Don Primo Mazzolari e la Resistenza

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Don Primo Mazzolari e la Resistenza

Premetto subito che parlare di certi argomenti non è facile per nessuno, tranne per chi ha vissuto sulla propria pelle in modo coerente quei principi fondamentali che sono insiti nell’essere umano, in cui egli crede.
I valori di giustizia e libertà devono essere i capisaldi dell’impegno civile per ogni cittadino, che però, messo alla prova, può cedere alla tentazione di trovare ogni accomodamento o qualche compromesso che possa salvare la propria faccia.
A riflettere sui valori della Resistenza, ci aiutano alcune dichiarazioni di don Primo Mazzolari. Per chi non lo conoscesse, don Primo fu parroco a Bozzolo, in provincia di Mantova. Patriota, interventista, antifascista, contrario al Concordato, durante la Repubblica sociale collaborò alla Resistenza e nel febbraio del 1944 fu arrestato. Rilasciato nel luglio successivo, minacciato ancora di arresto, visse in clandestinità fino al 25 aprile 1945. Dopo la liberazione, gli fu riconosciuta la qualifica di partigiano. Con cristiana pietà verso tutte le vittime della guerra civile, si impegnò attivamente per la ricostruzione democratica dell’Italia, propugnando una “rivoluzione cristiana” volta a sanare le ingiustizie sociali. Anticomunista, nelle campagne elettorali don Mazzolari sostenne la Democrazia cristiana affrontando i comunisti in pubblici contraddittori, tanto da guadagnarsi la qualifica di filocomunista, come scrisse al suo vescovo nel gennaio 1949, quando diede vita quindicinale «Adesso», che subì varie censure dall’autorità ecclesiastiche, fino alla chiusura del giornale nel 1951, seguita tre anni dopo dal divieto di predicare fuori della sua parrocchia e di scrivere articoli su questioni sociali.
«Se è finita l’oppressione non è finita la prova: se abbiamo riacquistata la libertà, dobbiamo provare che ne siamo degni», così scrisse don Primo nell’aprile 1945, all’indomani della Liberazione. Danno il senso di una rilettura del precedente ventennio, della guerra e della vicenda partigiana da parte del parroco di Bozzolo (1890-1959), scrittore, giornalista, polemista, la cui figura si inscrive tra quelle dei “preti resistenti”.
Al termine della guerra, Mazzolari fu subito convinto della necessità di una “ricostruzione umana”, che sarebbe passata dalla ricostruzione delle coscienze con un profondo impegno educativo, così che la “continuità ideale dei valori resistenziali” si sarebbe realizzata nel “recupero della pienezza umana”.
In una lettera del 9 maggio 1945, don Mazzolari scriveva a un amico: “Il duro per me, sotto un’altra forma ma per ragioni quasi identiche, continua. Lavoro, parlo, m’oppongo, resisto allo stesso male che si riaffaccia con nomi diversi. Sono stanco, anche fisicamente, ma non sfiduciato. La fiducia è un impegno legato alla mia fede e al comprendere. […] Bisogna fare un fronte umano contro tutto ciò che è disumano».
Nel libro “Rivoluzione cristiana” don Mazzolari affermerà: «Il fascismo fu una costruzione contro l’uomo ed è morto sotto il peso della propria disumanità».
Dunque, per don Primo Mazzolari la Resistenza doveva essere solo un primo passo verso una rivolta morale dal profondo valore etico da realizzare nel tempo attraverso la formazione delle coscienze.
Nella “Lettera a un partigiano” (1945) Mazzolari scriveva: «La brigata portava un nome e un’insegna di partito ma niente ti prendeva di quel “particolare”. Tu eri “partigiano” della libertà di tutti, lottavi e soffrivi per tutti gli italiani… Fra tante tristezze e disgrazie, l’adozione della patria da parte del popolo è l’avvenimento consolante della nostra storia. Proprio coloro che non avevano nessun motivo di attaccamento e di riconoscenza, slargarono verso essa, quasi all’improvviso, il cuore e le braccia per proteggerla e salvarla».
Per il sacerdote di Bozzolo la Resistenza è un esercizio di cittadinanza attiva: sa resistere chi sente profondamente la responsabilità di poter contribuire al bene di un popolo. Quindi la Resistenza è fondata sulla gratuità, che porta al sacrificio di sé, come dice sempre “Nella Lettera a un partigiano”: «Se di quel particolarismo qualche cosa, oltre lo slancio e il disinteresse, ti rallegrava, era il fatto che uomini di ogni classe, che fino ad allora avevano professato dottrine che sembravano non tener conto della patria, se la prendevano talmente a cuore e con tale devozione che ogni istante si disponevano a morire per essa».
Per don Primo la Resistenza era un antidoto alla “politica del peggio”, come scriveva nel 1945: «Il fascismo non ha mai trovato redditizio l’uomo: avvertiva d’istinto che non ci poteva contare, e coltivò il gregario spersonalizzato o il violento da buttare sulla piazza nelle giornate di manovra. Guardandomi intorno, oso dire che lo stesso tipo è ricercatissimo tuttora, e che la manovrabilità è la dote preferita. Si ha paura in politica della gente che pensa con la propria testa, e molti si adoprano affinché il voto non sia una libera e consapevole voce della ragione, ma la vuota espressione di una effimera suggestione… La disgrazia della lotta politica in Italia è legata alla dimenticanza dell’uomo, per cui abbiamo cittadini che sono quel che volete, vale a dire con denominazioni politiche svariatissime, ma con nessuna sostanza umana. Prima di essere ammessi a un partito ci vorrebbe la promozione a uomo… Per chi ha bisogno unicamente d’arrivare al potere e di tenerlo a qualsiasi costo è più redditizia l’apparizione delle comparse che quella dell’uomo. Le comparse si nutrono del peggio, mentre l’uomo osa chiedere un po’ di pane, un po’ di giustizia, un po’ di libertà per tutti».
Quindi la Resistenza era partecipazione democratica al bene comune, come avvertiva nel 1946: «Democrazia è riconoscere che al mondo ci siamo in tanti e con diritti eguali e che c’è posto per tutti se glielo lasciamo: e pane, e aria, e terra e acqua per tutti, se non glielo rubiamo e distruggiamo. Democrazia è far vivere… Il modo di uccidere non importa. Se t’ammazzo col mitra sono forse antidemocratico? e se t’ammazzo col portafoglio, secondo la regola della buona creanza borghese, sono forse democratico? Democrazia vuol dire non soltanto le strade sicure, le banche sicure, ma anche il pane, anche la giustizia, anche il lavoro sicuro… Bisogna resistere all’istinto gregario che è una creazione allucinante di tutti i dominatori di marca reazionaria o progressiva… Ciò che fa paura ai gerarchi di tutti i regimi è l’uomo, la cui vera soddisfazione è di fare, nel bene, ciò che vuole e nell’ora da lui scelta, pagando con la solitudine e la povertà la testimonianza alla sua interiore libertà. La democrazia ha bisogno di tali uomini, che si donano o si rifiutano, ma che non si vendono o non si conformano per non essere scomodati. Chi ci salverà da questa democrazia, che come la dittatura per far più presto a riportarci verso un totalitarismo universale non può sopportare che uomini mediocri?».
La Resistenza certo non è stato un evento di massa, solo pochi hanno avuto il coraggio di gettarci la vita per la libertà di tutti. Lo storico del fascismo Renzo De Felice ha affermato, con giudizio tranchant, che anche dopo l’8 settembre la maggioranza degli italiani aveva conservato un atteggiamento di “sostanziale estraneità, se non di rifiuto”, sia verso la Repubblica Sociale Italiana sia verso la Resistenza per una ragione profondamente umana: “primum vivere fu l’imperativo interiore della gente”.
Ma a favore della Resistenza si schierarono molti cattolici con una partecipazione attiva: 2000 morti, oltre 2500 feriti gravi e altre perdite tra i civili. Di quei caduti ben 1177 risultano iscritti dall’Azione cattolica e alla Gioventù italiana di Azione cattolica, spesso studenti della Cattolica di Milano; sono state loro conferite 37 medaglie d’oro al valore militare e civile (29 alla memoria), 87 d’argento, 54 di bronzo, altre e numerose croci di guerra. Inoltre 730 sacerdoti imprigionati e o torturati, e fra loro almeno 315 assassinati o morti nei lager, con 17 medaglie d’oro, 31 d’argento, 46 di bronzo, 50 croci di guerra.
Infatti la resistenza cattolica al regime inizia immediatamente dopo l’8 settembre. “Contribuenti non pagate le tasse. Studenti disertate le scuole. Impiegati attenti alle retate. Ragazze disdegnate di guardare in faccia i tedeschi. Metropolitani date ai tedeschi indicazioni sbagliate. Italiani non giurate”: così recitava in prima pagina l’edizione clandestina del 20 febbraio 1944 de “Il Popolo”, l’organo di partito della Dc, invitando i romani a boicottare l’occupante tedesco e la Repubblica Sociale di Mussolini. Quindi i cattolici hanno avuto un ruolo importante nella liberazione dal nazifascismo.
Purtroppo si assistette ben presto al declino dei valori della Resistenza. «Non abbiamo più un popolo, una patria, un bene comune, un comune ideale. Il ricordo della Resistenza non solo è lontano, ma serve di pretesto retorico agli uni e agli altri». Queste parole scriveva il 15 luglio 1950 don Primo in un articolo intitolato «Patria Terra di Nessuno», pubblicato su «Adesso», un «quindicinale d’impegno cristiano» da lui fondato nel gennaio 1949.
Don Mazzolari fu uno dei primi a lamentare il rapido dissolversi dello spirito unitario e patriottico della Resistenza, dopo la fine della collaborazione governativa fra i partiti antifascisti, l’inizio della Guerra fredda, la vittoria della Democrazia cristiana nelle elezioni del 1948 e l’adesione dell’Italia alla Nato. Iniziò allora l’aspra contesa fra i partiti antifascisti, ciascuno dei quali rivendicava l’interpretazione autentica della Resistenza, trasfigurandola in un mito secondo i canoni della propria ideologia.
In realtà, lo spirito unitario e patriottico della Resistenza aveva cominciato a mostrare qualche crepa già alla fine del 1945. Il 30 dicembre commentando «l’anno che muore», Pietro Nenni, ministro nel primo governo presieduto da De Gasperi, succeduto al governo Parri il 10 dicembre, scriveva: «spente le luminarie della vittoria, sono ritornati i tempi amari. Qui da noi, il vento gagliardo del Nord si è affievolito e quasi spento… L’occupazione ha reciso i nervi alla rivoluzione popolare di aprile e ha ridato fiato ai resti del fascismo. Ministeri sono sorti e caduti. Speranze hanno brillato e si sono estinte come meteore. Tutto è ridiventato duro ed incerto». Il giorno prima, al V congresso del Partito comunista italiano, Togliatti, anch’egli ministro, aveva reclamato che «senza l’azione organizzata e senza la lotta politica chiaroveggente del nostro partito, non si sarebbero potuti raggiungere quei risultati più o meno grandi, ma in determinati momenti molto importanti, che si sono potuti ottenere nella ricostruzione di un’unità nazionale e spirituale del popolo italiano dopo il crollo del fascismo, nella ricostruzione di un regime democratico di libertà e di lavoro». Tuttavia, il segretario comunista aveva subito aggiunto: nella lotta «non siamo stati soli, né pretendiamo nessun merito esclusivo. Abbiamo avuto accanto a noi operai e lavoratori socialisti, lavoratori e intellettuali del Partito d’azione, del partito democratico cristiano e di altre correnti democratiche e liberali». L’unità fra i comunisti e gli altri partiti democratici era stata «tra le cause principali della nostra vittoria», e questa unità, auspicò Togliatti, «non si deve oggi spezzare, anzi deve durare e consolidarsi, dove diventare una delle fondamenta della nuova Italia che insieme vogliamo costruire».
Quasi a confortare l’auspicio togliattiano, cinque mesi dopo, nel primo anniversario del 25 aprile, dichiarato giorno di festa nazionale dal governo De Gasperi, i partiti della Resistenza furono uniti nella celebrazione. Era stato il comunista Giorgio Amendola, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, sollecitato dall’Associazione nazionale dei partigiani italiani, a proporre il 25 aprile come giornata dedicata «alla solenne commemorazione dei sacrifici e degli eroismi sostenuti dal popolo italiano durante la lotta contro il nazifascismo».
Ma con l’inizio della Guerra Fredda, il 25 aprile 1947 lo spirito unitario e patriottico della Resistenza era già fortemente lacerato dalle divergenze sulla politica estera, che provocarono nel maggio l’esclusione di comunisti e socialisti dal quarto governo De Gasperi. L’anno successivo, preceduta dalla trionfale vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile, l’anniversario non fu celebrato dagli antifascisti uniti. Il ministro dell’Interno Mario Scelba, democristiano, vietò le manifestazioni pubbliche per la ricorrenza. E mentre il giornale della Democrazia cristiana invitava a commemorare «nell’intimo dei nostri cuori», a Milano il comunista Luigi Longo, uno dei capi dell’insurrezione del 25 aprile, denunciava la «campagna di denigrazione e di menzogne che attaccando gli artefici della liberazione della Patria intende attaccare le conquiste stesse di questa liberazione».
La contesa sulla trasfigurazione mitica della Resistenza attraverso miti antagonisti si inasprì rapidamente. E alla vigilia del 25 aprile 1949, don Mazzolari commentava: «Tutto si rifà: strade, ponti, fabbriche. Noi no. Anche se continuiamo a crescere di numero, anche se parliamo la stessa lingua degli uomini del nostro risorgimento, si fa fatica a dire che siamo ritornati italiani… La resistenza continua ma in nome della parte contro la Patria, perpetuando e aggravando la frattura… Se la Resistenza per colpa dei partiti non avesse perduta la sua iniziale nobiltà, se avesse conservato intatto il patrimonio spirituale dei suoi Morti, se invece di scavare una trincea avesse costruito un ponte, avrebbe salvato l’Italia».
27 aprile 2024
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