Omelie 2014 di don Giorgio: Quinta Domenica dopo l’Epifania

9 febbraio 2014: Quinta Domenica dopo l’Epifania
Is 66,18b-22; Rm 4,13-17; Gv 4,46-54
L’omelia della Messa, per il poco tempo che si ha a disposizione, corre il rischio di fronte a certi brani della Bibbia di toccare gli argomenti senza approfondirli. È anche il caso dei brani di questa Messa. Pensate al primo, che è la pagina con cui si chiude il libro del terzo Isaia. Noi sappiamo, grazie agli studiosi, che il libro di Isaia comprende un vasto periodo che va dall’ottavo secolo fino al quinto/quarto secolo avanti Cristo, per cui il libro che è giunto fino a noi è stato scritto da diversi profeti vissuti in epoche diverse. Questo è importante, perché ci troviamo di fronte ad uno sviluppo di idee che naturalmente non potevano essere il prodotto di un solo profeta.
Si parla spesso di universalismo biblico, cioè di un messaggio di salvezza per tutti i popoli. Universalismo significa, dunque, apertura della Bibbia a tutti i popoli della terra e a tutta la storia umana fino alla fine dei tempi. Di conseguenza, non è vero che Dio si è rivolto solo al popolo eletto e, se si è rivolto al popolo eletto, Dio lo ha fatto perché il popolo ebraico diventasse l’interprete o il portavoce della volontà divina di salvare l’intera umanità. La Parola di Dio, nella Bibbia, non è mai fondamentalista o esclusivista: che poi gli ebrei abbiano preteso di essere gli unici eredi della salvezza, questa è un’altra storia, che Dio e i suoi profeti non hanno mai accettato.
Nel libro di Isaia nel suo complesso troviamo cinque celebri capitoli universalistici, di cui l’ultimo è il brano della Messa di oggi. Su questo vorrei soffermarmi. Il profeta anonimo per parlare del disegno di Dio ricorre ad uno scenario cosmico. È una visione profetica. Il Signore convoca in Sion (Gerusalemme) tutte le nazioni: l’assemblea è composta di due cerchi concentrici attorno al Signore. In primo piano il Signore sarà circondato dall’intero popolo d’Israele, tornato da tutti i suoi esili; poi accorreranno tutte le nazioni, senza distinzione di provenienza. Dio manifesterà la sua presenza, ovvero, come dice la Bibbia, la sua “gloria”, davanti a tutti. Tutti i popoli verranno in una solenne processione liturgica. Ed ecco la cosa interessante: tutti saranno sacerdoti, ovvero incaricati del servizio del Signore. Non solo dunque i membri della tribù di Levi, i leviti, godranno di questo alto privilegio.
C’è di più. Questo privilegio non verrà dato solo al popolo ebraico. Le nazioni pagane accederanno anch’esse al grado sacro di sacerdoti e leviti del Signore. Come potete capire, è una visione sconvolgente. Siamo in cammino verso una parità totale, di ruoli e di compiti: la gerarchia oggi, in attesa di questa grande rivoluzione, che è innata nel disegno di Dio, non è che una funzione temporanea di questa visione universalistica paritaria. La gerarchia è un mezzo, e solo un mezzo, che deve a poco a poco scomparire perché il popolo di Dio, composti dell’intera umanità, si renda compartecipe della salvezza universale. La gerarchia, dunque, non è l’espressione della volontà di Dio. Questo ce lo hanno sempre fatto credere, ma è falso. Tutti saremo sacerdoti allo stesso modo, senza gerarchia di ruoli o di potere. Certo, “saremo”, ma questo significa che dobbiamo già tendere verso questa visione, che è il disegno di Dio. Se iniziassimo a togliere già qualche fronzolo, qualche titolo in più, qualche grado eccedente di gerarchia e puntassimo all’essenziale!
Se Dio mi dà una responsabilità (anche i profeti ricevevano una missione da Dio) non è per sentirmi superiore agli altri, con qualche potere in più per comandare: tutto è al servizio umile (ecco che cosa significa ministro) dell’umanità nei suoi aspetti esistenziali e concreti. Facile dire: io sono al servizio dell’Umanità. Bisogna dire: io servo i fratelli, perché tutti apparteniamo alla stessa umanità. La parola sacerdozio include la parola sacro. La sacralità fa parte del creato, in quanto presenza del divino. Noi abbiamo scambiato la parola “sacro” con la parola “religioso”. Ed è qui che sono nati gli equivoci. Tutti siamo sacerdoti, ma non al servizio di una religione in senso stretto. Siamo al servizio dell’Umanità.
Un biblista ha fatto osservare: “L’universalismo del libro di Isaia, come quello biblico in generale, non è una dottrina formulata mediante concetti generali. Esso risulta da visioni profetiche e si esprime in un linguaggio figurato e poetico. È un messaggio di speranza, una promessa escatologica, un’”utopia”, che orienta gli uomini e le donne nell’angoscioso e oscuro tempo presente. Se ci viene rivelata la fine verso la quale andiamo, è infatti più facile riprendere coraggio nella notte, nei momenti di fatica e di sconforto. Sappiamo che la fine dei tempi sarà l’adempimento dell’opera divina già inaugurata nella storia della salvezza e nella creazione. Sappiamo che il Signore riprenderà la sua creazione da capo e compierà allora la salvezza finale per tutte le sue creature» (Adrian Schenker).
In ogni caso, quando parliamo di futuro, stiamo attenti: i mistici ci dicono che non esiste né il passato né il futuro, tutto è sempre presente. Esiste solo il presente. Nel presente c’è il passato e c’è già il futuro. Questo è importante, perché non possiamo vivere da nostalgici e neppure vivere sempre in attesa che capiti qualcosa di nuovo. È il presente che conta, e che dobbiamo vivere. Certo, si tratta di cogliere l’utopia, ma nel presente, per realizzarne quella parte che è di nostra responsabilità.
Passiamo al brano di san Paolo. Si è subito tentati di dire: “Sarà per un’altra volta”, e si rimanda il commento. Il realtà, non è facile affrontare in pochi minuti temi quali la libertà, la grazia e la fede in rapporto alla legge. Anche la giustizia, di cui parla la Bibbia e san Paolo, esce dai canoni delle istituzioni terrene. Ancora una volta: vorrei distinguere la legalità, ovvero ciò che è conforme alla legge, e la giustizia, che è quell’ordine superiore che non dipende da nessun legislatore o struttura umana. La legge (ovvero l’insieme di norme, regolamenti, comandamenti, disciplina, ordine pubblico ecc.) è solo un mezzo, in funzione di quel bene comune che riguarda il bene di tutti e di ciascuno, in quel piano o disegno per cui Dio ha dato origine all’universo. Che poi Dio abbia dato solo l’input iniziale da cui è scaturito il mondo, non importa: l’universo è già tutto in fieri in quell’input iniziale. Se la legge diventa un mezzo in funzione di una struttura, religiosa o civile, allora dobbiamo stare attenti. Se la religione o lo stato strumentalizzano la dignità dell’essere umano o, diciamo meglio, strumentalizzano l’universo, e nell’universo metto anche il creato, allora dovremmo urlare come san Paolo: “La legge provoca l’ira”. E san Paolo aggiunge: la legge provoca la trasgressione, “dove non c’è legge, non c’è nemmeno trasgressione”. Qui potremmo riflettere a lungo: abbiamo stilato, come Chiesa, una lunga lista di peccati. In che modo? Creando una lunga serie di precetti o di leggi. Più leggi, più possibilità di trasgredirle, e perciò di peccare.
Potete facilmente capire le conseguenze di questo sistema fondato sul rapporto religione e legge, stato e legge. Si è creato quel forte legame di schiavitù che ha permesso alla religione e allo stato di tenere a freno gli spiriti liberi. Schiavitù anche di tipo psicologico, e non solo di paura. Ci chiediamo ancora oggi dove mettere la coscienza. La coscienza è stata annullata, anche dietro l’obbedienza, resa virtù intoccabile dalla religione.
E ci siamo dimenticati che Cristo è venuto per togliere non i peccati del mondo, ma a farci capire qual è “il” peccato, come fonte di altri peccati. C’è un solo peccato, sorgente di tutto il male: è la disarmonia dell’universo, è il ribaltamento o decentramento del disegno originario di Dio, e ciò succede quando si mette al centro il potere, l’egoismo, l’individualismo, il nostro io, le nostre ideologie politiche e religiose, lo stato e la stessa religione. Il vero peccato è togliere il primato all’essenziale, il peccato è lo squilibrio per cui il bene dell’umanità è messo al servizio di un disegno terreno.
Le leggi ci vogliono, certo, ma devono anzitutto essere poche, pochissime, e tutte in funzione del bene comune, che rientra in quel disegno originario, quando Dio ha creato l’universo.
Solo una breve riflessione sul terzo brano della Messa. Gesù torna a Cana di Galilea, dove aveva compiuto il primo miracolo, cambiando l’acqua in vino. Lo invitano a scendere a Cafarnao per guarire il figlio del funzionario imperiale. Gesù compie un gesto un po’ particolare: guarisce quel ragazzo ma a distanza, senza avere un contatto fisico. E anche in questo caso Giovanni annota: “questo fu il secondo segno”. Il “segno” sta appunto in quel gesto di guarigione a distanza. Gesù guarisce sulla sua parola. Bisogna credere, anche senza vedere o toccare. Gesù all’inizio sembra rimproverare quel funzionario: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». Bisogna credere solo sulla parola di Dio, senza intermediari visionari, senza la pretesa di interventi eccezionali. Gesù, pur mettendo in conto una certa gradualità, chiedeva sempre una fede autentica, che trovava soprattutto tra i pagani.
Quante volte diciamo queste cose, quante volte parliamo di fede pura, e poi chiedeva a Dio segni e prodigi, poi favoriamo tutto quel miracolismo che circonda ad esempio i santuari, poi imponiamo a Dio che compia miracoli per poter canonizzare un santo. Ci rendiamo conto della grave contraddizione in cui la Chiesa è caduta? Prima parlavo di visioni miracolistiche. Per credere è proprio necessario che la Madonna parli o si faccia vedere? Ma che fede è mai questa? Se ho veramente fede, non è necessario che Dio compia segni e prodigi. Una religione miracolistica, assetata di interventi straordinari di Dio, una Chiesa che favorisce la sete di miracoli, che noi chiamiamo grazie divine, ci allontana dal vero Dio, la cui presenza è così reale, così profonda, che basterebbe rientrare in noi, nella nostra quotidianità. Non si tratta di sentirci uniti a Dio sviluppando i nostri sensi. Noi e Dio siamo una cosa sola. Se ci appelliamo ai miracoli o a fatti esteriori, vuol dire che il nostro essere si è scisso da Dio. Noi e Dio siamo una cosa sola. La fede sta nel prendere coscienza di questa unione d’essere.

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