Sulla giustizia ben pochi hanno idee chiare

L’EDITORIALE
di don Giorgio

Sulla giustizia

ben pochi hanno idee chiare

Di fronte alle ingiustizie, di qualsiasi tipo, in qualsiasi campo dal socio-politico al religioso, può succedere di tutto, ovvero qualsiasi reazione o comportamento. Tutto dipende dalla idea che ho di giustizia. Se ho un’idea confusa il mio atteggiamento varierà di momento in momento, condizionato dai miei umori o dalle mie passioni o dai miei interessi, fino a cadere col tempo in una tale indifferenza da subire qualsiasi ingiustizia socio-politica e religiosa, tranne quando vengo punto sul vivo e allora per qualsiasi stupidaggine che ritengo possa ledere i miei interessi personali, alzo la voce, mi irrito, perdo la pazienza e mando a quel paese il mondo intero. E magari mi giustifico aggrappandomi al concetto di giustizia universale.
Che l’Ucraina stia subendo una palese ingiustizia dallo strapotere russo, che mi importa? O, meglio mi importa sì, a tal punto da mandare a quel paese tutti gli ucraini che resistono, mettendo così a rischio i miei interessi personali. Questa è la mia idea di giustizia.
Direi di più. Sulla pace anche i bambini possono avere una idea tutta loro, e se litigano basta un rimprovero perché facciano subito pace. Ma sulla giustizia non hanno una idea chiara, anzi errata, nel senso che non arrivano a capire che la giustizia non è dividere le cose allo stesso modo, per cui – capitava anche a me quando gestivo a Sesto San Giovanni un doposcuola sociale con bambini poveri e meno poveri: erano più di 70 ogni pomeriggio – se tu dai qualcosa in più a un povero pretendono che tu faccia lo stesso anche a un ricco. “E a me no?”, mi rimproverava Elisabetta di famiglia benestante. “Ma tu non hai bisogno!”. E lei: “Non è giusto!”. Non capiva…
Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi”, così don Lorenzo Milani si esprimeva negli anni sessanta dello scorso secolo nel libro – Lettera ad una professoressa – sul rapporto tra giustizia, uguaglianza e diritto, concetti che sono scomparsi da tempo dal comune sentire.
Questo per dire che tutti più o meno, anche da adulti, abbiamo idee sbagliate sulla giustizia. E se è necessario già coi bambini educarli alla giustizia sembra tempo perso far capire a certa gentaglia, politici compresi, che la giustizia è il fondamento del convivere civile e umano.
Già nella Bibbia c’è scritto chiaramente che la pace non esiste senza giustizia, e che la giustizia diciamo umana per essere giustizia autentica non può non rientrare nella Giustizia divina. E allora, che cosa si intende per Giustizia divina? Dovrei rispondere con la Bibbia. Ma vorrei allargare il discorso per dire quanto la Bibbia abbia ragione, richiamando il pensiero antico dei filosofi greci.
Siccome non vorrei sembrare come quel tale che cita Platone a vanvera, travisando il pensiero del grande filosofo greco, riporto alcune parole di Fabio Bentivoglio, grande storico di filosofia:
«Il tema della giustizia è il centro di gravità della filosofia di Platone. Più precisamente: l’idea di giustizia e l’idea di Bene nella concezione di Platone sono inseparabili poiché la giustizia è il configurarsi delle cose in un ordine globale tale da rispecchiare il Bene. Non si può dunque affrontare il tema della giustizia senza incrociare l’idea del Bene. Né è possibile rispondere in formula breve e comprensibile alla domanda “che cosa è il Bene?”: per Platone, questa risposta può essere elaborata soltanto da un pensiero in grado di porsi esclusivamente sul piano delle pure nozioni logiche, recidendo qualsiasi legame con elementi tratti dall’evidenza percettiva e dall’esperienza sensibile. Per maturare questa capacità il pensiero deve essere educato attraverso una “via lunga e difficile”. La ragione di una così alta difficoltà è insita nell’oggetto stesso della ricerca. Scrive Platone: «[…] il campo della somma scienza è l’idea del Bene, in virtù della quale la giustizia e le altre virtù diventano benefiche» (Repubblica, VI 504 a). Vero filosofo è soltanto chi si addentra e conosce l’essenza del Bene (Repubblica VII 534b-d). Inoltrandoci dunque nella concezione platonica della giustizia-Bene non affrontiamo una questione importante, ma la questione strategica su cui poggia l’intero impianto della filosofia di Platone».
Dovrei dilungarmi in lungo e in largo, come del resto tenta di fare lo stesso Bentivoglio, spiegando il pensiero sulla giustizia di Platone citando vari passi delle sue opere più famose.
Se qualcuno fosse interessato, vi invito a leggere l’articolo L’IDEA DI GIUSTIZIA IN PLATONE (Fabio Bentivoglio)
Vorrei soffermare la vostra attenzione sulle parole di Serge Latouche (economista e filosofo francese, sostenitore della decrescita conviviale e del localismo o localizzazione): «Per sopravvivere, il mondo oggi è condannato a reiventare la giustizia».
Platone muore nel 347 a.C. Domanda: volgendo lo sguardo al nostro presente storico la sua riflessione sulla giustizia-Bene può essere ancora illuminante per cogliere il “nocciolo duro” della crisi che il mondo intero sta attraversando? Può darci strumenti di comprensione della realtà utili a tracciare una via che ci porti fuori da una crisi a tutti gli effetti epocali?
Scrive Bentivoglio:
«Dobbiamo reinventarci la giustizia. E allora proviamo a rileggere le questioni indicate da Latouche con l’alfabeto logico elaborato da Platone per definire l’idea di giustizia. Limitiamoci in questa sede a riflettere su quello che, a mio giudizio, è il “nocciolo duro” della crisi del nostro tempo, attingendo alla lezione platonica. Latouche indica le due grandi tendenze evolutive «opposte ma non contraddittorie» dell’attuale quadro storico e cioè l’unificazione planetaria e la frammentazione all’infinito delle entità sociali. Sono tendenze opposte, e, se ragionassimo in conformità al principio di non contraddizione, l’una escluderebbe l’altra, perché se fosse in atto un processo di unificazione globale, non potrebbe essere in atto nello stesso tempo e sotto lo stesso riguardo anche un processo di frammentazione all’infinito. La questione si scioglie alla luce della dinamica logico-dialettica che Platone ha svolto nel Parmenide in merito alla relazione unità-molteplicità.
La vita degli uomini contempla molteplici attività, tra queste l’agire economico che nel corso della storia ha assunto le forme più disparate intrecciandosi con significati simbolici, religiosi e culturali. È con la nascita del capitalismo che l’agire economico si è separato dalle altre sfere dell’attività umana per rispondere a una logica di accumulazione del capitale autoreferenziale. Per lungo tempo, almeno fino agli anni Ottanta-Novanta del Novecento, la sfera economica della produzione e del mercato ha convissuto con attività e istituzioni regolate da logiche non economiche (scuole, ospedali, trasporti…). Il dato saliente dell’attuale frangente storico è che l’agire economico inteso come attività che valorizza il capitale e che si conforma alle convenienze aziendali è stato assunto a criterio universale di riorganizzazione dell’intero spettro delle attività umane. Detto in altri termini, la forma che il cosiddetto neoliberismo ha assunto in epoca contemporanea è quella di un vero e proprio totalitarismo della logica aziendale, tale da identificare la sfera economica (in questa parzialissima accezione) con l’intera sfera sociale. Quando questa forma di totalitarismo si trova perciò di fronte a istituzioni non economiche (scuola, università, ospedali, prigioni…) interviene aggressivamente per sradicarle da ogni vincolo pubblico che le disciplini secondo regole non mercantili. In questa sorta di buco nero in cui gli uomini e l’intero pianeta sono stati risucchiati è precipitata anche la struttura identitaria dell’individuo che – come recitano i testi di marketing – esprime “se stesso”, la propria personalità, attraverso la tipologia delle merci che consuma. In termini marxiani siamo di fronte ad un processo di sussunzione reale al capitale che non riguarda più soltanto il lavoro (come aveva colto Marx), ma si è esteso alla Natura, a tutte le attività e relazioni umane, alla personalità dell’individuo fino al “vivente” diventato oggetto di brevetto e manipolazione genetica.
In nome di questa parzialissima e storicamente determinata concezione dell’agire economico, la molteplicità del mondo, dei popoli, delle culture, delle lingue, degli stili di vita, delle specie viventi ecc. (l’onnimercificazione di Latouche) è stata “unificata”: la parte (cioè questa parzialissima concezione dell’agire economico) è diventata l’Uno-Tutto attraverso cui l’intero mondo è stato riplasmato. Questa parte, però, non è il Tutto, ma è una parte del Tutto: e allora – come ci insegna Platone – se pensiamo la parte come unità disgiunta dalle altre parti, le altre parti sono non-uno, non essere, sono qualcosa che va “tolto”: questa è la logica che innesca la violenza e l’ingiustizia. La parte che si contrappone alle altre parti, proponendo un criterio di vita non generalizzabile a tutti gli esseri umani («[…] per generalizzare il modo di vita occidentale […] avremmo bisogno di dodici pianeti se vogliamo una situazione sostenibile a lungo termine […]») è negazione dell’Uno, quindi male, quindi ingiustizia. Quando Latouche scrive che «quella dell’Occidente è una cultura molto particolare: pretende di essere universale, e contemporaneamente nega i diritti, e di fatto la ragion d’essere delle altre culture», proiettato nel linguaggio del Parmenide è appunto la parte che ha disatteso il suo legame con il tutto di cui è parte, cioè con la molteplicità di culture, linguaggi e popoli che costituiscono il logos presupposto del genere umano (il vero Uno) che manifesta e realizza se stesso attraverso tale molteplicità: nel momento in cui una parte – qualsiasi essa sia – si svincola dalla sua inerenza logica al tutto di cui è parte, ecco attivarsi quel processo violento della disgregazione descritto logicamente da Platone nel Parmenide. Questo possibile doppio esito nella direzione della coesione o della disgregazione, come si è visto, è una potenzialità immanente alla logica dell’Uno: l’Uno contiene in sé, come Uno, il principio della propria scissione. Il vero nome di quella che è chiamata globalizzazione-mondializzazione, in realtà, è il suo opposto e cioè la disgregazione che si moltiplica all’infinito sotto forma di dismisura a tutti i livelli, planetario, sociale, culturale e individuale.
Da un punto di osservazione diverso da quello di Latouche, sono giunti ad analoghe conclusioni anche i due studiosi inglesi Richard Wilkinson e Kate Pickett, autori de La misura
dell’anima (Milano, Feltrinelli, 2009), un’opera che ha studiato gli effetti prodotti dalla diseguaglianza sul piano sociale, culturale, psicologico e della salute, frutto di un lunghissimo periodo di ricerche e di studi epidemiologici (più di cinquant’anni in due). Viviamo in un’epoca in cui, per citare il solo caso degli Stati Uniti, l’1 per cento della popolazione possiede maggiori ricchezze del 90 per cento della popolazione ai livelli economici più bassi. Non è però questione che riguardi i soli Stati Uniti, ma la realtà sociale dell’intero pianeta caratterizzata da immani diseguaglianze, senza che all’orizzonte si veda un’inversione di tendenza.
I due studiosi inglesi hanno raccolto una gran mole di dati che dimostrano come le società che non pongono limiti alle diseguaglianze si trovano ad affrontare tassi più elevati di malattie mentali, abuso di droghe e ogni sorta di altri problemi. E hanno bisogno di più forze di polizia e strutture carcerarie. La diseguaglianza incrina la vita comunitaria e mette a rischio l’equilibrio psichico e la salute della persona: anche in questo caso con l’alfabeto platonico-pitagorico l’esito corruttivo e disgregativo che agisce simultaneamente a livello sociale, individuale e nelle relazioni interpersonali, va letto come il venir meno dell’armonia e dei correlati concetti di limite e misura. È lo stesso problema affrontato da Platone nel quarto libro di Repubblica, quando Socrate afferma che lo Stato deve porre dei limiti all’accumulazione della ricchezza privata (di cui possono disporre solo coloro che non svolgano funzioni di governo) per scongiurare gli effetti disgregativi che la diseguaglianza produce nella città: l’eccesso di ricchezza, infatti, genera avidità, corruzione e povertà in tutti quelli che si trovano in una condizione d’inferiorità sociale, così come l’eccesso di povertà (che è l’altra faccia dell’eccesso di ricchezza), genera bassezza d’animo, cattivo adempimento dei compiti pubblici, e disordini sociali. La città per essere “giusta” deve essere una, quindi il governante che corrisponda all’idea deve contenere le inevitabili diseguaglianze entro il limite che non disgreghi l’equilibrio sociale.
I due studiosi sono in sintonia con Platone anche nel non identificare la giustizia con il livellamento universale degli individui: non tutti hanno i medesimi gradi di abilità, o le medesime disposizioni ed è inevitabile che le condizioni sociali e di vita non possano essere uniformate su scala planetaria. La diseguaglianza diventa il cancro dell’umanità nel momento in cui supera quel limite che innesca un processo di polarizzazione della ricchezza e di disponibilità delle risorse che con una logica distruttiva si autoalimenta senza fine.
Dello storico Piero Bevilacqua, mi limito a citare questo passo tratto da Miseria dello sviluppo (Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 9-10) perché ben si presta a una riflessione conclusiva:
E poiché fa parte dell’intelligenza di un’epoca comprendere per tempo quando la storia muta il suo corso, gran parte dei problemi presenti derivano dal fatto che la nostra non l’ha ancora compreso […]. Il paradosso si fa gigantesco negli ultimi decenni: allorché la potenza dei processi economici reali incide così gravemente su tutta la biosfera e il pensiero economico dominante che l’ispira ha, nel frattempo, definitivamente perduto ogni ancoraggio con la Terra […]. L’economia non solo ha cancellato il ruolo e il valore di ciò che utilizzava a una scala che non aveva uguali in tutte le precedenti fasi della storia umana. Non solo ha considerato il sistema sociale e i suoi processi come indipendenti da ogni fondamento naturale. È andata oltre: non ha avuto alcuna percezione delle connessioni profonde che legano il mondo vivente in equilibri, fragili e delicati. Essa ha proceduto separandosi dalle altre discipline che si occupano della natura […].
In tutta evidenza ci troviamo in un tornante storico che esigerebbe un pensiero in grado di porsi sul piano della comprensione della “totalità”: le connessioni profonde che legano il mondo vivente, il nostro rapporto con la Natura e con gli altri uomini, il nostro rapporto con la fragilità esistenziale che caratterizza ontologicamente l’uomo, possono essere comprese nel loro significato solo da una razionalità di tipo “dialettico”, in grado di porsi in relazione con il Tutto. Questo paradigma di razionalità che ha il suo ancoraggio nella ricerca di ciò che dà senso e significato all’esistenza umana e di cui Platone è tra i massimi protagonisti, è stato letteralmente rimosso dalla cultura occidentale. Quella che oggi chiamiamo razionalità scientifica è una forma di sapere che ha raggiunto una potenza operativa e manipolatrice che non ha precedenti nella storia: questa potenza è però esercitata in forma separata e incomunicante su frammenti di realtà, in funzione di un potenziamento fine a se stesso e comunque utilizzabile nel quadro di logiche di mercato. È dunque un sapere cieco sotto il profilo della comprensione globale della realtà umana, di ciò che per essa ha valore, e dei limiti non valicabili. Ma è proprio questo il sapere e il contenuto di ciò che Platone chiama Giustizia. La “missione” storica, culturale e politica di cui si dovranno fare carico le nuove generazioni sarà dunque, per riprendere le parole di Latouche, di «mettere al centro della città la statua della Giustizia». Prima che sia troppo tardi.
04/05/2024
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