Omelie 2019 di don Giorgio: OTTAVA DEL NATALE

1 gennaio 2019: OTTAVA DEL NATALE
Nm 6,22-27; Fil 2,5-11; Lc 2,18-21
Ad ogni anno che passa cosa cambia?
Possiamo legittimamente chiederci quale sia almeno una delle ragioni per cui l’uomo ha iniziato a celebrare con rito pagano o profano il passaggio da un anno ad un altro.
Ho detto “rito pagano o profano”, per il fatto che tutti, anche i credenti, festeggiano un momento o, meglio un istante, tra l’altro convenzionale (ed è qui la cosa allucinante), quando il tempo, di anno in anno, conclude un ciclo di mesi, settimane, giorni, ore, minuti e secondi, per poi aprire un’altra serie di mesi, settimane, giorni, ore, minuti e secondi.
Ma non è allucinante solo il fatto che si tratta di una convenzionalità (non tutti i popoli seguono il medesimo calendario e poi c’è il diverso fuso orario), ma è allucinante soprattutto il fatto che la preoccupazione della festa/baldoria consista nel celebrare come un funerale l’anno che conclude il suo ciclo, ma forse sarebbe il caso di parlare non di un funerale per decesso naturale, ma quasi per un compiacimento, come se dalla morte nascesse una vita nuova.
Almeno fosse così, ovvero che dalla morte nascesse la vita, ma non mi sembra che questo sia in realtà il messaggio di festeggiamenti che, a rifletterci bene, non hanno nulla di sano o di saggio o di intelligente, visto che con l’anno nuovo nulla cambia, anzi tutto sembra peggiorare.
Forse non abbiamo ancora capito che il tempo passa, ma che la perversione umana rimane. Se fossimo sani o saggi o intelligenti, dovremmo vivere ogni secondo come un passaggio dalla morte alla vita.
In ogni passaggio del tempo c’è morte e risurrezione o, come dice Gesù Cristo nel Vangelo, il grano deve prima morire, quasi marcire, perché dia il frutto sperato.
Il tempo è morte ed è vita, ma non si aspetta l’ultimo dell’anno, ovvero una convenzionalità rituale, per festeggiare nel modo più banale e dissacrante un momento di passaggio, che fa parte di ogni istante del tempo, che è morte e vita.
Ed è qui che ci chiediamo: che senso ha il tempo che passa? come viverlo in pienezza, cogliendone l’aspetto morte/vita?
A differenza della nostra lingua italiana, povera di significati, i cui termini sono ridotti al minimo necessario, in greco troviamo ad esempio più termini per indicare il tempo: c’è  krònos a indicare il tempo che passa in modo inesorabile, e c’è kairòs a indicare ciò che avviene nel tempo che passa.
Sinteticamente possiamo dire che krònos è un involucro esteriore, mentre kairòs è il contenuto dell’involucro.
Krònos (da qui nella nostra lingua: cronometro, cronologia, ecc.) è la successione del tempo in ore, minuti ecc., è la cosa più esteriore, quasi fatale, un trascorrere delle lancette sempre in avanti (l’ora legale è del tutto convenzionale, che non muta la successione del tempo).
Parlare di kairòs non è facile soprattutto all’uomo d’oggi, abituato a vivere freneticamente, lasciandosi trascinare dal tempo che passa.
Kairòs dà un senso al tempo che passa, lo immerge nell’eterno. Ovvero, l’eterno si fa presente nel tempo. La Bibbia parla dell’Ora di Dio, che è l’eterno che si fa presente nella nostra vita. Possiamo anche dire che kairòs è la grazia come presenza dello Spirito divino nel tempo.
Certo il tempo, come krònos, continua a passare, a far scorrere in avanti le lancette dell’orologio, ma l’orologio di Dio non ha lancette. Dio non conosce il tempo. E noi in quanto spiriti non conosciamo il tempo. È il corpo che si consuma nel tempo, ma non lo spirito, che è eterno e immortale.
Ripeto, parlare di queste cose all’uomo moderno è difficile, quasi impossibile: egli vive il tempo in banalità che passano. Vivere di eterno non è di tutti, proprio perché si vive normalmente fuori dal nostro essere interiore: siamo come cose trascinate dal tempo che passa.
“… e ti faccia grazia”
Paolo VI ha dedicato dal 1968 il primo dell’anno alla pace. Sinceramente, non so se sia stata una efficace trovata. Non discuto sulla necessità di parlare subito di pace all’inizio di ogni nuovo anno. I messaggi del papa in occasione del primo dell’anno lasciano sempre il tempo che trovano, così pure le marce per la pace che si organizzano nei giorni successivi.
Credo che abbia più ragione l’autore del primo brano della Messa che riporta la benedizione di Dio sul popolo d’Israele, da estendere naturalmente a tutto il mondo.  Riascoltiamo le parole: «Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace».
Il dono della pace è preceduto dal dono della grazia, che è, in poche parole, quell’aiuto che viene dall’alto che smuove le coscienze.
La pace, senza il risveglio del nostro essere, non ha senso. Sarà sempre qualcosa di puramente esteriore, soggetto alla perversione umana.
Se non si convertono prima i cuori, non ci potrà mai essere pace. Pace è convivenza umana, ma prima è scoperta del nostro mondo interiore, là dove ogni essere, indipendentemente dalla razza o dalla religione o dalla cultura, è figlio di Dio e fratello di ogni altro essere umano.
La grazia Dio è fondamentale, perché senza di essa non potremo mai scoprire chi siamo e che cosa vogliamo. La brutalità umana c’è, perché l’uomo è in balìa di se stesso, dei propri istinti, dei propri egoismi.
È spaventoso pensare che l’uomo ancora oggi viva da selvaggio. Non sono bastati duemila anni di cristianesimo per convertilo alla grazia di Dio.
Se almeno i credenti avessero creduto nella grazia di Dio, ovvero nel mondo dello Spirito vivificante, forse non saremmo al punto di vivere in un paese in mano a dei barbari.
 

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