Ambaradan

Ambaradan

L’ambaradan è il risultato di un’accozzaglia disordinata e illogica di scelte, un caos a tutti gli effetti, che può addirittura sfociare in una baraonda o in un’operazione difficile da portare a termine, se non si fa affidamento su una gran dose di impegno e di organizzazione.
Questo perché, secondo alcune teorie, la sua etimologia coinciderebbe con il nome proprio Amba Aradam, massiccio montuoso situato in Etiopia e nei dintorni del quale, nel 1936, l’Italia combatté contro l’esercito abissino e vinse dopo una cruenta battaglia, passata alla storia per la sua confusione e difficoltà.

Ostracizzare

Tra le parole greche che derivano dall’italiano, ostracizzare occupa un posto di rilievo per il fascino della storia che sta dietro a questo termine.
La parola ostracizzare deriva infatti dagli ostraka, che significa “conchiglia” (e da cui deriva anche ostrica), ma questa parola veniva anche utilizzata per indicare dei frammenti di ceramica su cui i cittadini greci scrivevano il nome di una persona che volevano punire con l’esilio temporaneo dalla città.
La pratica, detta ostracismo, non è più in voga, ma il termine è rimasto e oggi ostracizzare significa appunto “emarginare”.

Robot

La sua origine è da far risalire alla lingua ceca, e in particolare al testo teatrale R.U.R. dello scrittore cecoslovacco Karel Čapek (1890-1938), nel quale apparve per la prima volta nel 1920.
Si trattava già allora di una derivazione dal sostantivo robota, cioè lavoro forzato, proveniente dall’antico termine slavo rabota (schiavitù).
Nella visione dell’autore, quindi, il robot era un operaio artificiale non meccanico, una replica semplificata dell’uomo, che veniva impiegato per lavorare per (o con) lui.

A bizzeffe

Definizione
Utilizzata solo nella locuzione avverbiale “a bizzeffe”, che significa “in gran quantità”.
Etimologia
Forse dall’arabo bizzāf, “molto”.
Di parole strane nella lingua italiana ce ne sono… a bizzeffe! E questa è certamente una di quelle. Utilizzata esclusivamente nella locuzione avverbiale che significa “in abbondanza”, “in quantità”, “bizzeffe” ha due possibili etimologie.
Una, più lineare, richiama il termine arabo bizzāf, cioè “molto”. L’altra, più stuzzicante, la fa derivare da un’antica consuetudine giudiziaria: pare che i magistrati romani ponessero nei memoriali la dicitura FF – due volte effe, in latino bis effe – come abbreviazione di fiat fiat (“sia sia”) per indicare la concessione di una grazia piena, senza limitazioni, da cui l’espressione “ricevere la grazia a bis effe”.

Pirata

di Valentino Infuso
L’enciclopedia Treccani ne propone solo significati con accezioni “negative”: colui che assalta navi o aerei e razzia territori, chi è un pericolo alla guida di un’auto, un hacker, oppure edizioni di libri, dischi o trasmissioni non autorizzate e così via….
Non ci accontentiamo e indaghiamo sull’etimologia del termine:
pirata (ant. pirato) s. m. [dal lat. pirata, gr. Πειρατής (peiratḗs), der. di πειράω (peiráō) «tentare, assaltare»] (pl. -i, ant. -e).
Quindi pirata viene dal greco peiráō che vorrebbe dire «tentare, assaltare».
Non ci accontentiamo e indaghiamo sui significati del verbo greco πειράω (peiráō).
Tra le tante fonti, ci capita di imbatterci nelle ricerche di un tale Franco Rendich, studioso poco convenzionale di lingue indoeuropee, secondo il quale:
«In greco l’azione di “passare attraverso” è espressa in senso concreto dal verbo peírō […], “trafiggere”, “attraversare”, mentre in senso figurato dal verbo peiráō, “sperimentare”, “provare”, “cercare” (ovvero “attraversare un problema” con la mente o con azioni ripetute allo scopo di trovare una soluzione)».
Iniziando già a godere di questa poco convenzionale accezione, ci esaltiamo quando sempre Rendich fa notare come πειράω (peiráō) abbia una duplice accezione, quella di “tentare” nel senso di “fare un tentativo”, “provare”, e quella di “tentare” nel senso di “mettere alla prova”, da cui ὁ πειράζων (ò peiràzon), “il tentatore”, per designare Satana, ma anche Dio quando tenta Abramo per metterlo alla prova: «ὁ θεὸς ἐπείραζεν τὸν Αβρααμ» (ò teòs epeirazen tòn Abraam).
E significativo ci sembra che tra le parole collegabili a πειράω (peiráō) ci sia non solo PIRATA ma anche EMPIRICO, da πεῖρα(pèira) = prova, tentativo, esperienza, qualcosa fondato sui dati dell’esperienza immediata e della pratica, non su leggi teoriche rigorosamente dimostrate.
Ci siamo, ci piace! Abbiamo trovato il nostro contemporaneo significato di PIRATA!
PIRATA come colui che “sperimenta, prova, cerca, ovvero attraversa un problema con la mente o con azioni ripetute allo scopo di trovare una soluzione, e infine tenta, ossia si fa “tentatore”, come il Diavolo, o come Dio…
E crediamo che in questo momento di Pirati così ce ne sia un disperato bisogno. E ancor più disperato il bisogno di essere noi stessi Pirati, sperimentatori, cercatori, assaltatori di idee, tentatori di visioni diverse e avvistatori di nuove terre del sapere e del fare in cui razziare fino all’ultimo granello di conoscenza, mettendo continuamente alla prova noi stessi e gli altri….
E ci piace l’idea di fare di Porto X un covo di Pirati di tal fatta. Per cui ci siamo detti, “Ma sì, perché no! Lasciamo periodicamente entrare in porto qualche Pirata contemporaneo per condividerne la sperimentazione, qualche Pirata da cui essere tentati al senso critico, e che abbia da mettere in condivisione scoperte e rivoluzioni di pensiero e di visione…

Astruso

Magari lo starete già pensando di questi termini, che sono un po’ astrusi, non è vero?
E se vi dicessimo che anche perfino l’aggettivo astruso ha un’origine bizzarra?
Sembrerebbe venire, infatti, dal latino abstrusus, participio passato di abstrudere, ovvero spingere via o nascondere.
Un concetto astruso, di conseguenza, è così nascosto e avvolto su se stesso da essere di difficile comprensione.

Boria/borioso

Una tra le parole di uso frequente, molto probabilmente il termine “boria” deriva dal latino boreas, «tramontana», il forte vento freddo che soffia da Nord, da cui deriva la locuzione «darsi delle arie». Di conseguenza nel tempo “boria” ha acquisito il significato di «superbia, alterigia, supponenza, vana ostentazione di grandezza, di orgoglio».
Un’altra interpretazione individua nell’antico alto tedesco burjan = innalzare (a sua volta, da bor = altezza) l’etimo della parola “boria” e, quindi, dell’aggettivo “borioso”. In questo caso, viene evidenziata la caratteristica dell’altezzosità, il sentirsi, appunto, superiori agli altri, tipicamente ostentata dal borioso.

Ciao

La parola ciao è la più comune forma di saluto amichevole e informale della lingua italiana. Essa è utilizzata sia nell’incontrarsi, sia nell’accomiatarsi, rivolgendosi a una o più persone a cui si dà del tu. Un tempo diffusa soprattutto nell’Italia settentrionale, è divenuta anche di uso internazionale.
In riferimento ai bambini, “fare ciao” indica un gesto di saluto ottenuto aprendo e chiudendo la mano o agitando la mano. “Ciao” è anche un’espressione metaforica e informale per indicare la fine sicura di qualcosa (es. “si è stancato della moglie e ciao”).
Etimologia
“Ciao” è entrato nella lingua italiana solo nel corso del Novecento. Deriva infatti dal termine veneto (più specificamente veneziano) s’ciao, proveniente dal tardolatino sclavus, traducibile come “[sono suo] schiavo”. Si trattava di un saluto assolutamente reverenziale, variamente attestato nelle commedie di Carlo Goldoni in cui viene pronunciato con sussiego da nobili altezzosi e cicisbei; ne La locandiera, ad esempio, il Cavaliere di Ripafratta si congeda dagli astanti con «Amici, vi sono schiavo», espressione usata anche da Don Roberto nella commedia La dama prudente (atto I, scena VI).
Nonostante ciò, a partire dall’Ottocento si diffuse come saluto informale. Nello stesso periodo cominciò a penetrare nella lingua italiana, tanto che nel suo Dizionario della lingua italiana Niccolò Tommaseo constatava – con un certo rammarico – come anche in Toscana qualcuno cominciasse ad usare la formula “vi sono schiavo”.
Fu tuttavia la forma “ciao” a fare fortuna e nel secolo successivo si diffuse in tutta la Penisola.

Confusione

Confusione, dal latino “cum”, insieme, e “fundere”, versare. Dunque, versare insieme. Confusione indica perciò mescolanza, disordine.
Parola molto viva, nella lingua, usata in accezioni diverse a seconda dell’espressione usata: mi sono sbagliato, ho fatto confusione; al concerto c’era una gran confusione; dopo l’incidente era in stato confusionale; questa è camera mia, scusa la confusione.
Ciò che è confuso è mischiato insieme e perciò il discernimento sembra impossibile. Lo stato confusionale è un’impossibilità di organizzare la massa variegata di stimoli che si ricevono, faccio confusione con le date perché scambio o assimilo fatti storici diversi, provo in me tensioni contrastanti od ho informazioni contrastanti sul conto di qualcuno e quindi sono confuso.
Approfondiamo
La contemporanea presenza, nel nostro mondo interiore e in quello che ci circonda, di esperienze, sollecitazioni e informazioni tra loro contrastanti è all’origine della confusione.
Stato emotivo, accompagnato dalla sensazione di non riuscire a tenere sotto controllo quanto si muove dentro e intorno a noi. Ma anche esperienza dal carattere paradossale, a causa del modo imprevedibile in cui si danno appuntamento sensazioni contrastanti e desideri inconciliabili.
Paradossale è anche il rapporto tra l’etimologia e il significato della parola confusione. Prese infatti separatamente, le due parti che la compongono – prefisso “cum” più verbo latino “fundere” – fanno riferimento all’atto di unire, ricomporre e amalgamare. Riunite nell’unico termine «confusione», fanno invece riferimento alla mescolanza disordinata di cose, persone, emozioni o informazioni. È ciò che segna la differenza tra la confusione e la complessità. Dove la complessità, sul piano personale e del reale, può trasformarsi in invito alla ricerca e spinta alla valorizzazione di tutto ciò che è diverso, la confusione provoca invece perdita di certezza, fatica di pensare, stati d’ansia, tensione e paure che aprono la strada alla sensazione di vuoto esistenziale.
L’accostamento della confusione al racconto biblico della Torre di Babele (Genesi 11, 1-9) è così scontato da far ormai considerare sinonimi le due parole. Ricordiamo, tra i tanti rimandi possibili, la frase che Pirandello mette sulla bocca di Belcredi nell’Enrico IV: «Recitava ognuno per burla la sua parte! Era una vera babele!». Ma è questo accostamento lessicale che può aiutarci ad aprire un varco per uscire dal senso di smarrimento che accompagna le varie forme di confusione.
È vero che da sempre Babele e la costruzione della torre evocano confusione delle lingue e dispersione. Ma, nella confusione delle lingue e nella dispersione, è possibile vedere la svolta verso qualcosa di nuovo che da quella soglia prende origine. La confusione, insomma, può non essere una condanna senza appello o uno stato definitivo. «È possibile – scrive R. Calasso – che i costruttori della Torre non avessero propositi empi […] ma anche gli errori possono condurre al risultato che si cerca». Non so con quale grado di probabilità, ma c’è chi vede nella rottura di unità di Babele l’inizio della felice invenzione delle lingue. E se fosse così anche per lo stato di confusione nel quale talvolta veniamo a trovarci? E se anche la sofferenza e il disagio emotivo che accompagnano la confusione fossero un serbatoio di energie senza forma, motivo di crescita e di creatività?
in “Il Sole 24 Ore” del 25 luglio 2021
NUNZIO GALANTINO

Alfabeto

Possiamo dire che alfabeto è la parola delle parole, cioè quella che idealmente le contiene tutte e permette di generarle in maniera combinatoria.
Chi conosce il greco, ci avrà già pensato: alfabeto deriva da alfa e beta, cioè dalle prime due lettere di questa lingua, e così è.
Ma vi siete mai chiesti perché queste lettere si chiamavano proprio così?
La loro origine risale alla cultura fenicia, nella quale aleph voleva dire bovino e beth indicava invece la casa. Quando si cominciò a scriverla, infatti, la a veniva tracciata in maiuscolo e rovesciata, così da ricordare il muso di un animale, mentre la b maiuscola somigliava a un rettangolo diviso in due al suo interno, come un’abitazione con due stanze.
Le lettere dell’alfabeto si succedono secondo un ordine fissato nell’antichità. Si ritiene che la realizzazione del primo alfabeto risalga alla metà del II millennio avanti Cristo a opera di popoli semitici della Siria e della Palestina, che idearono l’uso delle lettere e associarono a ciascuna di esse un segno grafico derivandolo dai geroglifici egiziani.

Lettere e numeri

Il criterio con cui le lettere furono originariamente ordinate all’interno dell’alfabeto non è certo. L’ipotesi più attendibile è che i caratteri grafici delle lettere venissero usati anche per indicare piccoli numeri, per cui il segno corrispondente all’uno fu collocato nell’alfabeto al primo posto, quello corrispondente al 2 al secondo posto e così via.
Con lievi modifiche e aggiunte, dall’alfabeto semitico derivò quello fenicio, da questo quello greco, quindi quello etrusco, poi il latino e infine l’italiano moderno.

Amore

(Ho preso queste notizie dal sito www.lucafrancioso.com)
La vera etimologia della parola “amore” è ignota. Il fatto che l’origine linguistica della parola più usata e probabilmente più bistrattata dagli uomini sia sconosciuta, per conto mio non fa che rafforzare il mistero che esiste dietro questa incredibile forza motrice e rinvigorire l’atto di fede che è necessario compiere per concedersi alle sue dinamiche e ai suoi incomprensibili meccanismi.
Per mesi non ho fatto che setacciare i luccichii delle innumerevoli ipotesi sulla sua etimologia, teorie affascinanti e strampalate, e ne ho respirato a fondo i significati proposti e i risvolti, restando ogni volta sorpreso e meravigliato, indipendentemente dalla loro reale veridicità.
L’ipotesi a cui gran parte dei linguisti danno più credito è quella che la parola “amore” derivi da “amór-em”, dal verbo “amàre” che sta per “camàre”, dalla radice sanscrita “ka” (desiderare, amare). I latini usavano la parola “amore” per intendere uno slancio istintivo e passionale, contrapposto a quello della ragione per cui usavano la parola “dilìgere” [da “lègere” (cogliere, scegliere)].
Tuttavia esiste anche l’ipotesi che la radice latina “am”, che tanto ricorda il suono onomatopeico “am” legato al cibo (come a dire: “ti voglio così bene che ti mangerei!”) o “ami” (madre), sia in realtà etrusca (la parola etrusca “aminth” significa “amore”). Tale radice, da cui pare derivi anche la parola latina “amicius” (amicizia), a sua volta dovrebbe derivare dalla parola ittita “hamenk”, che significa “legare, unire, congiungere”.
Un’altra teoria colloca invece l’origine della parola “amore” nella cultura egizia, sebbene se ne tragga la medesima accezione di attrazione di “hamenk”, ipotizzando che possa essere formata da “a”, prima lettera dell’alfabeto, il cui valore numerico è “Uno” e che quindi rappresenta l’Uno Divino, e da “mer”, radice che nell’antico Egitto esprimeva vari tipi di attrazione (affinità, desidero, amore) e tutto quello che portava due esseri a unirsi, come due poli di un magnete. Non è un caso che gli antichi egizi chiamassero le piramidi “Mer”, prima che i greci la nominassero “piramide” [da “pira” (fuoco)], una sorta di magnate che unisce cielo e terra. L’amore dunque, secondo tale ipotesi, è l’Uno divino che ogni cosa collega e che tutto collega a sé, in qualsiasi direzione.
Pare che anche il nome Maria [dall’ebraico “Maryàm” (principessa)] derivi direttamente dal nome egiziano Meri (che ha in sé la radice “mer”) e io trovo che questa sia un’eventualità davvero commuovente, considerato il ruolo che la madre di Gesù ha nei Vangeli. Da notare che in Egitto “mer” è anche omonimo di sofferenza, come a dire che un amore distorto può provocare dolore.
Esiste poi la convinzione, in realtà rigettata da molti linguisti, che “amore” derivi da “a-mors” [composto da “a” (privativo greco) e dal termine latino “mors” (morte)], che vuol dire “senza morte”, un po’ come accade per le parole “morale” e “amorale”, quindi l’attaccamento forte e viscerale alla vita. Nei quattro Vangeli Gesù si riferisce con il termine “hesed” a un amore nuovo che avrebbe vinto la morte, tradotto poi in greco con “agapè” [composto da “aga” (molto), “apo” (moto che si sposta da una persona a un’altra) e “ao” (termine che indica una situazione): “darsi per creare uno stato nuovo nell’altro”] e in latino con “caritas”, termine davvero lontanissimo dall’atto di allungare due monete a un mendicante, che nel tempo ha poi assunto.
Riflettendo su tutte queste affascinanti ipotesi etimologiche, alla fine di questo breve ed emozionante viaggio linguistico, l’accezione che tende a definirsi della parola “amore” non è certo quella stucchevole ed egoistica che gli attribuiamo noi tutti i giorni, ma quella di una fortissima, profondissima e magnetica attrazione, che ha sempre una natura spirituale ma non necessariamente o esclusivamente carnale, del tutto istintiva e passionale e che dunque poco ha a che fare con la ragione, di cui il Divino è generatore, compimento e garante, capace di creare nuova vita e di conservarla, potenzialmente per sempre.
Non so se mi sono avvicinato al suo reale significato, ma in verità è quello in cui io voglio credere.

 

Parola

DEFINIZIONE
Che cos’è per definizione la parola? È un complesso di fonèmi, cioè di suoni articolati, o anche singolo fonèma (e la relativa trascrizione in segni grafici), mediante i quali l’uomo esprime una nozione generica, che si precisa e determina nel contesto di una frase.
—
ETIMOLOGIA
Il termine “parola” deriva dal greco παραβολή, parabolè, attraverso il latino paràbola, poi alterato in paràula nel volgare.
Parola in greco è λόγος, lògos: un termine che ricorre specialmente nell’ambito filosofico e religioso, e che lungo i secoli ha indicato un variegato ventaglio di idee e concetti: “calcolo”, “discorso” (corrispondenti al latino ratio e oratio), “spiegazione”, “frase”, “argomentazione”, “ragionamento”, “misura”, “ragione”, “logica”.
Il termine lògos è etimologicamente connesso col latino lex, “legge”, e col verbo tanto greco λέγειν (lèghein) quanto latino lègere, che significa “tenere insieme”, e quindi anche “leggere”, indicando dunque ciò che collega, ovvero la ragione, la legge, che tiene insieme ordinatamente il tutto.
In latino, lògos è stato reso con verbum, anche se alcuni studiosi pensano più correttamente alla parola ratio.
Il primo essere vivente a parlare fu, probabilmente, l’Homo habilis. I resti cranici di questa specie di Homo presentano infatti le impronte lasciate dalle aree preposte al linguaggio articolato: l’area di Broca e l’area di Wernicke. Queste due zone del cervello servono a elaborare e a comprendere il linguaggio. Per poter parlare, oltre a queste strutture neurologiche, è necessario avere anche la laringe posizionata in basso e, forse, l’Homo habilis possedeva già questa caratteristica.
Quasi certamente l’Homo habilis non aveva un linguaggio formato da frasi complesse come il nostro, ma potrebbe aver formulato le prime parole di una-due sillabe. Del resto, la complessità del linguaggio progredisce con lo stile di vita: più le attività quotidiane (la lavorazione dei manufatti litici, lo sviluppo dell’arte, le tecniche di caccia, l’introduzione della sepoltura) divennero elaborate, e più la comunicazione verbale tra gli uomini si fece essenziale per la vita di tutti i giorni.
Comunque, il primo modo di comunicare dei nostri antenati sono stati i gesti. Gli studi sul linguaggio umano proverebbero che il comunicare ha avuto origine da espressioni gestuali dei primati, che sono caratteristici anche degli uomini: per chiedere del cibo, per esempio, bonobo e scimpanzé tendono la mano, con il palmo aperto. E compiono lo stesso movimento anche per fare delle avances alla compagna oppure per riappacificarsi dopo un conflitto.
I movimenti di braccia e mani, dunque, potrebbero essere stati usati dai nostri antenati soprattutto nelle situazioni in cui il silenzio era d’obbligo, come per esempio andare a caccia. I vocalizzi, invece, e quindi le prime sillabe, sarebbero arrivati soltanto in un secondo momento: dopo lo sviluppo dell’area cerebrale adibita al linguaggio.

Etimologia

Partiamo dalla parola stessa “etimologia”.
Il termine deriva dal greco ἐτυμολογία, composto di due parole, ἔτυμον, ètimon (significa: vero, reale) e λογία, loghia, da logos (nel senso di discorso o studio).
Dunque, l’etimologia è la scienza che studia la storia delle parole, indagandone l’origine e l’evoluzione fonetica (nei suoni prodotti dai parlanti nell’atto di pronunciare una lingua), morfologica (nella flessione delle parti del discorso, ossia delle possibili variazioni di una parola secondo la grammatica), semantica (nel significato evolutivo delle parole). Dunque, la materia di studio dell’etimologia è la parola, su cui ci soffermeremo la prossima volta, spiegandone a sua volta l’etimologia.
I primi esempi di studi etimologici risalgono all’antichità con Platone nel V/IV secolo a.C. e poi nelle Vite di Plutarco nel I/II secolo d.C.
Perciò, già presso gli antichi era grande la rilevanza per la ricerca dell’etimologia, sia per quanto riguarda il significato delle parole sia per quanto riguarda l’idea che la parola andava ad indicare. Si pensava infatti che la connessione tra significato e significante (ovvero il concetto o oggetto concreto), non fosse arbitraria, ma connessa alla realtà. I popoli antichi non rivelavano il nome del loro dio, per paura che gli stranieri, conoscendolo, si impadronissero della loro identità.
Successivamente, nel VII secolo d.C. Isidoro di Siviglia scrisse un intero trattato enciclopedico in venti volumi intitolato Etymologiae, usato come manuale fino al XV secolo, in cui fornisce l’etimologia di moltissime parole.
Durante il Medioevo a Costantinopoli autori per lo più anonimi composero lessici che contenevano l’etimologia delle parole ivi trattate. Sono testi in greco, conosciuti spesso con nomi latini convenzionali: l’Etymologicum Genuinum del IX secolo, l’Etymologicum Magnum del XII secolo e altri.
Più recente, ma importante testimonianza di come l’etimologia abbia una rilevanza secolare è la Legenda Aurea, una raccolta medievale di biografie agiografiche composta in latino da Jacopo da Varazze (o da Varagine), frate domenicano e vescovo di Genova. Fu compilata a partire circa dall’anno 1260 fino alla morte dell’autore, avvenuta nel 1298. L’opera costituisce ancora oggi un riferimento indispensabile per interpretare la simbologia e l’iconografia inserite in opere pittoriche di contenuto. L’opera ebbe un’ampia diffusione e un cospicuo seguito fino al XVII secolo.
È solo dal XV secolo che in Europa prende piede lo studio della filologia, ovvero quando viene riconosciuta l’affinità tra determinate lingue e la nascita del metodo comparativo. All’epoca questo metodo era quasi esclusivamente utilizzato nel campo dell’indoeuropeistica, ovvero lo studio delle lingue europee delle quali la lingua italiana fa parte, ad oggi invece è il metodo di studio filologico prevalentemente utilizzato.
Compaiono nel Seicento anche i primi veri dizionari etimologici quali l’Etymologicum linguae Latinae di Gerard Vossius e l’Etymologicon Linguae Anglicanae di Stephen Skinner. Un lavoro ancora più approfondito fu portato avanti da George William Lemon nel 1783 in cui si cerca di catalogare l’origine delle parole inglesi in base alla loro derivazione classica, ossia dalla lingua greca o latina, oppure dal sassone o da altre lingue nordiche.
Dall’Ottocento si diffondono i dizionari etimologici in molte altre lingue europee tra cui la lingua italiana.

 

 

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