Un anno fa, a Monte succedeva che…

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di don Giorgio De Capitani
Un anno fa, come in questi tempi, a Monte iniziava una vigorosa protesta, dopo che i superiori avevano già deciso di togliermi la comunità, per spedirmi in esilio. L’età era un pretesto, solo un pretesto del tutto ridicolo. Ci sono ancora oggi alcuni miei compagni di Messa, della mia stessa età, che tengono parrocchia, e sono più malconci di me, in salute.
È stata una protesta di malumori popolari, e che è stata guidata da un gruppo di parrocchiani. Difficile valutarla, col senno di poi. Anche perché ora sono qui, nella mia forzata solitudine, a rivivere quei momenti, senza sapere quanto in realtà sia rimasto di quella contestazione, che si era via via sviluppata con l’evolversi ininterrotto di incontri-scontri con le autorità competenti. Mesi incandescenti, anche se non ero così sciocco o ingenuo da illudermi che il fervore segnasse la temperatura dell’intero corpo del paese.
In questi giorni, nel mio eremitaggio, mi sto ponendo qualche domanda: personalmente, ci credevo o non ci credevo? O meglio: lottavo per rimanere a Monte, oppure, sicuro di dovermene andare, c’erano altre ragioni oltre quelle più concrete e immediate della popolazione? Non saprei rispondere. Ero così coinvolto che non riuscivo a distinguere. Tuttavia, una cosa deve essere chiara: ciò che mi faceva arrabbiare era l’ottusità dei superiori che non riuscivano a valutare tutto quello sforzo, durato anni e anni, di un ministero pastorale, che non era mai stato al servizio di una struttura oramai decadente. Forse no: proprio perché avevano capito dove volevo arrivare, loro, i superiori, in primis Angelo Scola, non intendevano più sopportare il rischio che si aprisse nella diocesi qualcosa che l’avrebbe disturbata nel suo cammino rigidamente strutturale.
La gente comune aveva afferrato dove volevo arrivare? Penso che qualcosa avesse intuito, e forse per questo, per non restare orfana, riconoscendo che i tempi non erano ancora maturi per camminare da sola, si era aggrappata a quella speranza reale che aveva ancora tra le mani.
Certo, non ho giocato a nascondere le mie vere intenzioni, o al ribasso, promettendo obbedienza e più disciplina. Non fingevo, ma chiedevo ripetutamente ai superiori che mi si permettesse di tentare un’esperienza diversa, e che perciò potessero chiudere un occhio. Non pretendevo che approvassero di buon grado che questa era la strada giusta da percorrere. Chiedevo che mi lasciassero fare una specie di comunità di base, ma del tipo pastorale, e non in senso strettamente settario. Risposta: no, e poi no! Tutto doveva rientrare nel solco delle decisioni curiali in materia, ovvero: c’era una comunità pastorale, quella di Sant’Antonio abate, e anche Monte doveva farne parte senza se e senza ma. Errori o non errori, era una questione di principio. E sui principi non si può discutere, anche se poi la realtà è tutta una disintegrazione dei principi. La Chiesa è sempre andata avanti così: con la disciplina e con l’ordine. L’autorità va obbedita, non importa se la gerarchia è nelle mani di incapaci o addirittura di imbecilli irrecuperabili.
Era un’emergenza, ma anche una possibilità perché in diocesi nascesse una comunità parrocchiale che potesse poi far sorgere altre, in vista di una “nuova” pastorale di fede.
Purtroppo, è stata una pura illusione, visto come le vicende presero la piega che tutti conosciamo. Sì, mi ero illuso, ma non su una cosa: ero convinto che, se i superiori avessero ceduto, e perciò fossi rimasto a Monte, il futuro non sarebbe stato per me per niente facile. Mi sarei ritrovato di nuovo da solo, a lottare. L’entusiasmo di quei giorni si sarebbe attenuato, e poi svanito nel nulla. Se i superiori reagiscono in un certo modo di fronte alle aperture pastorali troppo azzardate, la gente però non reagisce come dovrebbe, ovvero sostenendole con coraggio e maturità.
Parlo di gente comune, perché per me, lo ripeto, la nuova comunità di base è la comunità in sé, in tutte le sue componenti, senza privilegiare i dotti. La nuova sfida è questa: la comunità cristiana locale. La rivoluzione deve partire dalla gente comune, in loco. 
Ma la gente comune, più che alle idee o agli ideali o alle utopie, si attacca fisicamente al proprio leader, cioè a qualcosa di concreto, di immediato. E non va oltre. Le interessa quel personaggio, e non lo vuole lasciare, anche a rischio di distruggerlo poi. La gente non riuscirà mai a cogliere in pienezza la profezia, l’oltre di chi non si ferma all’interesse del paese. Certo, è importante il proprio paese, ma volergli bene non significa chiudersi tra quattro confini.
Monte era già favorito ad andare oltre i confini, visto che, da anni, la chiesa era frequentata da credenti e non credenti che venivano da fuori. Ed è qui che si può cogliere una delle ragioni per cui i superiori sono intervenuti a rimuovermi. Ne ho avuto recentemente la conferma durante il colloquio con il cardinale Tettamanzi.
La chiesa era troppo frequentata da gente che veniva da fuori, e perciò “pericolosa”. Era di fatto una contestazione nei riguardi di parrocchie che si stavano svuotando per il malessere di credenti assetati di una parola nuova. Ma, oltre a questi “fedeli” infedeli al proprio pastore, c’era soprattutto chi frequentava la chiesa di Monte come Chiesa “altra”. Come farla coincidere con la Chiesa di Scola? Impossibile! Bisognava allora rompere quel legame tra Monte e i “forestieri”, per evitare che nascesse una dissidenza all’interno della ciellina diocesi milanese. 
Me ne dovetti andare, dietro ordini ben precisi e dietro condizioni ben precise dello stesso cardinale Angelo Scola. Vere minacce. E l’eminenza ha usato anche degli stratagemmi, come quello di imporre al nuovo prete, che mi avrebbe sostituito, di abitare a Monte. Per due motivi: anzitutto, per costringermi a uscire di casa (temeva che rimanessi, creando così una comunità “autonoma”); e poi, per dare un contentino alla popolazione: “State buoni buoni, avrete sul posto un altro prete!”. D’altronde, via un prete che ha diviso anche il paese, la parte malcontenta torna facilmente all’ovile, all’arrivo del nuovo pastore.
La cosa che mi fece incazzare è la finale della lettera “minacciosa”. Riporto le parole esatte: “Quando avrai portato a termine il tuo trasferimento a Dolzago, ti incontrerò volentieri”. Come interpretare queste parole, non certo degne di un Martini o di un Tettamanzi che, prima ricevevano, poi decidevano se prendere provvedimenti? Se Scola mi avesse invitato prima, non so se avrei accettato, conoscendo il personaggio che certamente mi avrebbe chiuso in ogni caso la porta in faccia, ma non sarebbe stato più in linea con lo stile del buon pastore evangelico alla ricerca delle pecorelle più irrequiete? A parte il fatto che non mi sono mai trasferito a Dolzago (ho solo accettato di celebrare una Messa nei giorni festivi, alle ore 18: impegno che finora costantemente ho mantenuto), ma ho preferito starmene solo, tranquillo e libero, scegliendo di risiedere in un appartamento, provvidenzialmente messomi a disposizione a Cereda, frazione di Perego, la telefonata del cardinale con cui mi diceva che era disponibile a ricevermi, è arrivata dopo qualche mese, precisamente lunedì 21 ottobre. Verso metà mattinata, ricevo una telefonata. La voce è di Scola. Inconfondibile per la sua freddezza. Mi dice che vorrebbe incontrarmi. Rispondo: Ci penserò. E lui: Deciditi al più presto, perché la mia agenda è piena di impegni. E io: Ci penserò. Chiusa la telefonata. Mi son messo subito a scrivere una lettera, che il giovedì successivo, 25 ottobre, ho inviato via email al cardinale, tramite il segretario don Luciano Capra. Eccola. 
EMINENTISSIMO CARD. ANGELO SCOLA
Arcivescovo di Milano
Eminenza, la Sua telefonata di lunedì 21 ottobre non mi ha particolarmente sorpreso. Infatti, oramai da settimane, il parroco di Dolzago, don Giorgio Salati, mi riferiva dei suoi ripetuti inviti perché Lei mi telefonasse per un eventuale incontro. Anche domenica 20 ottobre mi ha chiesto: “Il cardinale ti ha fatto sapere qualcosa?”.
Che poi io non abbia provato particolari emozioni, mi pare più che naturale, vista la pesante situazione che si è creata in questi ultimi tempi, col mio forzato trasferimento da Monte. Le mie attuali emozioni sanno tanto di amarezza e non lasciano ancora spazio ad una certa rassegnazione. Eminenza, non creda che sarà facile da parte mia far finta di nulla e tornare tra le file degli “obbedienti” per amore del volere divino. 
Anche se su tutta la complessa storia che mi riguarda aleggiano i miei critici rapporti personali per la Sua nomina a Vescovo di Milano, vorrei tuttavia sottoporLe di nuovo, con obiettività, la vicenda del mio allontanamento dalla comunità di Monte: allontanamento che, non solo a me, è apparso di una tale dis-Umanità da chiedermi quando questa Chiesa, a cui vorrei sempre appartenere, costi quello che costi, assumerà il bello o il buon volto del Padre che accoglie tutti i suoi figli.
Vorrei evidenziare l’aggettivo “buono” (anche se bello e buono ontologicamente sono la stessa cosa), dal momento che Lei, Eminenza, sta insistendo sulla “bontà”. Su Il Messaggero di Sant’Antonio, ogni mese, Lei tiene una rubrica dal titolo “La vita buona”. Ora mi chiedo: che significa “bontà” anche nei rapporti con i Suoi preti, in particolar modo con i preti dissidenti? Non mi sento in colpa di appartenere a questa categoria, se per dissidenza s’intende il non sottomettersi ad una struttura che vincola la libertà dello Spirito. Conosco preti che avevano chiesto un colloquio con Lei, ma che sono morti senza la gioia di incontrare un Buon Pastore. Il caso don Paolo Pagliughi non è l’unico. Martini e Tettamanzi si comportavano diversamente: chiamavano i loro preti ancor prima di prendere dei provvedimenti. Agivano da buoni pastori. E il buon pastore, dice il Vangelo, va alla ricerca della pecora che è uscita dal recinto o si preoccupa di chi è sui bordi della staccionata.        
Eminenza, cinquant’anni di vita sacerdotale mi hanno insegnato che con la gente noi ministri di Cristo non possiamo giocare a fare lo scaricabarile, trincerandoci dietro ad una religione che illude prospettando un aldilà promesso ai rassegnati, agli obbedienti, ai servi, sempre pronti a tacere, subendo ogni ingiustizia, chiusure di fede, rigidità d’ogni tipo.
In cinquant’anni ho imparato che non dobbiamo sederci, accontentarci, vivere di espedienti pur di rimanere al proprio posto, ma che dobbiamo guardare oltre, in avanti, e non chiuderci nel cerchio di un dogmatismo o di un moralismo senza sbocchi.
Tra errori e sbandate, ho imparato che uno dei più grossi peccati di noi preti sta nel lasciare il gregge nel recinto a brucare erba ormai secca, che la gente ha bisogno di dissetarsi a sorgive scaturenti dalle nuove terre, e di inebriarsi di qualcosa d’Infinito. Ma come è possibile se prevale la legge sulla grazia, l’ordine sulla coscienza, la struttura sullo Spirito? Questa sarebbe la vita “buona”?
Eminenza, Lei in questi ultimi tempi (come vede, La seguo!) sta usando belle parole, ma non mi convince sulla interpretazione che poi dà alle stesse. Parlare di umanesimo può essere accattivante, ma Lei cosa intende per umanesimo? Inutile nasconderlo: abbiamo visioni completamente diverse, pur usando lo stesso linguaggio. Ho avuto la conferma da quanto Lei ha scritto nella lettera che mi ha inviato, in data 31 agosto 2013, comunicandomi ufficialmente la mia rimozione da Monte, tra minacce canoniche e ultimatum. La lettera terminava con la frase: “Quando avrai portato a termine il tuo trasferimento a Dolzago, ti incontrerò volentieri”. Da quel lontano 14 settembre è passato più di un mese. Ora, solo ora mi invita a incontrarmi con Lei? E perché poi, dopo il trasferimento? Non è una mancanza di fiducia? A che serve ora un colloquio che temo sarà duro e anche ancor più minaccioso?
Eminenza, prenda pure i provvedimenti che vuole, ma non mi sento per ora di incontrarLa dopo che sono stato “rottamato” con tutti i crismi canonici, ma senza potermi prima confrontare con Lei. A che cosa sono serviti i vari incontri con i Vicari, quando questi fedelissimi collaboratori non dicevano altro che “tutto dipendeva dal cardinale”? Dopo ogni incontro mi sentivo quasi sconfitto, perché credevo nella loro buona fede e perché speravo che succedesse qualcosa di nuovo. Nulla! Tutto già previsto, tutto già deciso, tutto già programmato.    
Se un figlio sbaglia per esuberanza di amore, per intemperanza di fede, per eccessivo spirito critico, un padre deve saper essere superiore (questo sì!) nel senso di intuire le “buone” ragioni che non mancano mai, quando il figlio è disposto anche a pagare di suo. Queste ragioni non sono mai state né colte e tanto meno ascoltate. Chiedevo ripetutamente, pur sapendo a che cosa sarei andato incontro, di continuare a Monte un’esperienza pastorale di comunità aperta che, secondo me, era sulla “buona” strada, facendo anche da traino per le altre comunità, stanche e rassegnate. Un’eccezione non la si poteva permettere? Senza presunzione o arroganza, senza mettersi sul gradino più alto, senza voler dettare legge a nessuno, perché è così impossibile, in una diocesi vastissima come quella milanese (anche chiudendo un occhio come hanno fatto i Suoi predecessori), tentare un’esperienza “diversa”? Di che cosa Lei ha avuto paura? Che creassi una scissione, una comunità di base in alternativa alla Chiesa ufficiale? 
So come Lei la pensi in fatto di Chiesa-struttura-religione. Le minacce di provvedimenti ne sono una prova. Beh, allora doveva essere ancora più deciso, e avrei preferito un taglio netto: che Lei mi dicesse che non posso più far parte di questa Chiesa. Sì, lo avrei preferito, piuttosto che tenermi “dentro” appeso a un filo.
Tuttavia, continuerò a celebrare la Messa, l’unica finora, delle ore 18 nei giorni festivi a Dolzago, nella speranza che il filo tenue che mi lega alla Chiesa milanese possa un domani schiudere qualche orizzonte.
Glielo dico con tutta schiettezza, senza polemica: se Lei, Eminenza, si sente così sicuro di ciò che sta facendo, perché convinto di appartenere alla vera Chiesa di Cristo, non creda che io non lo sia altrettanto. Ma, qual è la vera Chiesa di Cristo? Lei non può rispondermi in nome della Sua autorità. In uno dei colloqui che ho avuto con il Suo predecessore, mi ha sorpreso, in bene, la risposta che mi ha dato: “Don Giorgio, dobbiamo sempre ricordarci che l’unico nostro punto di riferimento è Cristo. Poi, la Chiesa!”.
Saluti, don Giorgio De Capitani
Cereda, frazione di Perego
Post scriptum. Mi chiedo anche perché Lei non abbia mai risposto alle due lettere della Comunità di Monte. Sarebbero bastate due righe.
24 ottobre 2013
Il 5 di novembre il cardinale mi ha inviato un bigliettino, scritto a mano, con queste parole: “Don Giorgio, accetto con semplicità la tua risposta al mio invito. Resto in ogni caso disponibile a incontrarti se e quando vorrai. Angelo C. Scola Arc”.
Da allora più nulla. È venuto a trovarmi il Vicario Episcopale, monsignor Maurizio Rolla, per chiedermi “come stava la mia anima”. In tutto, da settembre fino a oggi, tre o quattro volte. Il Vicario Generale non si è mai fatto vivo una volta. È uscito a Castello Brianza per le cresime il mese di maggio, ma al parroco non ha chiesto nulla di me. Eppure sapeva che vado a Dolzago a celebrare la Messa.
Ma la cosa che, in un certo senso, mi fa ancor più soffrire è l’atteggiamento di quelle persone di Monte che, l’anno scorso, proprio in questi tempi, si erano entusiasticamente impegnate a dare battaglia perché io restassi. All’inizio, qualche comparsa: nelle vicinanze di Natale. Poi, come svanite nel nulla. Per amor del cielo, va bene così. È giusto che sia così. La comunità va avanti lo stesso. Deve andare avanti lo stesso. Ma la mia domanda è un’altra: quelle persone che dicevano di essermi vicine nella battaglia sono ancora impegnate in comunità o hanno mollato tutto? E se continuano, hanno conservato almeno qualcosa di ciò che ho insegnato per anni e anni, quel qualcosa per cui l’anno scorso, come in questi tempi, avevano lottato?
Tutti i giorni sono tentato di togliere dal mio studio la locandina che era stata esposta in quella domenica famosa, quando si era deciso di contestare pubblicamente davanti alle chiese della Comunità Pastorale, suscitando anche qualche vigorosa polemica.
Ecco il testo:
Siamo indignati, delusi e amareggiati:
don Giorgio è stato rimosso dalla nostra comunità!
Tenendo un comportamento sempre corretto,
abbiamo ampiamente motivato la nostra protesta.
La Curia di Milano si è finta disponibile ad un dialogo,
ma non ha mai avuto l’intenzione
di rivedere le proprie decisioni.
Il card. Angelo Scola ha agito più
come capo d’azienda che da buon pastore
“con addosso l’odore delle pecore”,
secondo le parole di Papa Francesco.
Il mal funzionamento della Comunità Pastorale
è stato solamente un pretesto:
in realtà la Parrocchia di Monte
è stata usata per punire don Giorgio
a causa delle sue prese di posizione.
SEMBRA FINITA,
MA NON VOGLIAMO CHE SIA COSÌ!
La Parrocchia di Monte intende portare avanti
il cammino iniziato con don Giorgio.
E, con le idee e lo stile con cui è stata guidata in questi anni,
vuole contribuire alla crescita
della Comunità Pastorale di S. Antonio Abate,
per una vera e piena
CONVIVIALITÀ DELLE DIFFERENZE.
Alla fine scelgo sempre di lasciare la locandina, incorniciata, sulla parete dello studio. Non so, comunque, fino a quando resisterò.
E pensare che, da quel 14 settembre 2013 (quando ho dovuto abbandonare la canonica in fretta e furia) fino ad oggi, in tutto più di dieci mesi, non ho mai cessato di portare avanti la mia lotta, con articoli sul mio sito. In questi giorni poi sto criticando con maggior insistenza la Chiesa e Scola. Pongo talora commenti su facebook. Mi do da fare anche per la fusione dei Comuni della Valletta. Un impegno civile che continuo anche in questa zona dove vivo. Tranne qualche rarissima eccezione che conferma la regola, non vedo mai un segno di sostegno, su facebook o sul mio sito, per quanto scrivo. Nulla, e poi nulla. Penso: magari leggono, approvano, e tacciono. Ma penso anche: e se ne fregassero tutti quanti? Non dico solo in riferimento alla vita ecclesiale, ma la mia rabbia è constatare l’indifferenza verso il bene comune del proprio paese. Eppure quasi tutti hanno aperto una pagina su facebook. Ogni tanto controllo. Menefreghismo generale. Mai o pochissime considerazioni sulla vita ecclesiale e sulla vita sociale e politica. O si sta sulle generali, o si parla di inezie o di pettegolezzi sui figli.
La tentazione mi viene: che cosa di buono ho insegnato, se non vedo un segno di compartecipazione religiosa o politica?
Certo, da parte mia non demordo. Facevo così anche a Monte: non demordevo, neppure quando ero completamente solo. E la solitudine è stata forte, e mi ha messo alla prova forse più delle contestazioni dovute alle polemiche che ho suscitato per le mie prese di posizione.
 

8 Commenti

  1. trevize ha detto:

    Personalmente nei primi articoli dal titolo “verso una nuova Comunità di Base” intravedevo la necessità di scardinare certe visioni repressive che si esprimono nelle “religioni consolidate”, usando anche alcune idee e concetti induisti (anche se reinterpretati e per questo limitanti)… poi con il tempo l’impostazione degli articoli si spostò verso nuove interpretazioni delle scritture, soprattutto con riferimenti a scritti di Simone Weil ed altri pensatori/filosofi.

    Questo “nuovo passo”, non posso negarlo, mi deluse perché indirettamente riportava in superficie la necessità di un “intermediario umano” per tutto ciò che può definirsi spirituale.

    In ogni caso è giusto così. Anche un vago riferimento ad un “nuovo modo” di approcciarsi al Reale è una possibilità, un LA che risuona nella notte silenziosa.

  2. Giuseppe ha detto:

    Caro don Giorgio, anche se non è la stessa cosa noi continuiamo a seguirti su queste pagine, che sono uno spunto sempre valido per riflettere e cercare di capire come funziona la fede, la chiesa e questo mondo nel quale viviamo. Pur non essendo sempre d’accordo con te, anche perché sarebbe impossibile, la tua presenza e le tue parole fanno ormai parte della nostra quotidianità. Un abbraccio fraterno, Giuseppe

  3. zorro ha detto:

    vai avanti tranquillo e non mollare la gente ti segue nel web ciao

  4. Giorgio ha detto:

    Caro Don Giorgio, capisco la tua delusione e la tua amarezza e per questo ti allego una mia “riflessione” sugli “amici” che ho pubblicato su FB:
    Oggi, mio malgrado, ho preso atto ed ho avuto conferma che il post che circola in questi giorni circa i “1000 amici di FB” è, sicuramente molto più congeniale con i tanti amici che tutti noi abbiamo nella vita o, perlomeno, siamo certi di avere….. Torna a fagiolo con: “Non facciamoci illusioni se si pensa di avere tanti amici nella vita, Gesù Cristo ne aveva soltanto 12 ed è stato TRADITO…!!”
    Ed ancora una volta, il grande Totò ha ragione, il mondo è pieno di “Quaqquaraqua….!!!!!!
    Che ne pensi..???

  5. Paolo ha detto:

    Salve Don Giorgio,
    Lei non mi conosce, io la seguo su Facebook su segnalazione di un amico, ricevo e leggo i Suoi aggiornamenti.
    L’amico che mi ha segnalato la sua pagina Facebook è un ateo attivista (UAAR), io mi definisco agnostico.
    Tra i miei amici e conoscenti, per la maggior parte dichiaratamente cattolici, poco o niente praticanti, diciamo distratti, come la maggior parte dei cattolici di oggi, non ci sono altre persone che la conoscono e la seguono oltre a noi due, dichiaratamente non cattolici.
    Non sono a conoscenza delle vicende che hanno causato il Suo allontanamento da Monte, ma le posso intuire da quello che scrive qui e dall’idea che mi sono fatto di Sua Eminenza il Cardinale.
    Capisco perfettamente l’amarezza che prova e che senza ipocrisia non tenta di mascherare in quanto ha scritto qui.
    Non credo di poter fare niente per alleviare l’amarezza; ci tenevo solo a farLe sapere che la mancanza di commenti non è necessariamente sintomo di indifferenza.
    Non sono forse in molti a conoscere le cose che scrive, ma Le assicuro che chi La legge non può rimanere indifferente, sia che approvi, sia che disapprovi.
    Io, da non credente che si è sforzato di leggere i Vangeli per capirne il messaggio (al di là della questione di fede che uno non si può dare se non ce l’ha e se vuole rimanere onesto almeno con se stesso) trovo molto più Vangelo nelle Sue quasi-bestemmie che nelle prediche melense a cui assistevo da piccolo, quando mia madre mi portava a messa tutte le domeniche.
    Lei la fede ce l’ha, nonostante Le cose che scrive (o sarebbe meglio dire “per” le cose che scrive); se esiste un Dio gliene darà atto. C’è chi non può consolarsi neanche con questa certezza.
    Continui a scrivere, se può.
    Grazie
    Paolo

    • Roberto C. ha detto:

      Lego il mio messaggio a quello di Paolo che così bene ha descritto il “popolo” degli agnostici, miscredenti e non-allineati che silenziosamente la seguono e al quale mi sento di appartenere. Non sono un frequentatore assiduo del suo sito, non ho Facebook, non leggo tutto quello che pubblica pertanto non posso dirmi un suo affezionato sostenitore, ma devo riconoscere che è anche grazie a lei se ho trovato quel briciolo di speranza che negli ultimi anni ha scardinato il mio convinto ateismo per riportarmi in una condizione di attenzione al messaggio cristiano fino a farmi ora ritenere un “anarchico nella fede” (affermazione di seconda mano: l’originale è di De Andrè). Questo significa che il compito di Pastore lei lo svolge egregiamente e, particolare non da poco, non l’ha fatto ponendosi fuori dalla Chiesa ma trovando un posto nella Chiesa a chi finora ne è voluto rimanere fuori. Con ciò Le esprimo tutto il mio affetto e spero di poterla un minimo incoraggiare a proseguire su questa strada

  6. GIANNI ha detto:

    Che dire?
    Mi tornano in mente quei momenti,quel clima,anche di tensione e doloroso,le discussioni,gli incontri, ecc.
    Non perchè io sia mai stato residente in quei luoghi, o abbia comunque avuto modo di essere presente, ma perchè anche solo gli articoli hanno saputo rendere chiaro cosa stesse succedendo.
    Di qui tante considerazioni, su vari aspetti.
    Mi ricordo che personalmente avevo anche suggerito l’idea di una sorta di ricorso.
    Ovviamente senza conoscere personalmente coloro che, all’epoca, sostenevano l’idea di una comunità locale,era difficile farsi un’idea se poi, nei fatti,avrebbero continuato a seguire le vicende, a sostenere,oppure se,come si dice, ovviamente senza voler offendere nessuno, avrebbero preferito seguire il motto morto un papa…..
    Probabilmente le persone che seguono via internet,anche se materialmente distanti,sono probabilmente più portate alla riflessione,e quindi a condividere o meno certe idee, che fanno proprie, e coloro che le condividono, lo fanno convintamente.
    Può darsi che invece, come appunto viene detto nell’articolo, i residenti fossero invece alla ricerca non di un’idea diversa di chiesa, ma piuttosto di un leader, magari più simpatico degli altri preti.
    Non saprei dire.
    Ultima nota: concordo pienamente che i maggiori timori di Scola fossero proprio quelli indicati nell’articolo.
    COmunque, come dice un vecchio detto, sempre meglio soli che male accompagnati.

  7. giovanni ha detto:

    Don Giorgio non si abbatta e non smetta di combattere la sua buona battaglia. Verrà anche il giorno in cui il suo capo dovrà rendere conto a chi è sopra di lui per non aver agisto da “buon pastore”. Purtroppo è toccato a noi questo flagello. Un pastore che dedica un giorno al mese del suo tempo per incontrare i suoi sacerdoti. Sono lontani i tempi in cui i nostri pastori Schuster, Montini, Martini e Tettamanzi si facevano sempre trovare e pronti a consigliare. Questo, malgrado le parole di Papa Francesco, preferisce viaggiare e partecipare a convegni dove può far conoscere la sua “immensa” cultura

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