezze e il mondo dello Spirito c’è un tale divario che è impossibile essere ricco di beni materiali e vivere di spiritualità.
Proprio per questo presso gli eremiti o i cenobiti era essenziale la rinuncia alle ricchezze. Credo che tra i tre voti, castità, povertà e obbedienza, quello sulla povertà fosse essenziale e fosse quello più disatteso, giustificandosi che il voto fosse personale, ma non strutturale. Come oggi, quando se voi entrate in certi conventi trovate un lusso tale che neppure c’è nelle case dei borghesi.
E allora non posso non richiamare il concetto di povertà presso i Mistici medievali. C’è una parola chiave, ed è il distacco.
Quando ho chiesto a Marco Vannini, il maggior storico vivente di Mistica di dirmi qualcosa sul peccato originale, mi ha risposto con due parole: “amor sui”, amore di se stesso, ovvero appropriazione, possesso, sorgente di potere, di avere, di sapere.
Amore di se stesso significa amore del proprio ego, di quell’ego che vuole tutto per sé: più si ha, più l’ego allarga le sue fauci per inghiottire ogni spazio per lo spirito.
La caratteristica dell’ego è che non è mai sazio, ed è qui il punto. Attenzione: l’insaziabilità riguarda soprattutto i desideri, che per me sono il vero stress del nostro spirito o mondo interiore. Desiderare di avere è più stressante dell’avere stesso, il quale, quando lo si possiede, rivela tutta la sua inconsistenza, e perciò richiede altro avere e così via. Come i bambini che fanno i capricci per avere un giocattolo, poi, avutolo, lo mettono da parte, chiedendone altri.
Noi abbiamo sbagliato tutto nell’educare i poveri, dando loro più del necessario o, per lo meno, creando in loro, questo sì, desideri di quell’avere, che ad esempio la nostra società occidentale pubblicizza come il non plus ultra.
Dovevamo, e dovremmo educare i poveri all’essenziale, ai loro diritti sacrosanti e ai loro doveri su cui i diritti sono fondati.
Ecco la saggezza: capire dove sta l’essenziale e dove sta il superfluo, capire fin dove arrivano i nostri diritti per non allargare troppo quelle pretese di avere che rappresentano uno squilibrio tra l’essere e l’avere.
Ogni diritto in più di avere va a pesare sui diritti e sui doveri dell’essere.
Una volta si sentiva dire dalla gente più semplice: ”A me basta poco, il puro necessario, e non mi interessa avere di più”. Questa era la saggezza dei nostri vecchi. Oggi si è entrati in un tale ingranaggio per cui ogni avere stritola se stesso, risucchiando altro avere, fin quasi all’infinito. Un circolo vizioso in cui si è vittime. Uscirne si può, ma bisogna fare un salto di qualità, se vogliamo uscire dal sistema tritatutto.
Salomone si è rivolto al Signore, chiedendogli un cuore docile che sappia distinguere il bene dal male, e Dio gli ha donato un cuore saggio e intelligente. Forse Dio sa quanto oggi abbiamo bisogno di saggezza e di intelligenza.

2 Commenti

  1. luigi egidio ha detto:

    Da mio padre ho imparato a vivere solo del necessario. Ancor oggi cerco di evitare il superfluo. Le ricchezze interiori sono migliori di quelle esteriori. Non so don Giorgio se hai conosciuto don Bruno Maggioni biblista. Mi aveva colpito un suo libro intervista “Solo il necessario”. A Osnago in una sua conferenza ero intervenuto un po’ invasato dai seguaci di Turoldo. Mi aveva colpito la sua risposta. Penso pur essendo meno famoso di Gianfranco Ravasi sia stato con Giuseppe Barbaglio e Rinaldo Fabris tra i più grandi biblisti italiani. Se penso ai preti e vescovi di oggi, capisco il perchè del declino della Chiesa. Oggi sarebbe bene riflettere su quello che ha scritto don Bruno Maggioni nel suo libro “Vangelo, chiesa e politica”: “Il rischio di certe letture politiche del Vangelo è quello di una riduzione del messaggio biblico alle «parole d’ordine» della propria ideologia; così, ad esempio, il tentativo di fondare sulla Parola il mito dell’ordine sociale o il mito della rivoluzione.”

    • Don Giorgio ha detto:

      Certo che ho conosciuto don Bruno Maggioni, ho avuto anche un incontro personale con lui, a Como. L’ho sempre preferito a Ravasi. Don Bruno era un dotto puntiglioso esegeta ma pastorale. Interessanti i suoi studi sui salmi e sulle parabole. E così via. Da leggere, smepre.

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