Omelie 2016 di don Giorgio: OTTAVA DEL NATALE nella Circoncisione del Signore

1 gennaio 2016: Ottava del Natale nella Circoncisione del Signore
Nm 6,22-27; Fil 2,5-11; Lc 2,18-21
Anche Gesù è sottoposto al rito ebraico della circoncisione
La Liturgia ambrosiana celebra oggi, 1 gennaio, la Circoncisione del Signore. La circoncisione è un rituale di passaggio consistente nella circoncisione del prepuzio maschile, praticata fin dall’antichità, dapprima solo in alcune tribù nord africane e successivamente ed odiernamente presso le popolazioni di religione ebraica ed islamica nonché in alcune zone dell’Oceania. Forse nell’antichità le infezioni all’apparato urinario erano frequenti (e forse endemiche in alcune particolari popolazioni) e, per prevenirle, si arrivò a incorporare questa tecnica nelle norme religiose. Anche qui, come in altri casi, le motivazioni igieniche si univano a motivazioni religiose, per farsi maggiormente rispettare.
Solo una riflessione, prima di passare a commentare i brani della Messa. Anche Gesù è stato sottoposto al rito della circoncisione. Più ebreo di così si muore. Talora parliamo di Gesù come se fosse un uomo senza razza e senza religione. In realtà, è nato ebreo, anche se solo per parte di madre, ed è stato inserito nella religione ebraica. Poi, da adulto, farà le sue scelte. Farà prevalere il suo sangue divino.
Tre verbi e tre parole
Passiamo al primo brano della Messa. Si tratta di alcuni versetti del capitolo 6 del libro dei Numeri. Pensate: in pochissime righe troviamo tre verbi e tre parole, su cui poter riflettere a lungo. Ecco i tre verbi: benedire, custodire e risplendere. Ed ecco le tre parole: volto, grazia e pace.
Bene-dire
Per questione di tempo, mi soffermo solo sul primo dei tre verbi: “benedire”. Esso richiama subito un particolare rito religioso, quando il ministro, con un po’ di acqua santa, chiede un favore divino per una persona o per un oggetto. Ma che significa in realtà “benedire”? Non è difficile cogliere che si tratta di due termini, bene + dire, che hanno ciascuno una loro importanza. Il bene è tutto un mondo che racchiude una vasta gamma di valori fondamentali, sia materiali che spirituali. Il “bonum” (che non ha niente a che fare con il bonus di carattere fiscale dei nostri giorni) è un termine di genere neutro, perciò indeterminato, fuori di ogni classificazione maschile o femminile, che presso gli antichi richiamava il mondo del Divino, quel mondo che è fuori di noi ed è dentro di noi. Quindi, in altre parole, “bonum” ci richiama il mondo meraviglioso di Dio e, nello stesso tempo, il meglio del nostro essere.
Che significa, allora, benedire o dire bene? Che senso dare al verbo “dire”? È evidente che dire richiama parola. E allora che legame c’è tra il bene e la parola? Qui non posso non ricordare qualche nozione che mi hanno insegnato sul significato del termine “parola” presso gli ebrei. Ho preso da internet questa spiegazione, che mi pare molto chiara.
«Il termine ebraico “dabar” è difficile da tradurre con un solo vocabolo italiano. Verrebbe da dire “parola”, ma noi con questo termine intendiamo riferirci alla parola detta o alla parola scritta, ad un semplice suono o ad un segno tracciato sulla pagina o digitato al computer. “Dabar”, invece, significa anche «fatto», «avvenimento» e «cosa» oltre che «parola». In effetti, il “dabar” è la parola di Dio che, detta e pronunciata, crea, produce un effetto. Il “dabar” di Dio è l’atto creatore che esce dal silenzio primordiale e dal nulla crea il tutto. Nel racconto della creazione che troviamo all’inizio del libro della Genesi, Dio parla (notate: per ben dieci volte troviamo l’espressione “Dio disse”) e dalla sua parola esce il mondo: la sua parola è efficacemente un fatto, un avvenimento, una cosa. Ma questo “dabar” di Dio non sta soltanto all’inizio, ma accompagna continuamente la creazione lungo tutto il suo corso. Soprattutto accompagna il popolo di Dio, ogni uomo nella sua vita. Potremmo allora tradurre “dabar” anche con “provvidenza”, perché questa parola descrive bene l’azione amorevole con cui Dio continua a seguire con la sua forza vivificante e salvifica le sue creature. Questo ricco significato del termine “dabar” ispira anche Giovanni: quando nel prologo del suo vangelo deve parlare di Gesù, il Figlio di Dio, lo presenta come la Parola che prende una carne umana. Gesù è davvero nella sua pienezza il “Dabar” di Dio, non solo una parola intellettuale e cervellotica, ma una parola fatta carne, concreta, vivente, una parola divenuta evento e avvenimento dentro la storia, una parola la cui azione è riconoscibile ed efficace. Il “dabar” della creazione, dunque, trova il suo compimento in Gesù, che è il vero e perfetto “Dabar” di Dio, la sua Parola che, facendosi carne, attua una sorta di seconda creazione dell’umanità».
Pace
Tra le tre parole, ovvero volto, grazia e pace, mi soffermo sulla parola “pace”. Anche qui, “pace” (“shalom”) presso gli ebrei aveva un senso molto più ampio di ciò che noi intendiamo per pace. Tra le varie interpretazioni della parola “shalom, indicate dagli studiosi, trovo interessante la radice “totalità”, “completezza”. Che cos’è allora “shalom”, pace? Sì, è un dono divino, ma che comporta da parte nostra lo sforzo di “rifare” l’unità, mettendo insieme ciò che è stato diviso in particolari, per ricomporre la totalità.
La guerra non è solo violenza che uccide gli innocenti, ma è anche e soprattutto la divisione degli esseri umani tra di loro, separare gli uni dagli altri solo perché hanno differenze razziali o culturali o religiose. Anch’io talora prendo una parola nel suo significato negativo, ad esempio la parola “religione” che deriva da “religio”, come se fosse un legame delle coscienze ad una struttura religiosa. Ma “religione” potrebbe anche essere intesa come: legare nel loro insieme gli esseri umani, dispersi dal male, ricreando l’armonia iniziale e universale.
Qui mi collego subito al brano del Vangelo, dove Luca scrive che Maria, madre di Gesù, “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”. Don Angelo Casati commenta: «Il verbo greco, tradotto con meditare, indica “mettere insieme”». Ecco, Maria «tentava di mettere insieme nel suo cuore ciò che era distante, tanto distante. Era il tentativo di mettere insieme i tasselli». Ma ci vuole tempo e pazienza. È un lavoro lungo. Come lavorare per la pace. Ma il problema siamo noi, che vediamo le cose dalla parte sbagliata, come chi vede «l’arazzo dal suo rovescio, un ingorgo di fili».
Ecco perché pace, prima che azione, è contemplazione, ovvero quella visione mistica d’insieme che coglie l’armonia del cosmo nel suo essere più profondo, che lega misteriosamente ma realmente ogni essere umano come componente di un Tutto.
Svuotare se stessi
Ma per cogliere l’armonia profonda, già potenzialmente in ogni essere umano, occorre anche fare un’operazione particolare, che i mistici chiamano di svuotamento, di spogliazione, di distacco, di eliminazione. San Paolo, nel brano di oggi, scrive che  Gesù Cristo «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo».
È difficile far capire all’uomo moderno che il vero male che mette a rischio la pace nasce dal nostro di dentro: è la volontà di appropriazione che non ci abbandona mai da quando siamo nati, è il desiderio del possesso ad ogni costo, è quel voler soddisfare l’egoismo, che i mistici chiamano egoità: tutto ciò distingue, divide e separa, rendendo il Tutto milioni di frammenti, facendo esattamente il contrario di ciò che è la pace, totalità e completezza.
Solo l’essenzialità ci aiuta all’unità di fondo, che ci permette di vedere l’Universo come Casa comune.

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