Omelie 2020 di don Giorgio: PRIMA DI QUARESIMA
1 marzo 2020: PRIMA DI QUARESIMA
Is 58,4b-12b; 2Cor 5,18-6,2; Mt 4,1-11
Momento favorevole, giorno della salvezza
Rubando una bella espressione dell’apostolo Paolo, che troviamo alla fine del secondo brano della Messa, possiamo presentare la Quaresima come “il momento favorevole, il giorno della salvezza”.
Dire momento o periodo o giorno è la stessa cosa. La parola “giorno” non ha necessariamente una indicazione cronologica da intendere in senso stretto di 24 ore. Quando diciamo “al giorno d’oggi” intendiamo la nostra epoca. In ogni caso, il giorno riguarda il presente, e non il passato o il futuro.
C’è un secondo chiarimento. San Paolo non dice “un” tempo favorevole”, ma “il” tempo favorevole, non dice “un” giorno della salvezza, ma “il” giorno della salvezza, a indicare che si tratta di qualcosa di eccellente, di qualificato, di unico.
C’è un terzo chiarimento. Che significa che il momento è “favorevole”? Che significa parlare del “giorno della salvezza”?
L’aggettivo “favorevole” ha diversi sinonimi, ma può anche indicare una opportunità da cogliere, da sfruttare intensamente, un periodo di tempo da non trascurare o lasciar perdere, perché può lasciare un segno nel nostro essere più profondo.
Insomma, nel caso della Quaresima, si tratta di 40 giorni che devono rappresentare il giorno della nostra salvezza. In che senso? Che significa salvezza?
Salvezza non è da intendere nel senso di qualcosa che ci fa guadagnare un po’ di paradiso, con l’esercizio di pratiche penitenziali, una volta premiate con qualche indulgenza.
La salvezza è da intendere in senso prettamente mistico, come liberare lo spirito interiore da ogni pattume carnale, ovvero da ogni condizionamento di cose e di persone che possono bloccare la nostra libertà interiore. Quindi, non si tratta di metterci al riparo da tutto ciò che può mettere a rischio la vita eterna. La vita eterna è già qui, nel nostro essere, e non va dunque rimandata nell’al di là.
“Riconciliazione”
C’è un’altra cosa da chiarire, ed è la parola “riconciliazione”, che troviamo sempre nel brano dell’apostolo Paolo.
Quando si parla oggi di “riconciliazione” il cattolico pensa alla nuova definizione del sacramento una volta chiamato semplicemente della “confessione e della remissione dei peccati”.
La riconciliazione va ben oltre o, meglio, anticipa, viene prima della confessione e remissione dei peccati.
Non basta il pentimento di aver commesso dei peccati, e neppure può bastare la grazia del sacramento, se manca la conversione interiore.
Riconciliazione è il frutto della conversione interiore. Prima si cambia mentalità, e di conseguenza si cambia il proprio comportamento: questa è la premessa per una riconciliazione con Dio.
E nella riconciliazione con il mondo del Divino avviene ogni riconciliazione con il mondo del Creato.
E allora il peccato (di cui i singoli peccati sono la conseguenza) è la rottura di un’armonia che riguarda l’universo.
Peccando non offendo Dio (ridicolo che si insista ancora a dire queste cose soprattutto ai bambini!) , ma ferisco l’armonia cosmica.
Riconciliazione allora significa rimettersi in contatto con il nostro spirito interiore (rientrando in sé), il quale esigerà a sua volta il contatto con lo Spirito divino.
In altre parole, noi siamo dissociati da noi stessi, in quanto dissociamo lo spirito dall’Essere divino.
E chi ci dissocia da noi stessi è il mondo esteriore che ci rende estranei a noi stessi.
Sant’Agostino, nella sua autobiografia, le “Confessioni”, parla di una alienante “regione della dis-somiglianza”: espressione, con cui il Santo di Ippona si pentiva di essersi smarrito sui sentieri della lontananza dalla somiglianza divina. L’espressione “regione della dis-somiglianza” era di Platone, giunta a Agostino attraverso Plotino. C’è anche un richiamo evangelico nella parabola del figlio che esce di casa: è andato in “regionem longinquam”, lontano dalla casa del padre.
Platone, Plotino e Agostino, con l’espressione “in regione dis-similitudinis” intendevano dire che più gli esseri sono lontani dall’Uno, dal Bene Assoluto, cioè da Dio, più si avvicinano alla materia o al male, e perciò essi sono dis-simili, se è vero che, come dice la Genesi, l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza” con Dio.
“Fu condotto dallo Spirito nel deserto”
Passando al brano del Vangelo, sarebbe interessante soffermarsi sulle prime parole, quando Matteo scrive: «Il Signore Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo». Invece che “fu condotto”, alcuni traducono “fu spinto”: un verbo ancora più forte.
Lo Spirito, che era sceso su Gesù durante il battesimo nel Giordano, è lo stesso che poi lo condurrà o lo spingerà nel deserto. Non sembra una cosa del tutto paradossale?
Sarei tentato di dire che qui troviamo la bellezza della tentazione, come prova di Dio che si serve del diavolo per mettere alla prova la fedeltà delle sue creature.
A tentarci, dunque, non è il diavolo, ma Dio stesso. Ma nel “Padre nostro” diciamo il contrario: supplichiamo il Signore perché non ci tenti, ovvero non ci metta alla prova.
Temiamo di essere messi alla prova. Forse perché ci riteniamo deboli, perciò incapaci di superarla? No, non è esattamente così. È perché siamo vigliacchi, e preferiamo condurre una esistenza piatta, priva di emozioni, di stimoli per crescere.
Dimentichiamo che ogni prova è una purificazione del nostro essere, in vista di quell’incontro con il Divino che richiede però anche il Calvario.
Certo, Cristo non aveva bisogno di essere tentato, ma la pagina di oggi ci rivela quali sono le principali tentazioni a cui siamo soggetti: la tentazione del pane (o del ventre), la tentazione del miracolismo spettacolare e la tentazione del potere.
Ma le prove più reali sono quelle quotidiane, che dobbiamo superare giorno dopo giorno nel nostro piccolo. Prendere le prove e trasformarle in crescita non è sempre facile.
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