Omelie 2012 di don Giorgio: Seconda domenica dopo il Martirio di S. Giovanni il Precursore

9 settembre 2012: Seconda dopo il martirio di san Giovanni

Ancora una volta preferisco soffermarmi sul primo brano della Messa. È il capitolo 63 del libro di Isaia. Il libro di Isaia in realtà è diviso in tre parti. I primi 39 capitoli riguardano la predicazione del profeta Isaia, vissuto nell’VIII secolo avanti Cristo. La seconda parte, che comprende i capitoli che vanno dal 40 al 55, riguardano oracoli pronunciati o scritti da profeti durante l’esilio babilonese (587-538 a.C.). Gli ultimi capitoli, dal 56 al 66, sono invece da collocare dopo il ritorno dall’esilio e dopo la ricostruzione del tempio di Gerusalemme. Il capitolo 63, dunque, fa parte del cosiddetto terzo Isaia. È importante conoscere il contesto per capire il brano di oggi. Vorrei aggiungere un’altra cosa: la liturgia ha tralasciato i primi sei versetti e gli ultimi due, tra cui c’è la notissima invocazione: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!”. I primi sei versetti riguardano il giudizio divino contro i nemici, mentre col versetto 7 inizia una grande preghiera, una delle più belle della Scrittura, preghiera che continua anche con il capitolo 64.
Il capitolo 63 inizia con il tremendo giudizio di Dio contro i popoli nemici. È un dialogo tra una sentinella e un personaggio misterioso che sta per varcare le porte della città. È avvolto in un manto rosso, come avesse pigiato uva in un tino. Non dimentichiamo che la vendemmia è un simbolo del giudizio divino. L’identità di questo personaggio, le cui vesti sono macchiate di sangue, è il Signore stesso che si è vendicato dei propri nemici. Chiara l’allusione al re persiano Ciro il grande, strumento di vendetta di Dio che ha punito i babilonesi permettendo così agli esuli ebrei di tornare in patria.
L'esperienza drammatica della distruzione di Gerusalemme, avvenuta alcuni anni prima, è rimasta nel ricordo dei deportati a Babilonia come un’enorme e sorprendente umiliazione. Nel luglio del 587 a.C. i Babilonesi demolirono le mura della città santa, incendiarono i palazzi, le case del re e il tempio. I deportati continuarono a cercare le ragioni di questa sciagura, sapendo di essere un popolo santo, amato da Dio e liberato dalla schiavitù alcuni secoli prima, attraverso Mosé.
Il brano di oggi, che inizia col versetto 7, come dicevo è una grande supplica, in cui la voce di un solista a nome di tutto Israele si rivolge a Jahvè chiamandolo per tre volte “nostro Padre” e chiedendogli di non abbandonare il suo popolo, anzi di impedire che Israele abbia di nuovo a deviare dalla retta strada, allontanandosi dal suo signore e salvatore. La tragedia babilonese dimostra che in realtà è Dio che si è allontanato, e questa lontananza ha rovinato il popolo, non più disposto al timore di Dio, non più consapevole della propria dipendenza da Lui, della sua potenza e del suo amore. Il Signore si è ritirato al di là del cielo. E la terra non percepisce più né il suo potere di protezione, né la sua potenza. "S'è allontanato perché abbiamo peccato e ci siamo ribellati, diventando così, senza rendercene conto, una cosa impura e un panno immondo".
"Solo tu sei il nostro Padre" perché non ci sono più padri a cui rivolgersi. "Abramo non ci riconosce e Israele (Giacobbe) non si ricorda di noi" (v 16). Solo Dio è Padre che non si dimentica della sua alleanza. Questa è la prima volta che si invoca Dio come “padre”. Gli ebrei erano restii a chiamare Dio come Padre per evitare fraintendimenti, dato che, nell’antico Oriente, la paternità del dio era legata ai culti idolatrici della fertilità.
Un tale linguaggio avrebbe facilmente equivocato su ipotetici matrimoni con "le figlie degli uomini" come la mitologia pagana, invece, ricordava facilmente. Nel periodo successivo all’esilio babilonese, però, l’invocazione di Jahvè come padre iniziò a diffondersi in Israele, e all’epoca di Gesù era comune nella preghiera degli Ebrei. È stato Gesù che ci ha rivelato il volto di Dio Padre. Chi non ricorda la bellissima preghiera del “Padre nostro”?
È anche suggestivo il richiamo a Dio come "Redentore", perché ci si riferisce ad una cultura radicata di responsabilità e di rispetto verso i propri parenti. Nel linguaggio giuridico ebraico “redimere” significava “riscattare”. In caso in cui un membro della famiglia avesse perso la libertà o perché prigioniero o perché oberato di debiti, il parente prossimo diventava moralmente responsabile della schiavitù e quindi si impegnava a riscattare lo schiavo con una somma di denaro o addirittura consegnandosi, in sostituzione del proprio congiunto. Ora, purtroppo, pensa il popolo pentito, non ci sono padri e non ci sono possibili redentori: resta solo Dio che è l'unica speranza nuova.
Il brano di oggi mi suggerisce alcune stimolanti riflessioni. Anzitutto, la supplica rivolta da Israele a Jahvè è particolarmente accorata, esprime un dolore sincero e una tale fiducia in Dio da provocarlo nel suo apparente silenzio, o abbandono. E questo in forza della stessa alleanza che Dio aveva stipulato con il suo popolo. Bisogna ricordare la caratteristica peculiare dell’alleanza biblica. Quando sentiamo parlare di alleanza solitamente pensiamo ad un contratto bilaterale. Nella società, quando si fa un patto, se viene meno una condizione, da una parte o dall’altra, esso si scioglie. Ma con Dio non è così. Egli fin dall’inizio stringe alleanze, prima con Noè, poi con Abramo e il popolo eletto, e infine, in Gesù, con l’umanità intera, ma l’iniziativa parte sempre da Dio, e non ha termine, neppure dopo mille e più tradimenti o infedeltà degli esseri umani. Ecco perché diciamo che l’alleanza biblica è unilaterale.
Dio, dunque, non può dimenticare la sua promessa. Si è impegnato, anche da solo, a mantenerla. Non interessa che il popolo lo abbandoni: “Anche se il mio popolo mi tradirà, io non verrò mai meno alla mia parola”. Questa era l’Alleanza, che dunque, in qualsiasi caso, non si scioglieva col venir meno della parola d’Israele. Dio rimaneva, in ogni caso, fedele alla sua parola. E Israele lo sapeva, e quasi sfidava Dio nella sua promessa. Sapeva di essere debole, sempre pronto a tradire l’alleanza, ma nello stesso tempo confidava nella promessa di Dio. Nei momenti più drammatici, si appellava alla misericordia divina. Proprio qui troviamo la sfida dei profeti, la sfida degli oranti (pensate ai salmi, le preghiere più intense dell’Antico Testamento). Così invocavano, supplicavano il Signore: Sì, siamo peccatori, meriteremmo ogni castigo, ma tu, o Dio, non puoi abbandonarci. Verresti meno alla tua stessa parola! Noi siamo deboli, veniamo meno al patto, ma tu non lo puoi fare! 
In fondo, se facciamo caso, ogni nostra preghiera poggia la propria fiducia nel fatto che Dio è unico nel suo genere: egli non può, in quanto Dio, venir meno al proprio amore e alla propria misericordia. E la nostra sfida con Dio è tale che può assumere i risvolti di una vera bestemmia: appunto, come una provocazione per vedere fino a che punto Dio rimane fedele al suo patto con l’Umanità. Ai profeti piacevano le sfide, le provocazioni, nelle loro invocazioni e suppliche, umili ma anche audaci, con l’intento quasi di risvegliare in Dio la sua promessa.
Una promessa, ripeto, che non dipendeva dalla nostra fedeltà all’Alleanza. Che Parola di Dio sarebbe se dipendesse dalla nostra fedeltà! Dio va oltre i nostri peccati. La sua misericordia è infinita.
Comprendiamo allora gli sfoghi contro un Dio che sembra tacere, quando succedono certe tragedie umane. Chi non ricorda le suppliche al limite della bestemmia in tempo di guerra? Chi non ricorda la preghiera audace di Paolo VI appena ha saputo dell’uccisione del suo grande amico, Aldo Moro?
A me non piacciono le preghiere troppo riverenziali, che sanno di sudditanza quasi nella paura di offendere Dio. Non dobbiamo neppure ricorrere sempre al solito alibi del volere di Dio. D’accordo che lui vede e sa quello che fa, d’accordo che il suo volere è talora incomprensibile, ma anche Cristo sulla croce si è sfogato con il Padre celeste, urlando: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Dio non dimentica la sua Parola, la sua promessa, la sua alleanza, ma vuole che glielo ricordiamo, perché questa è la preghiera dell’orante: sapere di aver bisogno di Dio, sapere che senza di lui noi costruiamo sulla sabbia, sapere che la storia non può durare solo sulla nostra fedeltà umana. Eppure, quando stiamo bene ce ne dimentichiamo, quando stiamo male ci aggrappiamo al Signore. La nostra è una brutta storia di dimenticanze, e di ravvedimenti per interesse. Dio non gradisce gli olocausti formali. Possiamo anche moltiplicarli a dismisura, ma non ottengono gli effetti sperati. Dio gradisce la conversione del cuore. E davanti a un cuore contrito e umiliato, l’alleanza si scioglie in una perenne benedizione.    

 
 

Lascia un Commento

CAPTCHA
*