Omelie 2012 di don Giorgio: Seconda domenica dopo la Dedicazione

4 novembre 2012: Seconda dopo la Dedicazione

Is 56,3-7; Ef 2,11-22; Lc 14,1a.15-24

Come ho già detto e ripetuto più volte, il libro di Isaia è diviso in tre parti: la prima, comprendente i capitoli dall’1 al 39, è opera del profeta Isaia, vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo a.C.; la seconda parte, che va dal capitolo 40 al 55, è opera di un profeta anonimo dallo stile diverso e originale (chiamato dagli studiosi “secondo Isaia”), vissuto negli anni successivi al 538 a.C., quando il re persiano Ciro, vinti i Babilonesi, aveva permesso agli Ebrei esuli di ritornare nella terra dei padri, abbandonata nel 586 a.C., al momento della distruzione di Gerusalemme; la terza parte, che va dal capitolo 56 al 66, è attribuita a un altro profeta anonimo, che gli studiosi chiamano “Terzo Isaia”, vissuto durante la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e negli anni successivi (dal 520 a. C. in avanti). Tra il primo Isaia e il Terzo c’è una distanza di due secoli. Questo è importante per comprendere il libro che va sotto il nome generico di Isaia.
Il Terzo Isaia si apre con la pagina di oggi, dove si dipinge un orizzonte universalistico di salvezza. Il profeta, per dare ancor più risalto a questa visione così aperta di un Dio che salva tutti, prende come esempio due categorie estreme: gli eunuchi e gli stranieri. Gli eunuchi erano i castrati, gli evirati, i mutilati sessualmente, per renderli incapaci di generare.  L'istituto dell'evirazione ha caratterizzato un gran numero di società e di culture, in età antica, medievale e moderna, in Europa, Asia e Africa. Ciò era essenzialmente dovuto alla grande richiesta di persone a cui poter affidare, senza timore, delicati compiti di sorveglianza dei ginecei (case o ambienti dove vivevano molte donne), ma anche per impedire l'adozione di pratiche nepotistiche, nel caso si fosse deciso di affidar loro importanti e delicate funzioni, civili, militari o religiose o, infine (in caso di evirazione in età prepuberale), per esaltare il registro alto canoro, specialmente ricercato nei cori ecclesiastici o di teatro civile dove, fino all'età moderna, fu impedito il ricorso a rappresentanti del "gentil sesso" sostituite da voci bianche (nel Settecento fu celebre il soprano Farinelli).
Ora, con il ritorno dall’esilio babilonese la comunità ebraica aveva al suo interno la presenza di eunuchi assunti al servizio della corte babilonese, prima, e persiana poi. Inoltre i matrimoni misti avevano introdotto figure straniere nell’ambito d’Israele. Nel libro del Deuteronomio le prescrizioni a riguardo degli eunuchi e degli stranieri erano molto chiare e restrittive: si proibiva loro ogni partecipazione al culto. Per capire maggiormente la novità contenuta nel capitolo 56 del Terzo Isaia, gli stessi Esdra e Neemia, i due artefici della ricostruzione del popolo ebraico dopo il ritorno dall’esilio babilonese (Esdra, sacerdote, ha curato la parte religiosa, Neemia, funzionario diciamo statale, si preoccupò della parte civile), furono severi nell’escludere gli stranieri dalla comunità ebraica.
Come potete constatare, l’apertura universalistica del brano di oggi ha trovato sempre una tenace resistenza. Gesù riprenderà le parole del profeta, in riferimento al Tempio come “casa di preghiera per tutti i popoli”. E darà un colpo fatale all’esclusivismo ebraico, ma, nonostante questo, non sarà facile neppure alla Chiesa cattolica (“cattolico” vuol dire universale) superare le barriere e gli steccati di una religione, sempre tentata di chiudersi, di escludere o di far propri i proseliti, i convertiti alla causa del Vangelo.
Mi vengono sempre in mente le dure parole di Gesù: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito, e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi”.
Nella sua lettera ai cristiani di Efeso, l’apostolo Paolo scrive che Cristo è venuto per abbattere “il muro si separazione” tra credenti e non credenti, tra i vicini e i lontani, divisi tra loro dalla legge, che l’apostolo chiama “l’inimicizia”. In Cristo non ci sono più “stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio”. Parole di una chiarezza estrema, eppure cadute nel dimenticatoio, appena la Chiesa si è fatta di nuovo religione, perciò dividendo, separando, escludendo. Anche la parabola del Vangelo di oggi è esplicita: “Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”. Tutti devono partecipare al banchetto, che simboleggia il nuovo regno di Dio.
C’è ancora oggi il problema dei lontani a causa della fede e c’è il problema degli esclusi, perché emarginati dalla società. La Chiesa migliore, quella profetica, non quella gerarchica, che è la Chiesa peggiore, ha sempre sentito il problema dei lontani e degli esclusi. La Chiesa del dialogo, la Chiesa dei ponti lanciati sul mondo moderno. La Chiesa dalle porte e dalle finestre aperte. Sì, la Chiesa dei profeti. Starei attento a dire la Chiesa dei martiri o dei santi in genere, che hanno servito più la Chiesa gerarchica che quella profetica. Talora la Chiesa gerarchica o ufficiale o la Chiesa struttura-religione si nutre del sangue dei martiri o della testimonianza eroica dei santi, per auto-conservarsi e per garantirsi più potere. Sì, la Chiesa migliore è la Chiesa che si apre all’Umanità in tutta la sua realtà esistenziale. La Chiesa dei poveri.
In questi giorni stiamo celebrando il cinquantesimo anniversario dell’apertura ufficiale del Concilio Vaticano II. Tutti diciamo che ci è voluto un grande coraggioso Papa, come Giovanni XXIII, per proporlo alla Chiesa universale. È vero. Ma non si può dimenticare che un avvenimento, positivo o negativo, non è mai opera di un singolo, neppure di un insieme di circostanze casuali o di improvvise ispirazioni divine o diaboliche. Ad esempio, il Concilio Vaticano II è stato preparato da profeti che hanno spinto con le loro aperture la Chiesa a interrogarsi sulla sua coerenza o incoerenza evangelica. Parliamo di precursori del Concilio, che ha saputo raccogliere quelle voci e farle proprie. Certo, ce n’è voluto di tempo, certo ce n’è voluto di sangue, e per sangue intendo anche quello versato a causa di scomuniche, di solitudini, di emarginazioni. I Padri conciliari non inventano sul momento i documenti che poi daranno un passo diverso alla Chiesa. Nei documenti, ad esempio, del Concilio Vaticano II noi troviamo le aperture di profeti del passato che hanno spinto la Chiesa di allora ad aprirsi, ad interrogarsi. Uno di questi precursori del Concilio è stato don Primo Mazzolari, che nel febbraio del 1959 (due mesi prima della sua morte) è stato ricevuto in udienza privata da Papa Giovanni XXIII che lo ha salutato pubblicamente come "Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana". Il mese prima, il 25 gennaio il Papa aveva annunciato al mondo l’intenzione di aprire un Concilio.
Don Mazzolari è conosciuto come il parroco dei lontani, proprio per l’insistenza con cui invitava la Chiesa a lanciare i ponti con l’umanità, fuori dagli schemi di una religione chiusa e sulle difensive. Sono note le critiche e le scomuniche che don Primo ha subito a causa del suo libro “La più bella avventura”, un commento coraggioso della parabola del figliol prodigo, in cui il sacerdote cremonese aveva contestato una Chiesa ingessata, rappresentata dal figlio maggiore che se la prende per il ritorno a casa del fratello più giovane che era uscito in cerca di avventura, ed ora abbracciato dal padre.
C’è un libretto che, a suo tempo, avevo pubblicato a puntate anche sul mio sito, dal titolo: “I lontani”, con la presentazione di Mario Miglioli, sindaco di Bozzolo, paese dove don Mazzolari aveva svolto il suo ministero pastorale. Scrive il sindaco: «Spesso don Primo parlava dei lontani, i quali erano tormentosamente presenti nella sua mente e nel suo cuore. Ne parlava con accenti accorati, con tanta comprensione, con l'ansia dell'apostolo che vuol rimuovere gli ostacoli, che vuole fare innamorare della verità coloro che la verità non vedono ancora, che non conoscono la bellezza e il calore della Casa del Padre. Ne parlava nei suoi scritti, nelle conversazioni intime del suo studio – quasi sfogo di un'anima pervasa di amore per i fratelli – ne parlava nelle sue prediche, nei suoi discorsi. Si può dire che l'assillo più cocente, più doloroso di don Mazzolari fosse quell'atmosfera immobile, elusiva, staccata che a volte stagna tra "quelli di casa" e favorisce i distacchi, acuisce l’indifferenza, non dispone i lontani alla ricerca della fede ed ostacola i ritorni. Don Mazzolari considera sia i prodighi che ad un certo momento rimpiangono, possono rimpiangere, l'intimità domestica perduta e la confidenza del Padre e nel Padre; sia coloro che mai la gioia di quella intimità hanno conosciuta, come dei fratelli da invogliare, da indirizzare alla sicurezza dell'approdo, ove sia pronto l'abbraccio commosso e la festa più sinceramente affettuosa. Il libro di don Primo è un richiamo alle nostre personali e collettive responsabilità; di noi cristiani incapaci di entusiasmi, incapaci forse di male ma forse anche di bene; di noi, gente amorfa, fossilizzata, dagli orizzonti limitati e dalle confuse ed opache prospettive, senza angosce salutari, paga della routine quotidiana e della calma domestiche. "Lasciamo parlare i lontani" è l'invito che il Concilio ha pensosamente raccolto e dilatato con rinnovata sollecitudine verso i fratelli che hanno smarrito la via».
Don Mazzolari è anche conosciuto come il parroco degli ultimi e dei poveri. Forse nessun altro prete ha parlato come lui dei poveri: dell’urgenza che la Chiesa si apra ai più diseredati. Anche in questo è stato un precursore del Concilio, che, sotto la spinta di alcuni vescovi, ha messo in primo piano ciò che poi verrà chiamata la “scelta privilegiata dei poveri”. Non tutti conoscono “Il Patto delle catacombe”.  Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, hanno firmato il “Patto delle Catacombe”. Il documento era una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII. I firmatari – fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto – si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti.
Due firmatari: il cardinale Giacomo Lercaro e Helder Câmara, vescovo brasiliano. Famose le parole di quest’ultimpo: “Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista”.

 

2 Commenti

  1. Luciano ha detto:

    Grazie don Giorgio. da questa sua omelia, ho appreso che il libro del profeta Isaia, è stato coredatto anche da altri profeti anonimi. Ho sentito parlare di don Primo Mazzolari ma non ho mai approfondito la sua figura, attingendo dagli scritti che ha lasciato. Mi ha dato lo stimolo ad approfondire questa figura profetica e precursore del Concilio Vaticano II. Mi ha fatto conoscere da cosa è scaturita la Teologia della Liberazione. Sono convinto che la Chiesa profetica non potrà restare a lungo nascosta. La società umana (disumana) del terzo millennio, è allo sbando e ha un bisogno immenso di ritrovare la Strada e la Fiducia nel percorrerla. Grazie per il suo prezioso contributo che tanto bene mi fa e che mi aiuta ad andare avanti, nonostante la durezza e l’acredine di questa inutile chiesa gerarchica che tenta di svilire in ogni modo il Messaggio Evangelico che il Cristo vivo, continua a trasmettere con la Sua Parola. Buona Festa.

  2. bruno ha detto:

    caro Don Giorgio è propio vero che noi cristiani parliamo bene, ma poi razzoliamo male. Mi sono piaciute infinitamente le parole del cardinale Helder Camara. Saluti Bruno

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