Omelie 2014 di don Giorgio: Sesta Domenica dopo l’Epifania

16 febbraio 2014: Sesta Domenica dopo l’Epifania
1Sam 21,2-6a.7a; Eb 4,14-16; Mt 12,9b-21
Anche in questa domenica, la liturgia ci presenta alcuni brani della Bibbia che meritano una particolare attenzione. Vorrei partire dalla Lettera agli Ebrei che, come tanti di voi sanno, non è stata scritta da San Paolo, ma da un autore di cui ancora oggi non conosciamo il nome. Già lo scrittore cristiano Origène nel III secolo d. C. si chiedeva: “Chi ha scritto questa lettera? Il vero, Dio solo lo sa!”. Incerto, dunque, l’autore, incerti sono anche i destinatari che non sono certamente ebrei, ma piuttosto giudeo-cristiani, e incerte sono pure le coordinate storiche e geografiche: quando e dove la lettera è stata scritta?
L’unica cosa certa è che siamo in presenza di un capolavoro letterario e teologico. Si tratta non tanto di una lettera, quanto di una omelia, al cui centro domina la figura di Cristo, sacerdote perfetto della nuova alleanza tra Dio e l’umanità. La cosa davvero interessante sono i riferimenti all’Antico Testamento, ma soprattutto alla figura di Melchisedek, il re-sacerdote di Salem (ovvero Gerusalemme) che incontra Abramo, dopo che questi stava tornando, vittorioso, da una guerra.
Dove sta la novità rivoluzionaria? Cristo non è sacerdote secondo la religione ebraica, ovvero secondo l’ordine di Levi, ma secondo l’ordine di Melchisedek. Chiariamo meglio. Nella Bibbia il sacerdozio che garantiva il servizio e il culto nel Tempio di Gerusalemme era esclusivo della tribù di Levi, una delle dodici tribù d’Israele, tribù che discendevano dai dodici figli di Giacobbe, di cui il terzo si chiamava appunto Levi. I sacerdoti, dunque, provenivano tutti dalla tribù di Levi, per questo si chiamavano Leviti. Ed ecco la novità. Cristo esce da questa discendenza sacerdotale, sovvertendo la religione ebraica, e si connette a Melchidedek, sacerdote fuori di ogni norma e di ogni schema, un sacerdote pagano, anche se adorava il Dio Altissimo. Altissimo di per sé non vuol dire unico, vuole dire che è al di sopra di tutte le altre divinità. Ma c’è di più. Il racconto della Genesi presenta Melchisedek come privo di genealogia, quindi libero dal tempo e dai vincoli di sangue, perciò radice di un sacerdozio non più ereditario, ma eterno e definitivo.
Il sacerdozio di Cristo, dunque, non appartiene più ad alcuna religione. Egli è il sommo sacerdozio, e da lui, solo da lui, discendono tutti i sacerdoti, non solo quelli ordinati dal vescovo, ma anche il sacerdozio comune, quello del popolo di Dio. Ma soprattutto noi preti, ministri della Chiesa, dovremmo riflettere su questa verità: siamo stati ordinati secondo l’ordine di Melchisedek, “senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita”. Quando il sacerdote novello celebra la sua prima Messa nel proprio paese, il coro parrocchiale solitamente canta: “Tu es sacerdos in aeternum, secundum ordinem Melchisedek”. Chissà quanti si son chiesti: Carneade, chi era costui?
Alla fine di giugno dell’anno scorso, in occasione del mio cinquantesimo di ordinazione sacerdotale, durante l’omelia mi sono soffermato a chiarire questo aspetto essenziale del sacerdozio di Cristo e quindi del sacerdozio nella Chiesa. Vorrei riportare un brano della predica. «Melchisedek è sacerdote universale, senza legami di carne e di tempo, senza genealogia, libero da ogni condizionamento, ministro di un Dio non strettamente religioso, al di sopra di tutti e di tutto, non per restare lontano dalle vicende umane, ma per essere ancor più vicino a tutti indistintamente.
Noi preti dovremmo ricordarci di essere senza padre e senza madre, senza genealogia, di non essere legati ad un determinato tempo, ad un determinato spazio, pur vivendo in una determinata epoca e incarnati in un determinato territorio, per essere più liberi di vivere il presente in tutta la sua carica di Umanità. Raimon Panikkar, morto alla fine di agosto del 2010, figlio di padre indiano induista e di madre cattolica catalana, che ha sempre rivendicato la sua appartenenza a quattro religioni: la cattolica, l’induista, la buddhista e la secolare, alla domanda: «Tu, maestro, sei un sacerdote cattolico. Ma come intendi il tuo ministero?», risponde: «Io sono un prete cattolico e credo nel Cristo. Ma la mia ordinazione sacerdotale è “secondo l’ordine di Melchisedek”, cioè di quel personaggio, di quel re di cui parla la Bibbia, e al quale fa riferimento la teologia del sacerdozio. Melchisedek non era ebreo, non credeva in Jahve, apparteneva ad una razza maledetta, e ciononostante, come attesta la Bibbia, è detto superiore ad Abramo». Parlando poi della Festa del Corpus Domini, Panikkar dice: «Oggi è la festa del sacerdote cosmico, come lo è stato Melchisedek che fu “rivoluzionario” perché non consacrato a nessun ordine, a nessuna burocrazia sacra. Allo stesso modo il sacerdote cattolico non può considerarsi parte di nessuna burocrazia, né di quella vaticana né di quella “tribale”, forgiata sul modello giudaico. Lo stesso Gesù ha avuto il buon gusto di non appartenere a nessuna casta sacerdotale, e non fu mai un capo, un boss, ma solo un laico, un comune servitore degli altri per carisma e umiltà».
Anche la parola “sacerdote” dovrebbe farci riflettere. Deriva da “sacer”, ovvero sacro, una parola che è stata fraintesa e scambiata con la parola “religioso”. Dire sacro e dire religioso di per sé non è la stessa cosa. Ma la cosa grave è quando la sacralità è al servizio della religione. La sacralità fa parte dell’essere umano, fa parte di tutto il creato, indipendentemente dalle credenze religiose. È sacro allo stesso modo il credente e il non credente, il cattolico e il buddista. La sacralità è il divino che c’è in noi, indipendentemente se uno ci creda o no. La religiosità è una forma di sacralità, ma non è sempre segno della divinità.
Sommo sacerdozio significa dunque che Gesù Cristo incarna in modo assoluto la divinità. Noi non siamo che partecipi di questa sacralità, anche ministri, ovvero servitori della sacralità che fa parte dell’universo. Invece, ecco il tradimento, ci crediamo padroni in una religione che mette la sacralità al servizio della propria struttura.
Il primo brano e il Vangelo ci sconvolgono ancora di più. Il primo racconta l’episodio del sacerdote Achimèlec che permette a Davide e ai suoi compagni affamati di nutrirsi dei pani sacri, i “pani della proposizione”, chiamati anche i pani “della presenza” o “dell’offerta””: erano dodici pagnotte che, secondo un’usanza antichissima (vedi l’episodio di Melchisedech che offre al Dio Altissimo pane e vino), venivano offerte dagli ebrei a Jahveh, in riconoscimento del suo supremo dominio sopra tutte le creature, ed erano poste su un tavolo nel luogo chiamato Santo, e venivano rinnovate ogni sabato. I pani sostituiti potevano essere mangiati solo dai sacerdoti. Questo episodio è stato ricordato anche da Gesù, quando venne criticato dai farisei perché i suoi discepoli, in giorno di sabato, si erano messi a mangiare alcune spighe, cosa che era proibita dalla legge del sabato. E alla legge del sabato si richiama anche il brano del Vangelo: Gesù guarisce, di sabato, un uomo che aveva una mano paralizzata.
La legge, ogni legge, non è che un mezzo, solo un mezzo al servizio di un fine. La cosa tragica è quando si trasforma il mezzo in un fine, ovvero, nel nostro caso, quando la legge prevale sul fine. Qual è il fine che la legge deve servire? Ecco la domanda che dovremmo sempre porci di fronte ad ogni legge. La legge è al servizio della dignità dell’essere umano, dove risiede il divino. In ogni essere umano c’è la presenza del divino, che lo sappiamo o non lo sappiamo. Non tocca a noi e neppure al potere costituito stabilire se e quando c’è la presenza del divino in un essere umano. Per secoli e secoli abbiamo sostenuto, complice anche la religione, che ci sono esseri più umani e meno umani, più divini e meno divini. Pensate alla schiavitù, fenomeno aberrante che ha macchiato generazioni e generazioni anche delle cosiddette civiltà. Alla domanda dei farisei: «È lecito guarire in giorno di sabato?”, Gesù risponde: «È lecito in giorno di sabato fare del bene». Questo è il vero e l’unico criterio per stabilire come osservare il sabato, ovvero la legge. Il sabato sta per legge. Gesù dirà in un’altra occasione: “il sabato è per l’uomo” e non viceversa.
Vi rendete conto che sulla legge ci siamo giocati la stessa religione, Dio stesso, per non parlare dell’umanità intera? Ancora oggi conta la legge, la struttura, l’ordine, la disciplina, più della coscienza, della nostra dignità umana.
La legge è solo un mezzo per un fine. Di fronte alla legge, a qualsiasi legge, dovrei chiedermi: qual è il suo fine? Basta con l’obbedienza cieca ad una legge che è fine a se stessa! Così dice la legge, e allora bisogna obbedire. Siamo esseri pensanti, e non automi, o pezzi di una macchina che deve essere funzionante ad ogni costo.
I militari un tempo, non lo so oggi, non dovevano mai pensare in proprio, ma obbedire ciecamente anche agli ordini di pazzi gerarchi. Ci sono ancora oggi ordini o congregazioni religiose che impongono in modo del tutto scriteriato il voto dell’obbedienza. Noi preti diocesani non abbiamo fatto il voto di obbedienza, quando siamo stati ordinati, tuttavia mi sento ancora dire che mi sono impegnato davanti al vescovo. Obbedire davanti a un essere umano? Obbedire casomai a Dio e alla mia coscienza. Questo non comporta di per sé il caos o il disordine o l’anarchia. È chiaro che, oltre il mio bene, c’è il bene della società. Si tratta allora di saper armonizzare la mia coscienza con il fatto che sono anche un essere sociale, che vive cioè in una società o in una struttura. Ma anche in tal caso, non è la struttura che devo servire, ma il bene comune che va al di là di ogni struttura. E non ditemi che è sempre comodo disobbedire alla legge: dico solo che è più difficile obbedire alla coscienza  per il mio vero bene (che non sono i capricci) e per il bene comune (che non sono i miei interessi personali o familiari o di partito).
Coscienza significa responsabilità. L’obbedienza cieca significa irresponsabilità.

Lascia un Commento

CAPTCHA
*