23 aprile 2017: SECONDA DI PASQUA
At 4,8-24; Col 2,8-15; Gv 20,19-31
Corpo, anima e… spirito
Secondo la concezione greca, e ripresa dallo stesso San Paolo nelle sue lettere, l’essere umano non è costituito solo da due elementi, corpo e anima, ma da tre elementi, corpo, anima e spirito. Lo spirito, che è la realtà più profonda, è stato dimenticato dalla stessa psicanalisi, la quale, come dice la parola (psiche significa anima), si limita a scandagliare l’anima, dimenticando però lo spirito, che è l’elemento più interiore, che i mistici chiamano “il fondo dell’anima”, ovvero la parte più profonda.
Dunque, il corpo in particolare, ma anche l’anima appartengono alla parte più esterna, lo spirito appartiene invece alla parte più interiore, più profonda dell’essere umano.
Al corpo è legato il cosiddetto piacere (d’ogni tipo), ma tutti quanti sappiamo, anche per esperienza personale, che questi piaceri corporali o fisici sono transitori: oggi ci sono, domani non più. Possono essere anche buoni, ma sono fugaci, passano in fretta, hanno il loro tempo, e, quando passano, lasciano spesso l’amaro in bocca.
All’anima è legata la cosiddetta felicità o serenità, che può essere una bella cosa, come contemplare un cielo stellato, oppure un bel dipinto, oppure gioire per una bella amicizia. Ma anche la felicità è transitoria: passa in fretta, non è eterna. Ecco, sia il piacere fisico che la felicità dell’anima sono legate alle circostanze, alla buona sorte come dicevano gli antichi. Cambia una circostanza, la buona sorte volta le spalle, e si torna nella infelicità.
Allo spirito invece è legata la “beatitudine”, ed è questa la realtà che veramente conta, perché risiede nello spirito, là dove è presente il Divino eterno. La beatitudine non è soggetta alle circostanze o alla buona sorte, ma permane immutabile. Usando l’immagine di un grande mistico, la porta può essere mossa e magari sbatte di qua e di là dalle circostanze di carattere fisico o dell’anima, ma resta sempre fissa sui cardini, che rappresentano lo spirito interiore che resta sempre fermo.
Ecco perché Gesù stesso parla di beatitudini. Chi non ricorda la pagina di Matteo delle beatitudini che fa da porta d’ingresso al Discorso della Montagna? Pensate a quel “Beati i poveri…”. Certo, Gesù non si riferiva ai poveri materiali, ma a coloro che cercano di liberarsi delle cose futili, delle cose transitorie, accessorie. L’evangelista Matteo specifica: “beati i poveri in spirito”, che non significa: poveri di spirito, ma al contrario: poveri nella libertà dello spirito, coloro che si sono liberati da ogni peso inutile.
Ed ecco perché con una beatitudine si conclude non solo il terzo brano di questa domenica, ma il quarto Vangelo. Il capitolo 21, secondo gli studiosi, sarebbe un’appendice aggiunta posteriormente dallo stesso autore o da un suo discepolo.
Qual è la beatitudine finale del quarto Vangelo?
Qual è allora la beatitudine finale del quarto Vangelo? Gesù dice a Tommaso, l’incredulo: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Possiamo anche tradurre le parole di Gesù al presente: beati coloro che non vedono, non toccano, non hanno bisogno di prove, di miracoli, di manifestazioni straordinarie, e credono. Qui sta la vera beatitudine: credere senza aggrapparsi a qualcosa di esteriore. I beati, secondo Gesù, sono coloro che vivono nello Spirito di Dio, che è del tutto interiore.
Mi chiedo se noi cattolici abbiamo veramente interpretato così le parole chiare di Gesù. Basterebbe pensare che ancora oggi per essere proclamati beati occorre una prova della santità, attraverso un miracolo e attraverso l’esercizio eroico delle virtù. Eppure Gesù ci ha detto che i veri beati sono coloro che hanno scoperto il segreto del loro essere, ovvero la parte più profonda che è la vita dello spirito.
La beatitudine, dunque, è qualcosa di grande, come dice il termine greco “macarios” (da macros, grande): grande, ma in rapporto all’ampiezza del nostro spirito interiore, il quale, più si spoglia di cose esteriori, di cose futili, di accessori, del superfluo, più dà spazio alla presenza del Divino in noi.
Paradossalmente, possiamo dire che siamo più grandi meno cose abbiamo, e siamo più piccoli più cose abbiamo. Secondo la logica terrena, non è così: felici sono coloro che hanno tanto, infelici sono coloro che hanno poco.
È per questo che il Vangelo non è stato preso sul serio. Sento ancora cristiani che dicono: Sì, Gesù ha detto questo o quest’altro, però… sì…, però… La nostra vita è piena di però: ma, se, però. E così poniamo le nostre riserve, le nostre condizioni, le nostre paure. Sì… però…
Quando ero chierico liceale a Venegono inferiore, il nostro Padre spirituale, don Ferdinando Baj, un prete eccezionale, un giorno ci fatto tutta una predica sul “però”. Ancora oggi, passati ormai 60 anni, me la ricordo. Siamo pieni di però, di ma, chissà, forse, e così mettiamo sempre le mani in avanti per paura di cadere, se osiamo troppo. Sì, il Vangelo è il nostro punto di riferimento, però… Gesù talora esagera, il suo Spirito è troppo esigente.
Dona lo Spirito mentre muore e alle prime apparizioni da Risorto
L’evangelista Giovanni scrive: Gesù, «chinato il capo, consegnò lo spirito». L’espressione può avere un doppio significato: morire, ma anche “donare lo Spirito”. Quindi, Gesù mentre muore fisicamente dona lo Spirito al mondo intero. Ancora. La sera del giorno di Pasqua, Gesù appare ai discepoli e, dopo averli salutati con il dono della pace, soffia su di loro, dicendo: “Ricevete lo Spirito santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Che significa uno Spirito dato per il perdono dei peccati? Commenta don Angelo Casati: «Perché altrimenti non è vita, altrimenti è vivere nell’incubo del peso di un passato, di un passato di ingiustizia. Perdono come sciogliere da tutto ciò che è chiusura, che è disamore, che è indifferenza, da tutto ciò che occupa, da tutto ciò che ci allontana dall’essere umani, per alitare ancora in noi il soffio di una vita libera, appassionata, aperta, solidale, bella, umanamente ricca. Perdono come guardare in avanti. Se no, non è risurrezione, ma proseguimento di opere di morte. E che speranza sarebbe?».
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