Pasqua

 

Pasqua

Cosa significa la parola “Pasqua”?
Deriva dal greco: pascha, a sua volta dall’aramaico pasah e significa propriamente “passare oltre”, quindi “passaggio”. Gli Ebrei ricordavano il passaggio attraverso il mar Rosso dalla schiavitù d’Egitto alla liberazione. Per i cristiani è la festa del passaggio dalla morte alla vita di Gesù Cristo.
Quali sono le origini di questa festa?
Presso gli ebrei la Pasqua (Pesach) era in origine legata all’attività agricola ed era la festa della raccolta dei primissimi frutti della campagna, a cominciare dal frumento. Altre feste, solo per ricordarle, erano la Festa delle Settimane, che celebrava la raccolta del grano ai primi di giugno, e la Festa dei Tabernacoli, cioè della vendemmia, a settembre. In seguito, la Pasqua diventa la celebrazione annuale della liberazione degli ebrei dalla schiavitù, significato che si aggiunse all’altro, come ricordo della fuga dall’Egitto e del fatto che con il sangue degli agnelli si fossero dipinti gli stipiti delle porte affinché l’angelo sterminatore, come dice la Bibbia, passando da quelle case, risparmiasse i primogeniti. Ancora oggi, la cena pasquale presso gli Ebrei si svolge secondo un preciso ordine detto Seder. Ci si nutre di cibi amari per ricordare l’amarezza della schiavitù egiziana e la stupore della libertà ritrovata. Per celebrare la Pasqua gli israeliti al tempo di Gesù ogni anno si recavano a Gerusalemme. Anch’egli vi si recava. La sua morte avvenne, infatti, in occasione della pasqua ebraica. Egli per i cristiani è l’agnello pasquale che risparmia dalla morte, il pane nuovo che rende nuovi (cfr 1Cor 5,7-8)
Perché si mangia l’agnello?
La tradizione di consumare l’agnello per Pasqua deriva dalla Pesach, la Pasqua ebraica. Infatti l’agnello fa parte dell’origine di questa festività. In particolare si fa riferimento a quando Dio annunciò al popolo di Israele che lui lo avrebbe liberato dalla schiavitù in Egitto dicendo “In questa notte io passerò attraverso l’Egitto e colpirò a morte ogni primogenito egiziano, sia fra le genti che tra il bestiame”. Ordinando, così, al popolo d’Israele di marcare le loro porte con del sangue d’agnello in modo che lui fosse in grado riconoscere chi colpire col suo castigo e chi no. Inoltre in passato esisteva un comandamento riguardo la Pasqua ebraica che diceva di fare l’offerta dell’agnello il giorno 14 del mese ebraico di Nisan e di consumare quella stessa notte il sacrificio di Pesach. Con il Cristianeismo, il simbolo dell’agnello immolato per la salvezza di tutti diventa Cristo stesso e il suo sacrificio ha valore di redenzione.
Perché la data della Pasqua è mobile?
Perché è legata al plenilunio di primavera. La datazione della Pasqua, nel mondo cristiano fu motivo di gravi controversie fra le Chiese d’Oriente e d’Occidente, la prima era composta da ebrei convertiti e la celebrava subito dopo la Pasqua ebraica e cioè nella sera della luna piena, il 14 Nisan, primo mese dell’anno ebraico; quindi sempre in giorni diversi della settimana. Solo con il Concilio di Nicea del 325, si ottenne che fosse celebrata nello stesso giorno in tutta la cristianità e cioè adottando il rito Occidentale, fissandola nella domenica che seguiva il plenilunio di primavera. Oggi la celebrazione cade tra il 22 marzo e il 25 aprile denominandola così Pasqua bassa o alta, secondo il periodo in cui capita. Essendo una festa mobile, determina la data di altre celebrazioni ad essa collegate, come la Quaresima, la Settimana Santa, l’Ascensione, la Pentecoste. La Chiesa contempla per i cattolici l’obbligo del Precetto Pasquale, cioè confessarsi e ricevere l’Eucaristia almeno una volta nel periodo pasquale.
Perché si mangiano le uova?
La tradizione di decorare uova risale già ai primi cristiani che pitturavano le uova di rosso, per ricordare il sangue di Cristo, e le decoravano con croci o altri simboli (una tradizione che dura ancora oggi nei paesi ortodossi e cristiano-orientali). La simbologia dell’uovo è evidente: dall’uovo nasce la vita che a sua volta veniva associata con la rinascita del Cristo e quindi con la Pasqua. In realtà, le uova decorate secondo questa simbologia sarebbero andate bene anche per il Natale, in occasione della nascita di Cristo, ma secondo alcuni studi la tradizione delle uova pasquali venne rafforzata da un’usanza tipicamente pasquale: la Quaresima, il periodo di quaranta giorni prima della Pasqua nel quale i credenti sono tenuti al digiuno e all’astinenza. In questo periodo è vietato mangiare carne. In passato, e tuttora nelle chiese cristiane orientali, era vietato mangiare anche le uova. Era difficile però costringere le galline a non depositare uova in quel periodo, così i primi cristiani si trovavano con un surplus di uova che non potevano mangiare. Dalla necessità di farci qualcosa sarebbe nata la tradizione di bollirle fino a farle diventare dure come sassi e poi dipingerle con colori sacri e simbolici.

Superfluo

Dal latino super, oltre, e fluo, scorrere, con significato di: traboccante, eccedente, ciò che è più del bisognevole o del conveniente, perciò qualcosa di inutile, di inessenziale.
Il motto μηδὲν ἄγαν, «niente di troppo», scolpito, secondo la tradizione, nel tempio di Apollo in Delfi e attribuito al dio stesso o a vari sapienti dell’antichità ripete l’invito a evitare le esagerazioni e raccomanda la moderazione necessaria in ogni cosa.

Carnevale

Esistono diverse ipotesi riguardanti l’origine del nome Carnevale. L’etimologia corrente risulta essere ancora il basso latino carne(m) levare, alludendo ai giorni che precedono la Quaresima, periodo di digiuno nelle religioni cristiane. Anche il sinonimo antico carnasciale avrebbe un’origine simile: carne(m) laxare, riferito al divieto di mangiare carne in Quaresima, subito dopo il Martedì grasso.
Come sottolinea il linguista Clemente Merlo nel suo saggio I nomi romanzi del Carnevale (1911, 1934), secondo questa spiegazione l’idea insita nel Carnevale non sarebbe tanto il godimento della festa, quanto la privazione, ossia il digiuno dalla carne richiesto dalla Quaresima. Si accosta bene a questa riflessione la descrizione che Carla Poesio ha fatto di Lotta tra il Carnevale e la Quaresima, quadro di Pieter Brueghel del 1559: «Ben presto la Quaresima diventò un personaggio come Carnevale. È una vecchia brutta, lunga e stecchita che col Carnevale si incontra, o meglio si scontra, perché sono completamente diversi l’uno dall’altra. Uno ama la gioia, l’altra la mestizia; uno apprezza la buona tavola, l’altra prega e si lamenta» (Poesio C.,Vivere il Carnevale, Ed. della speranza, Firenze, 1984).
Carnevale, una festa di naviganto?
Il linguista Mario Alinei ci invita a fare un passo indietro, precisamente al rito del Navigium Isidis. Le origini del nome Carnevale sarebbero da ricondurre al carrus navalis ossia il carro della dea Iside, portata in processione come patrona dei navigatori su un battello a ruote, tra le danze e i canti della popolazione. (Alinei M., “Carnevale”, dal carro navale di Iside a Maria Stella Maris, in Quaderni di sematica, Vol. 34., n. 1, 2013, pag. 9-37).
Il culto isiaco si teneva nelle città marittime e fluviali il 5 marzo (navigium Isidis) quando si riapriva la navigazione. I rituali cominciavano all’alba: il carro, custodito durante l’inverno nel tempio, veniva trasportato in mare, o sul fiume, per festeggiare la dea e inaugurare la nuova stagione della navigazione.
A ben pensarci i più famosi Carnevali, con i loro “carri navali” allegorici, sono quelli che si festeggiano, o si festeggiavano, in città sul mare, come Viareggio, Venezia e Rio de Janeiro, o su grandi fiumi, come Colonia e Basilea sul Reno, e Roma sul Tevere. (Di Cocco G., Alle origini del carnevale. Mysteria isiaci e miti cattolici, Ed. Pontecorboli, Firenze, 2007). È Lucio Apuleio, ne Le Metamorfosi a regalare una dettagliatissima descrizione della festa del Navigium Isidis.
Ritroviamo in essa la cura per i travestimenti che venivano adottati in quell’occasione: «Ed ecco che lentamente cominciò a sfilare la solenne processione. La aprivano alcuni riccamente travestiti secondo il voto fatto: c’era uno vestito da soldato con tanto di cinturone, un altro da cacciatore in mantellina, sandali e spiedi, un terzo, mollemente ancheggiando, tutto in ghingheri, faceva la donna: stivaletti dorati, vestito di seta, parrucca. C’era chi, armato di tutto punto, schinieri, scudo, elmo, spada, sembrava uscito allora da una scuola di gladiatori; e non mancava chi s’era vestito da magistrato, con i fasci e la porpora e chi con mantello, bastone, sandali, scodella di legno e una barba da caprone, faceva il filosofo, due, poi, portavano delle canne di varia lunghezza, con vischio e ami, a raffigurare rispettivamente il cacciatore e il pescatore…».
Come ricorda Mario Alinei, nel periodo delle origini del Cristianesimo la festa, che aveva ancora il nome di Navigium Isidis, aveva conosciuto l’opposizione delle prime autorità cristiane. Opposizione che aveva fatto sì che in Italia la festa cessasse ufficialmente di essere celebrata nel 416, per continuare però a livello popolare con il nome di Carnevale. Nei secoli successivi il Carnevale diventò una festa riconosciuta, organizzata e regolamentata anche dalle autorità.
Il Carnevale è un rito popolare
È fin qui evidente come l’etimo del nome Carnevale rappresenti solo l’inizio di uno sfaccettato percorso all’interno della dimensione storico-sociale di questa ricorrenza. Basti pensare all’analisi che di essa ha fatto Michail Bachtin nella celebre dissertazione L’opera di Rabelais e la cultura popolare: egli vede nel Carnevale la massima espressione della ritualità popolare, una forma di spettacolo molto complessa, polimorfa, che, pur avendo una base comune tra i popoli, si esprime in sfumature diverse a seconda dei luoghi, delle mentalità, delle epoche (Bachtin M.M., 1965).

Universo

Universo: tutto ciò che esiste. Passando alla etimologia, la parola ha a che fare con il numero “uno” e con l’atto della rotazione, “versus”. Viene naturale, quindi, pensare che alla base del termine ci sia l’osservazione del sorgere e del tramontare degli astri, una osservazione antichissima.
Eppure il termine non viene ritrovato prima di Lucrezio. Di cosa parlavano i Romani, quindi, prima di Lucrezio quando volevano indicare il tutto nel quale vivevano? Ce lo spiega Varrone nelle Menippeae “… quello che noi chiamiamo mondo perchè è puro, per i greci è kosmos perchè è adornato”. Sto divagando un pò per dire che il concetto di Universo, partito da puro, adornato e quindi elegante è passato a quello di unico in rotazione nel medioevo.
Forse sarebbe più semplice e intuitivo pensare a quest’altra etimologia: verso l’uno. Veniamo dall’Uno e torniamo all’Uno, solo in questo ritorno si ricompone quell’unità frammentata da una società alienata e alienante. In fondo è l’antico pensiero greco che parlava di cosmo, che significa ordine, armonia, logos unificante.

Semaforo o semafero?

Semaforo o semafero? Vi siete mai chiesti quale delle due versioni è corretta?
Il termine deriva da una parola francese, “sémaphore”, un antico strumento ottico, antenato del telegrafo, inventato in Francia dai fratelli Chappe nel XVIII secolo (conosciuto appunto anche come “telegrafo ottico”). Si trattava di uno strumento provvisto di una torre su cui era installato un braccio rotante che portava alle estremità due bracci minori; al tutto si facevano assumere configurazioni standard di lettere, numeri e ordini di servizio. Da una postazione successiva, distante diversi chilometri, un addetto dotato di cannocchiale riceveva il messaggio e lo ripeteva alla stazione ancora successiva.
Affine a questo sistema è il cosiddetto “alfabeto semaforico”, una sorta di linguaggio dei segni, utilizzato specialmente nella marineria e simile come concezione all’alfabeto morse, composto da diverse posizioni combinate delle due braccia recanti in mano due bandierine colorate.
Solo in seguito il termine “semaforo”, chiaramente ricalcato sul suo omologo francese, ha finito per identificare il più celebre dei segnali stradali, amato quando odiato quanto ancora utile, utilizzato non soltanto in ambito stradale, ma anche ferroviario e nautico.
Ultimamente, poi, il semaforo è entrato anche nel campo dell’informatica, dove con questo termine si designa un tipo di dato astratto (Abstract Data Type) gestito da un sistema operativo multitasking per sincronizzare l’accesso a risorse condivise tra task (cioè processi o thread), composto da una variabile intera e dalla sua interfaccia, e da una coda di processi.
Da questa sommaria descrizione si può già intuire che il semaforo ha sempre avuto una funzione di “segnalazione”. Ebbene, il termine “sémaphore” ha infatti una stretta affinità con il significato di “segno”. Esso deriva dall’unione di due termini di origine greca: il primo è σήμα (sèma), che significa, appunto, “segno”, mentre il secondo è φέρω (phéro), che significa “portare”, da cui anche φορεύς (phoréus), “portatore”. Il significato letterale di “semaforo” è quindi “ciò che porta”, “portatore di segni”.
Ora… tutti sappiamo che il termine corretto sarebbe “semaforo”. Tuttavia, è noto che spesso si sente dire, specialmente da persone di una certa età, anche “semafero”. E’ curioso, quindi, notare come i nostri amici anziani, pur dicendo un termine scorretto in italiano, al contempo lo pronuncino secondo la sua costruzione più prossima all’originale greco.
Un’ultima curiosità è legata all’origine dei colori tipici del semaforo. Essi derivano direttamente dal linguaggio visivo già usato in precedenza nelle ferrovie e nella marina . Per i macchinisti dei treni, infatti, “verde” significa “via libera”, “rosso” significa “stop” e “giallo” “preavviso di arresto”.
In mare, in cui ha precedenza chi arriva da destra, le navi e i porti hanno un’illuminazione convenzionale con il lato destro (tribordo) verde e quello sinistro (babordo) rosso.
Usare questi colori, è dunque una convenzione universalmente riconosciuta, alla base della quale c’è il fatto che da sempre il rosso richiama l’attenzione e segnala pericoli, mentre il verde “rilassa”. Quello che non è universale, invece, è la sequenza di apparizione dei colori nei semafori: in Italia l’arancione compare dopo il verde per avvisare dell’arrivo del rosso, in altri paesi compare anche assieme al rosso per preannunciare l’imminente via libera del verde.

Disorientamento

Dal dizionario: «il disorientamento  è la perdita del senso dell’orientamento spazio-temporale: è un disturbo caratterizzato dall’incapacità di collocarsi adeguatamente entro le condizioni di tempo e luogo, nonché rispetto alla propria persona e all’ambito in cui ci si trova. Il soggetto appare quindi smarrito, confuso e presenta difficoltà a coordinare i movimenti».
La parola “disorientamento” è composta di dis- e orientamento (che deriva da “oriente”). Il dis è negativo, e perciò chi è dis-orientato manca di orientamento, ovvero ha perso di vista l’oriente, là dove sorge il sole: ecco perché diciamo che il dis-orientato ha le idee confuse, vive al buio, non trova la strada giusta.

Inverno

L’etimologia della parola inverno deriva dalla radice sanscrita him– = freddo, che ritroviamo nel latino hiems = inverno, freddo, gelo… o anche nel latino him-ernum (sottinteso tempus) poi divenuto hibernum ( da cui ibernazione = congelamento).
Anche nel greco antico χειμών (cheimon) = freddo, inverno troviamo traccia di tale radice.
Inverno, quindi, significa tempo che appartiene (il suffisso -ernum indica appartenenza) al freddo, stagione gelida.

Eleganza

A proposito di elegante: sapete da dove deriva questa affascinante qualità estetica? La lingua di provenienza stavolta è quella di intellettuali del calibro di Petronio (non a caso definito dalla corte di Nerone un vero e proprio arbiter elegantiae, cioè giudice di raffinatezza).
Per capirci di più dobbiamo osservare il verbo eligere, derivato da ex (tra) e ligere (scegliere): una persona elegante non aveva, pertanto, chissà quale dote innata, bensì una capacità acquisita col tempo di scegliere, di selezionare un elemento specifico tra una rosa di possibilità, grazie a un concentrato di stile e di buon gusto.

Filibustiere

ETIMOLOGIA
dall’inglese freebooter composto di free libero booty bottino – saccheggiatore libero, nome con cui venivano indicati i bucanieri inglesi.
PAROLA DELLE ORIGINI
Filibustieri, bucanieri, corsari, pirati. Vogliono dire la stessa cosa? Non esattamente.
I bucanieri erano dei cacciatori di frodo dell’entroterra, che traevano il loro nome da [boucan] la graticola su cui arrostivano la carne – secondo l’usanza dominicana del [barbicoa], da cui deriva [barbecue]. Rozzi e non ben organizzati, la loro storia cambiò con una particolare alleanza.
Dei fuggitivi olandesi, francesi e inglesi, cacciati dagli Spagnoli da altre isole delle Antille, si riunirono sull’isola di Tortuga all’inizio del XVII secolo, e con la connivenza istituzionale dei rispettivi Stati fondarono la “Filibusteria”, associazione che assaltava i ricchi possedimenti e i galeoni spagnoli. Ma l’appoggio istituzionale non era ufficiale, e in questo i filibustieri si distinguevano dai corsari, che invece possedevano una “lettera di corsa” o “di marca” firmata dal sovrano, con cui erano autorizzati a saccheggiare le navi mercantili nemiche (mentre i pirati erano fuorilegge autocratici, senza alcun legame istituzionale). Ad ogni modo l’odio comune per gli Spagnoli fece unire i bucanieri ai filibustieri, e il nome di questi ultimi ebbe una tale risonanza da essere utilizzato anche nel Vecchio Continente per indicare le bande di saccheggiatori; infine questo termine passò ad indicare semplicemente le persone disoneste, con un colore che rifacendosi a tanta storia impreziosisce il discorso in cui sia inserito.
Finito il 1700, le potenze marittime decisero di porre fine al potere della Filibusteria, e i filibustieri dei Caraibi furono dispersi, sopravvivendo come avventurieri in Africa e nel Pacifico – finché anche le ultime parti bianche della cartina del mondo non furono riempite.

 

Sicofante

Restiamo nell’antica Grecia, ma dalla casa ci spostiamo all’esterno. Secondo la teoria più accreditata, infatti, sicofante deriva da σῦκον (sukon), cioè fico, e da φαίνειν (fainein), ovvero indicare.
In altre parole, il sicofante era chi denunciava i ladri di fichi sacri, oppure gli esportatori di fichi dall’Attica alle autorità.
Quest’ultima operazione godeva di una cattiva fama perché di fichi si cibavano soprattutto le persone più povere, motivo per cui, se se ne indicavano i responsabili, non si era uno spione nel senso negativo di oggi, anzi: quando si vinceva il processo si veniva addirittura ricompensati per la segnalazione.

Balordo

Il valore semantico di balordo risulta piuttosto aggrovigliato, specificandosi in base al contesto.
Dalla consultazione dei principali dizionari dell’uso si evince che due sono i significati fondamentali: quello di ‘sciocco, insensato’ e quello di ‘sbandato, poco raccomandabile, malvivente’.
Nell’uso attuale, a questi due significati se ne può aggiungere almeno un terzo, connesso al primo: è quello di ‘stordito, intontito, per stanchezza, sonno, stupore e sim[ili]: mezzo balordo dal vino’ (così Zingarelli 2022, che però lo considera di uso raro o letterario), significato cui peraltro si riferisce l’esempio probabilmente più noto di balordo, che si incontra nel II capitolo dei Promessi Sposi (cfr. GDLI, s.v.)
La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, [don Abbondio] si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: “Perpetua!”.
Per quanto riguarda l’etimologia della voce, essa è discussa, ma parrebbe derivare dall’antico francese beslourd, formato dall’unione dell’intensificatore latino bis- ’doppio, doppiamente’, qui impiegato con valore peggiorativo, e del latino parlato *lŭrdu(m) per lūridu(m) ’pallido’, da cui ‘sbalordito’. Il francese balourd, “data la sua tarda apparizione – sec. XVI – può essere un italianismo” (DELI) e in effetti come tale è registrato in DIFIT, che lo attesta in varie accezioni nel francese e nel tedesco; in particolare, balordo è entrato in tedesco sia come prestito indiretto (balourd, attraverso il francese) sia come prestito diretto (Balordo, “1860-65: Personaggio della Commedia dell’arte […]”).

Ambaradan

L’ambaradan è il risultato di un’accozzaglia disordinata e illogica di scelte, un caos a tutti gli effetti, che può addirittura sfociare in una baraonda o in un’operazione difficile da portare a termine, se non si fa affidamento su una gran dose di impegno e di organizzazione.
Questo perché, secondo alcune teorie, la sua etimologia coinciderebbe con il nome proprio Amba Aradam, massiccio montuoso situato in Etiopia e nei dintorni del quale, nel 1936, l’Italia combatté contro l’esercito abissino e vinse dopo una cruenta battaglia, passata alla storia per la sua confusione e difficoltà.

Ostracizzare

Tra le parole greche che derivano dall’italiano, ostracizzare occupa un posto di rilievo per il fascino della storia che sta dietro a questo termine.
La parola ostracizzare deriva infatti dagli ostraka, che significa “conchiglia” (e da cui deriva anche ostrica), ma questa parola veniva anche utilizzata per indicare dei frammenti di ceramica su cui i cittadini greci scrivevano il nome di una persona che volevano punire con l’esilio temporaneo dalla città.
La pratica, detta ostracismo, non è più in voga, ma il termine è rimasto e oggi ostracizzare significa appunto “emarginare”.

Robot

La sua origine è da far risalire alla lingua ceca, e in particolare al testo teatrale R.U.R. dello scrittore cecoslovacco Karel Čapek (1890-1938), nel quale apparve per la prima volta nel 1920.
Si trattava già allora di una derivazione dal sostantivo robota, cioè lavoro forzato, proveniente dall’antico termine slavo rabota (schiavitù).
Nella visione dell’autore, quindi, il robot era un operaio artificiale non meccanico, una replica semplificata dell’uomo, che veniva impiegato per lavorare per (o con) lui.

A bizzeffe

Definizione
Utilizzata solo nella locuzione avverbiale “a bizzeffe”, che significa “in gran quantità”.
Etimologia
Forse dall’arabo bizzāf, “molto”.
Di parole strane nella lingua italiana ce ne sono… a bizzeffe! E questa è certamente una di quelle. Utilizzata esclusivamente nella locuzione avverbiale che significa “in abbondanza”, “in quantità”, “bizzeffe” ha due possibili etimologie.
Una, più lineare, richiama il termine arabo bizzāf, cioè “molto”. L’altra, più stuzzicante, la fa derivare da un’antica consuetudine giudiziaria: pare che i magistrati romani ponessero nei memoriali la dicitura FF – due volte effe, in latino bis effe – come abbreviazione di fiat fiat (“sia sia”) per indicare la concessione di una grazia piena, senza limitazioni, da cui l’espressione “ricevere la grazia a bis effe”.

Pirata

di Valentino Infuso
L’enciclopedia Treccani ne propone solo significati con accezioni “negative”: colui che assalta navi o aerei e razzia territori, chi è un pericolo alla guida di un’auto, un hacker, oppure edizioni di libri, dischi o trasmissioni non autorizzate e così via….
Non ci accontentiamo e indaghiamo sull’etimologia del termine:
pirata (ant. pirato) s. m. [dal lat. pirata, gr. Πειρατής (peiratḗs), der. di πειράω (peiráō) «tentare, assaltare»] (pl. -i, ant. -e).
Quindi pirata viene dal greco peiráō che vorrebbe dire «tentare, assaltare».
Non ci accontentiamo e indaghiamo sui significati del verbo greco πειράω (peiráō).
Tra le tante fonti, ci capita di imbatterci nelle ricerche di un tale Franco Rendich, studioso poco convenzionale di lingue indoeuropee, secondo il quale:
«In greco l’azione di “passare attraverso” è espressa in senso concreto dal verbo peírō […], “trafiggere”, “attraversare”, mentre in senso figurato dal verbo peiráō, “sperimentare”, “provare”, “cercare” (ovvero “attraversare un problema” con la mente o con azioni ripetute allo scopo di trovare una soluzione)».
Iniziando già a godere di questa poco convenzionale accezione, ci esaltiamo quando sempre Rendich fa notare come πειράω (peiráō) abbia una duplice accezione, quella di “tentare” nel senso di “fare un tentativo”, “provare”, e quella di “tentare” nel senso di “mettere alla prova”, da cui ὁ πειράζων (ò peiràzon), “il tentatore”, per designare Satana, ma anche Dio quando tenta Abramo per metterlo alla prova: «ὁ θεὸς ἐπείραζεν τὸν Αβρααμ» (ò teòs epeirazen tòn Abraam).
E significativo ci sembra che tra le parole collegabili a πειράω (peiráō) ci sia non solo PIRATA ma anche EMPIRICO, da πεῖρα(pèira) = prova, tentativo, esperienza, qualcosa fondato sui dati dell’esperienza immediata e della pratica, non su leggi teoriche rigorosamente dimostrate.
Ci siamo, ci piace! Abbiamo trovato il nostro contemporaneo significato di PIRATA!
PIRATA come colui che “sperimenta, prova, cerca, ovvero attraversa un problema con la mente o con azioni ripetute allo scopo di trovare una soluzione, e infine tenta, ossia si fa “tentatore”, come il Diavolo, o come Dio…
E crediamo che in questo momento di Pirati così ce ne sia un disperato bisogno. E ancor più disperato il bisogno di essere noi stessi Pirati, sperimentatori, cercatori, assaltatori di idee, tentatori di visioni diverse e avvistatori di nuove terre del sapere e del fare in cui razziare fino all’ultimo granello di conoscenza, mettendo continuamente alla prova noi stessi e gli altri….
E ci piace l’idea di fare di Porto X un covo di Pirati di tal fatta. Per cui ci siamo detti, “Ma sì, perché no! Lasciamo periodicamente entrare in porto qualche Pirata contemporaneo per condividerne la sperimentazione, qualche Pirata da cui essere tentati al senso critico, e che abbia da mettere in condivisione scoperte e rivoluzioni di pensiero e di visione…

Astruso

Magari lo starete già pensando di questi termini, che sono un po’ astrusi, non è vero?
E se vi dicessimo che anche perfino l’aggettivo astruso ha un’origine bizzarra?
Sembrerebbe venire, infatti, dal latino abstrusus, participio passato di abstrudere, ovvero spingere via o nascondere.
Un concetto astruso, di conseguenza, è così nascosto e avvolto su se stesso da essere di difficile comprensione.

Boria/borioso

Una tra le parole di uso frequente, molto probabilmente il termine “boria” deriva dal latino boreas, «tramontana», il forte vento freddo che soffia da Nord, da cui deriva la locuzione «darsi delle arie». Di conseguenza nel tempo “boria” ha acquisito il significato di «superbia, alterigia, supponenza, vana ostentazione di grandezza, di orgoglio».
Un’altra interpretazione individua nell’antico alto tedesco burjan = innalzare (a sua volta, da bor = altezza) l’etimo della parola “boria” e, quindi, dell’aggettivo “borioso”. In questo caso, viene evidenziata la caratteristica dell’altezzosità, il sentirsi, appunto, superiori agli altri, tipicamente ostentata dal borioso.

Ciao

La parola ciao è la più comune forma di saluto amichevole e informale della lingua italiana. Essa è utilizzata sia nell’incontrarsi, sia nell’accomiatarsi, rivolgendosi a una o più persone a cui si dà del tu. Un tempo diffusa soprattutto nell’Italia settentrionale, è divenuta anche di uso internazionale.
In riferimento ai bambini, “fare ciao” indica un gesto di saluto ottenuto aprendo e chiudendo la mano o agitando la mano. “Ciao” è anche un’espressione metaforica e informale per indicare la fine sicura di qualcosa (es. “si è stancato della moglie e ciao”).
Etimologia
“Ciao” è entrato nella lingua italiana solo nel corso del Novecento. Deriva infatti dal termine veneto (più specificamente veneziano) s’ciao, proveniente dal tardolatino sclavus, traducibile come “[sono suo] schiavo”. Si trattava di un saluto assolutamente reverenziale, variamente attestato nelle commedie di Carlo Goldoni in cui viene pronunciato con sussiego da nobili altezzosi e cicisbei; ne La locandiera, ad esempio, il Cavaliere di Ripafratta si congeda dagli astanti con «Amici, vi sono schiavo», espressione usata anche da Don Roberto nella commedia La dama prudente (atto I, scena VI).
Nonostante ciò, a partire dall’Ottocento si diffuse come saluto informale. Nello stesso periodo cominciò a penetrare nella lingua italiana, tanto che nel suo Dizionario della lingua italiana Niccolò Tommaseo constatava – con un certo rammarico – come anche in Toscana qualcuno cominciasse ad usare la formula “vi sono schiavo”.
Fu tuttavia la forma “ciao” a fare fortuna e nel secolo successivo si diffuse in tutta la Penisola.

Confusione

Confusione, dal latino “cum”, insieme, e “fundere”, versare. Dunque, versare insieme. Confusione indica perciò mescolanza, disordine.
Parola molto viva, nella lingua, usata in accezioni diverse a seconda dell’espressione usata: mi sono sbagliato, ho fatto confusione; al concerto c’era una gran confusione; dopo l’incidente era in stato confusionale; questa è camera mia, scusa la confusione.
Ciò che è confuso è mischiato insieme e perciò il discernimento sembra impossibile. Lo stato confusionale è un’impossibilità di organizzare la massa variegata di stimoli che si ricevono, faccio confusione con le date perché scambio o assimilo fatti storici diversi, provo in me tensioni contrastanti od ho informazioni contrastanti sul conto di qualcuno e quindi sono confuso.
Approfondiamo
La contemporanea presenza, nel nostro mondo interiore e in quello che ci circonda, di esperienze, sollecitazioni e informazioni tra loro contrastanti è all’origine della confusione.
Stato emotivo, accompagnato dalla sensazione di non riuscire a tenere sotto controllo quanto si muove dentro e intorno a noi. Ma anche esperienza dal carattere paradossale, a causa del modo imprevedibile in cui si danno appuntamento sensazioni contrastanti e desideri inconciliabili.
Paradossale è anche il rapporto tra l’etimologia e il significato della parola confusione. Prese infatti separatamente, le due parti che la compongono – prefisso “cum” più verbo latino “fundere” – fanno riferimento all’atto di unire, ricomporre e amalgamare. Riunite nell’unico termine «confusione», fanno invece riferimento alla mescolanza disordinata di cose, persone, emozioni o informazioni. È ciò che segna la differenza tra la confusione e la complessità. Dove la complessità, sul piano personale e del reale, può trasformarsi in invito alla ricerca e spinta alla valorizzazione di tutto ciò che è diverso, la confusione provoca invece perdita di certezza, fatica di pensare, stati d’ansia, tensione e paure che aprono la strada alla sensazione di vuoto esistenziale.
L’accostamento della confusione al racconto biblico della Torre di Babele (Genesi 11, 1-9) è così scontato da far ormai considerare sinonimi le due parole. Ricordiamo, tra i tanti rimandi possibili, la frase che Pirandello mette sulla bocca di Belcredi nell’Enrico IV: «Recitava ognuno per burla la sua parte! Era una vera babele!». Ma è questo accostamento lessicale che può aiutarci ad aprire un varco per uscire dal senso di smarrimento che accompagna le varie forme di confusione.
È vero che da sempre Babele e la costruzione della torre evocano confusione delle lingue e dispersione. Ma, nella confusione delle lingue e nella dispersione, è possibile vedere la svolta verso qualcosa di nuovo che da quella soglia prende origine. La confusione, insomma, può non essere una condanna senza appello o uno stato definitivo. «È possibile – scrive R. Calasso – che i costruttori della Torre non avessero propositi empi […] ma anche gli errori possono condurre al risultato che si cerca». Non so con quale grado di probabilità, ma c’è chi vede nella rottura di unità di Babele l’inizio della felice invenzione delle lingue. E se fosse così anche per lo stato di confusione nel quale talvolta veniamo a trovarci? E se anche la sofferenza e il disagio emotivo che accompagnano la confusione fossero un serbatoio di energie senza forma, motivo di crescita e di creatività?
in “Il Sole 24 Ore” del 25 luglio 2021
NUNZIO GALANTINO

Alfabeto

Possiamo dire che alfabeto è la parola delle parole, cioè quella che idealmente le contiene tutte e permette di generarle in maniera combinatoria.
Chi conosce il greco, ci avrà già pensato: alfabeto deriva da alfa e beta, cioè dalle prime due lettere di questa lingua, e così è.
Ma vi siete mai chiesti perché queste lettere si chiamavano proprio così?
La loro origine risale alla cultura fenicia, nella quale aleph voleva dire bovino e beth indicava invece la casa. Quando si cominciò a scriverla, infatti, la a veniva tracciata in maiuscolo e rovesciata, così da ricordare il muso di un animale, mentre la b maiuscola somigliava a un rettangolo diviso in due al suo interno, come un’abitazione con due stanze.
Le lettere dell’alfabeto si succedono secondo un ordine fissato nell’antichità. Si ritiene che la realizzazione del primo alfabeto risalga alla metà del II millennio avanti Cristo a opera di popoli semitici della Siria e della Palestina, che idearono l’uso delle lettere e associarono a ciascuna di esse un segno grafico derivandolo dai geroglifici egiziani.

Lettere e numeri

Il criterio con cui le lettere furono originariamente ordinate all’interno dell’alfabeto non è certo. L’ipotesi più attendibile è che i caratteri grafici delle lettere venissero usati anche per indicare piccoli numeri, per cui il segno corrispondente all’uno fu collocato nell’alfabeto al primo posto, quello corrispondente al 2 al secondo posto e così via.
Con lievi modifiche e aggiunte, dall’alfabeto semitico derivò quello fenicio, da questo quello greco, quindi quello etrusco, poi il latino e infine l’italiano moderno.

Amore

(Ho preso queste notizie dal sito www.lucafrancioso.com)
La vera etimologia della parola “amore” è ignota. Il fatto che l’origine linguistica della parola più usata e probabilmente più bistrattata dagli uomini sia sconosciuta, per conto mio non fa che rafforzare il mistero che esiste dietro questa incredibile forza motrice e rinvigorire l’atto di fede che è necessario compiere per concedersi alle sue dinamiche e ai suoi incomprensibili meccanismi.
Per mesi non ho fatto che setacciare i luccichii delle innumerevoli ipotesi sulla sua etimologia, teorie affascinanti e strampalate, e ne ho respirato a fondo i significati proposti e i risvolti, restando ogni volta sorpreso e meravigliato, indipendentemente dalla loro reale veridicità.
L’ipotesi a cui gran parte dei linguisti danno più credito è quella che la parola “amore” derivi da “amór-em”, dal verbo “amàre” che sta per “camàre”, dalla radice sanscrita “ka” (desiderare, amare). I latini usavano la parola “amore” per intendere uno slancio istintivo e passionale, contrapposto a quello della ragione per cui usavano la parola “dilìgere” [da “lègere” (cogliere, scegliere)].
Tuttavia esiste anche l’ipotesi che la radice latina “am”, che tanto ricorda il suono onomatopeico “am” legato al cibo (come a dire: “ti voglio così bene che ti mangerei!”) o “ami” (madre), sia in realtà etrusca (la parola etrusca “aminth” significa “amore”). Tale radice, da cui pare derivi anche la parola latina “amicius” (amicizia), a sua volta dovrebbe derivare dalla parola ittita “hamenk”, che significa “legare, unire, congiungere”.
Un’altra teoria colloca invece l’origine della parola “amore” nella cultura egizia, sebbene se ne tragga la medesima accezione di attrazione di “hamenk”, ipotizzando che possa essere formata da “a”, prima lettera dell’alfabeto, il cui valore numerico è “Uno” e che quindi rappresenta l’Uno Divino, e da “mer”, radice che nell’antico Egitto esprimeva vari tipi di attrazione (affinità, desidero, amore) e tutto quello che portava due esseri a unirsi, come due poli di un magnete. Non è un caso che gli antichi egizi chiamassero le piramidi “Mer”, prima che i greci la nominassero “piramide” [da “pira” (fuoco)], una sorta di magnate che unisce cielo e terra. L’amore dunque, secondo tale ipotesi, è l’Uno divino che ogni cosa collega e che tutto collega a sé, in qualsiasi direzione.
Pare che anche il nome Maria [dall’ebraico “Maryàm” (principessa)] derivi direttamente dal nome egiziano Meri (che ha in sé la radice “mer”) e io trovo che questa sia un’eventualità davvero commuovente, considerato il ruolo che la madre di Gesù ha nei Vangeli. Da notare che in Egitto “mer” è anche omonimo di sofferenza, come a dire che un amore distorto può provocare dolore.
Esiste poi la convinzione, in realtà rigettata da molti linguisti, che “amore” derivi da “a-mors” [composto da “a” (privativo greco) e dal termine latino “mors” (morte)], che vuol dire “senza morte”, un po’ come accade per le parole “morale” e “amorale”, quindi l’attaccamento forte e viscerale alla vita. Nei quattro Vangeli Gesù si riferisce con il termine “hesed” a un amore nuovo che avrebbe vinto la morte, tradotto poi in greco con “agapè” [composto da “aga” (molto), “apo” (moto che si sposta da una persona a un’altra) e “ao” (termine che indica una situazione): “darsi per creare uno stato nuovo nell’altro”] e in latino con “caritas”, termine davvero lontanissimo dall’atto di allungare due monete a un mendicante, che nel tempo ha poi assunto.
Riflettendo su tutte queste affascinanti ipotesi etimologiche, alla fine di questo breve ed emozionante viaggio linguistico, l’accezione che tende a definirsi della parola “amore” non è certo quella stucchevole ed egoistica che gli attribuiamo noi tutti i giorni, ma quella di una fortissima, profondissima e magnetica attrazione, che ha sempre una natura spirituale ma non necessariamente o esclusivamente carnale, del tutto istintiva e passionale e che dunque poco ha a che fare con la ragione, di cui il Divino è generatore, compimento e garante, capace di creare nuova vita e di conservarla, potenzialmente per sempre.
Non so se mi sono avvicinato al suo reale significato, ma in verità è quello in cui io voglio credere.

 

Parola

DEFINIZIONE
Che cos’è per definizione la parola? È un complesso di fonèmi, cioè di suoni articolati, o anche singolo fonèma (e la relativa trascrizione in segni grafici), mediante i quali l’uomo esprime una nozione generica, che si precisa e determina nel contesto di una frase.
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ETIMOLOGIA
Il termine “parola” deriva dal greco παραβολή, parabolè, attraverso il latino paràbola, poi alterato in paràula nel volgare.
Parola in greco è λόγος, lògos: un termine che ricorre specialmente nell’ambito filosofico e religioso, e che lungo i secoli ha indicato un variegato ventaglio di idee e concetti: “calcolo”, “discorso” (corrispondenti al latino ratio e oratio), “spiegazione”, “frase”, “argomentazione”, “ragionamento”, “misura”, “ragione”, “logica”.
Il termine lògos è etimologicamente connesso col latino lex, “legge”, e col verbo tanto greco λέγειν (lèghein) quanto latino lègere, che significa “tenere insieme”, e quindi anche “leggere”, indicando dunque ciò che collega, ovvero la ragione, la legge, che tiene insieme ordinatamente il tutto.
In latino, lògos è stato reso con verbum, anche se alcuni studiosi pensano più correttamente alla parola ratio.
Il primo essere vivente a parlare fu, probabilmente, l’Homo habilis. I resti cranici di questa specie di Homo presentano infatti le impronte lasciate dalle aree preposte al linguaggio articolato: l’area di Broca e l’area di Wernicke. Queste due zone del cervello servono a elaborare e a comprendere il linguaggio. Per poter parlare, oltre a queste strutture neurologiche, è necessario avere anche la laringe posizionata in basso e, forse, l’Homo habilis possedeva già questa caratteristica.
Quasi certamente l’Homo habilis non aveva un linguaggio formato da frasi complesse come il nostro, ma potrebbe aver formulato le prime parole di una-due sillabe. Del resto, la complessità del linguaggio progredisce con lo stile di vita: più le attività quotidiane (la lavorazione dei manufatti litici, lo sviluppo dell’arte, le tecniche di caccia, l’introduzione della sepoltura) divennero elaborate, e più la comunicazione verbale tra gli uomini si fece essenziale per la vita di tutti i giorni.
Comunque, il primo modo di comunicare dei nostri antenati sono stati i gesti. Gli studi sul linguaggio umano proverebbero che il comunicare ha avuto origine da espressioni gestuali dei primati, che sono caratteristici anche degli uomini: per chiedere del cibo, per esempio, bonobo e scimpanzé tendono la mano, con il palmo aperto. E compiono lo stesso movimento anche per fare delle avances alla compagna oppure per riappacificarsi dopo un conflitto.
I movimenti di braccia e mani, dunque, potrebbero essere stati usati dai nostri antenati soprattutto nelle situazioni in cui il silenzio era d’obbligo, come per esempio andare a caccia. I vocalizzi, invece, e quindi le prime sillabe, sarebbero arrivati soltanto in un secondo momento: dopo lo sviluppo dell’area cerebrale adibita al linguaggio.

Etimologia

Partiamo dalla parola stessa “etimologia”.
Il termine deriva dal greco ἐτυμολογία, composto di due parole, ἔτυμον, ètimon (significa: vero, reale) e λογία, loghia, da logos (nel senso di discorso o studio).
Dunque, l’etimologia è la scienza che studia la storia delle parole, indagandone l’origine e l’evoluzione fonetica (nei suoni prodotti dai parlanti nell’atto di pronunciare una lingua), morfologica (nella flessione delle parti del discorso, ossia delle possibili variazioni di una parola secondo la grammatica), semantica (nel significato evolutivo delle parole). Dunque, la materia di studio dell’etimologia è la parola, su cui ci soffermeremo la prossima volta, spiegandone a sua volta l’etimologia.
I primi esempi di studi etimologici risalgono all’antichità con Platone nel V/IV secolo a.C. e poi nelle Vite di Plutarco nel I/II secolo d.C.
Perciò, già presso gli antichi era grande la rilevanza per la ricerca dell’etimologia, sia per quanto riguarda il significato delle parole sia per quanto riguarda l’idea che la parola andava ad indicare. Si pensava infatti che la connessione tra significato e significante (ovvero il concetto o oggetto concreto), non fosse arbitraria, ma connessa alla realtà. I popoli antichi non rivelavano il nome del loro dio, per paura che gli stranieri, conoscendolo, si impadronissero della loro identità.
Successivamente, nel VII secolo d.C. Isidoro di Siviglia scrisse un intero trattato enciclopedico in venti volumi intitolato Etymologiae, usato come manuale fino al XV secolo, in cui fornisce l’etimologia di moltissime parole.
Durante il Medioevo a Costantinopoli autori per lo più anonimi composero lessici che contenevano l’etimologia delle parole ivi trattate. Sono testi in greco, conosciuti spesso con nomi latini convenzionali: l’Etymologicum Genuinum del IX secolo, l’Etymologicum Magnum del XII secolo e altri.
Più recente, ma importante testimonianza di come l’etimologia abbia una rilevanza secolare è la Legenda Aurea, una raccolta medievale di biografie agiografiche composta in latino da Jacopo da Varazze (o da Varagine), frate domenicano e vescovo di Genova. Fu compilata a partire circa dall’anno 1260 fino alla morte dell’autore, avvenuta nel 1298. L’opera costituisce ancora oggi un riferimento indispensabile per interpretare la simbologia e l’iconografia inserite in opere pittoriche di contenuto. L’opera ebbe un’ampia diffusione e un cospicuo seguito fino al XVII secolo.
È solo dal XV secolo che in Europa prende piede lo studio della filologia, ovvero quando viene riconosciuta l’affinità tra determinate lingue e la nascita del metodo comparativo. All’epoca questo metodo era quasi esclusivamente utilizzato nel campo dell’indoeuropeistica, ovvero lo studio delle lingue europee delle quali la lingua italiana fa parte, ad oggi invece è il metodo di studio filologico prevalentemente utilizzato.
Compaiono nel Seicento anche i primi veri dizionari etimologici quali l’Etymologicum linguae Latinae di Gerard Vossius e l’Etymologicon Linguae Anglicanae di Stephen Skinner. Un lavoro ancora più approfondito fu portato avanti da George William Lemon nel 1783 in cui si cerca di catalogare l’origine delle parole inglesi in base alla loro derivazione classica, ossia dalla lingua greca o latina, oppure dal sassone o da altre lingue nordiche.
Dall’Ottocento si diffondono i dizionari etimologici in molte altre lingue europee tra cui la lingua italiana.

 

 

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